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Voglio dedicare questa One shot a tutte le
ragazze del Fanficiton Italia
♥ (http://fanfictionitalia.forumfree.it/).
Ci metterei una vita ad elencare tutti i vostri nomi, ma sappiate che
mi date
sempre la carica per scrivere nuove storielle *-*
NOTE:
è sicuramente una AU:
Damon è un vampiro ma non viene spiegato né come
né chi l’ha trasformato…voi
fidatevi che è stato trasformato in vampiro u.u
La piccola Rosemary è mia, solo mia *-* *spupazza* e
ringrazio sempre le girls per la scelta ardua del nome!
Spero che vi piaccia ♥
Elena
poggiò le dita
affusolate sull’interruttore rivelando la figura seduta nel
salotto di casa
sua.
“Sapevo
che saresti venuto”
Si
strinse ancora di più
nella vestaglia color glicine e scostò i capelli raccolti in
una coda bassa.
Sul viso l’accenno di un malinconico sorriso che lasciava
tuttavia trasparire
un’incontenibile gioia.
“Sbaglio
o questa una volta
era anche casa mia?” sorrise beffardo l’uomo
indicando vagamente il salotto, ma
alludendo all’intera abitazione.
Elena
si concesse una
risata e appoggiò la schiena allo stipite della porta
tenendo gli occhi fissi
su quello che, non importava cosa fosse diventato, era ancora suo
marito.
“Questa
è casa tua,
Damon” affermò la giovane
donna non potendo trattenere un triste sospiro che contagiò
anche il vampiro.
Damon
osservò le pareti e i
mobili del salotto in cui un tempo aveva passato la maggior parte del
suo
tempo: i quadri erano ancora appesi alle pareti così come le
fotografie, forse
Elena ne aveva aggiunta una nuova qua e là, evidenti i segni
di come era stata
maldestra nell’attaccare i chiodi;
il
tavolinetto era posto proprio al centro della sala, ma il divano nero
non occupava
più la stessa posizione, era stato allontanato di qualche
metro.
Tutto
sembrava così diverso
sotto le luci soffuse del lampadario e Damon al centro della sala
semivuota
aveva un qualcosa di surreale.
Ma
c’era un qualcosa di
insolito in quel salotto e Damon se ne accorse all’istante:
sul tavolo giaceva
una pila di piatti di plastica sporchi con altrettante forchettine che
sembravano
contornare un piatto più grande contenente una fettina di
torta al cioccolato e
una candelina un po’ storta e consumata posta sopra; sotto il
tavolo invece
erano accumulati brandelli di carta regalo, nastrini, pacchetti, stelle
colorate che sembravano essere state calpestate più volte,
raccolte e lasciate
lì in un angolo, quasi a testimoniare ciò che era
accaduto in quella casa solo
poche ore prima.
“Cos’è,
è passato l’uragano
Rosemary?” disse Damon con
un sorriso
sardonico girando su se stesso e notando il disordine che regnava in
quella
stanza, per poi posizionarsi sul divano in fondo alla sala.
“Ho
dovuto chiudere le
porte delle altre camere! Non credevo che i bambini di sei anni
potessero
essere così scalmanati” si lamentò
Elena avanzando nelle sue ciabatte da notte
e appollaiandosi accanto al marito.
Non
sentiva Damon da più di
sei anni, da quando era stato inevitabilmente strappato alla vita; non parlava con Damon da
più di
sei anni, da quando aveva dato alla luce la loro splendida bambina; non
toccava
Damon da più di sei anni eppure quella sua vicinanza non la
fece vacillare: ne
sarebbero anche potuti passare venti di anni, ma l’odore di
Damon rimaneva
sempre lo stesso, come quando l’aveva conosciuto la prima
volta da ragazzo.
Elena si inebriò di quel profumo che le invase le narici
fino a farla sospirare
di piacere. Piegò il collo e trovò il suo posto
esattamente nell’incavo della
clavicola di Damon: i loro corpi erano i pezzi di un puzzle, due
calamite
separate da un muro invalicabile.
“Mi
sei mancata”.
Elena
espirò piano, quasi
come per intrappolare quelle parole in una gabbia immaginaria della sua
mente,
per intersecarle nella rete di ricordi che affliggevano il suo animo:
le notti
insonni, intervallate dai vagiti della neonata, dove il letto era
sempre o
troppo freddo o troppo vuoto; le lunghe ore davanti alla finestra con
la
piccola Rosemary in braccio che picchiettava le manine paffute sul
vetro gelido,
aspettando chissà che cosa; gli interminabili sospiri
davanti a quegli occhi innocentemente
azzurri un po’ assonnati che reclamavano il loro meritato
riposo.
Sentii
il magone aumentare
e le nubi addensarsi davanti ai suoi occhi. Era gioia liquida,
palpabile,
vivibile eppure sentiva quasi come se il cuore le si contorcesse tra le
costole, come se quelle lacrime fossero andate perdute da un momento
all’altro.
Il
corpo di Elena era
scosso da singulti, perfettamente udibili nel silente salotto eppure
lei si
mordeva il labbro, così da fermare i tremiti che la
scuotevano come una foglia
in pieno autunno.
Il
corpo di Damon invece
era come un blocco di ghiaccio. Muto, fermo se ne stava lì a
bearsi dell’aroma
di carta e polvere che aleggiava per la stanza.
Aveva
perso la sua casa, la
sua famiglia, la sua vita.
Troppo
forte era stata la
tentazione di entrare dalla finestra al suono dolce delle ninna nanne
di Elena
per far addormentare la loro piccola creatura; non aveva potuto evitare
di
spiare la loro bambina in giardino mentre giocava a rincorrere una
farfalla nel
suo vestitino azzurro; era stato troppo vigliacco per bussare
più di una volta
a quella porta, tremando nel rincontrare gli occhi color nocciola di
Elena.
Sentì
gli argini dei suoi
occhi cedere e una lacrima gli rigò il viso facendo
sciogliere le scaglie di
ghiaccio depositate in fondo al cuore.
Al suo
fianco Elena aveva
smesso di sussultare e intrecciava le sue sottili dita a quelle del
vampiro.
“Vuoi
vederla?” chiese, ma
non esitò ad aspettare la risposta.
Damon
si lasciò condurre
docilmente su per le scale fino a scontrare gli occhi su una porta
semiaperta.
Un’occhiata
di Elena gli
diede l’implicito permesso ad avanzare, eppure i suoi piedi
sembravano ancorati
al suolo, un intricato groviglio di radici si estendeva al posto delle
gambe.
Damon
allungò la mano fino
ad incontrare la superficie liscia della porta e la
semioscurità fu divelta
dalla luce.
Sentiva
le spalle ricurve,
oppresse da troppi pesi, troppi pensieri.
La
stanza era piccola ma
accogliente, tappezzata qua e là da disegni colorati che
raffiguravano una
bambina, con due puntini azzurri come occhi, che dava la mano ad una
figura più
alta di lei con i capelli lunghi di un intenso marrone.
La
finestra era aperta e
sotto di essa vi era una cassapanca da cui straboccavano numerosi
pupazzi
sorridenti, bambole con le treccine e orsacchiotti soffici e morbidi.
Damon
arcuò le labbra in un insolito sorriso, così
diverso da quelli dall’aria da
sbruffone.
Spostò
lo sguardo e
l’inconfondibile forma del letto gli si presentò
davanti ai suoi occhi.
Il
vuoto nel suo cuore
sembro rimbombare così da fare tremare le costole che lo
imprigionavano.
Una
figura minuta, lambita
solo da un sottile lenzuolo, stava adagiata su quel letto. Il volto,
addolcito
da due guance paffutelle, era poggiato sul cuscino morbido e una mano
era
portata a contatto con le labbra.
Damon
si avvicinò
silenziosamente a lei, eppure ogni passo che faceva sembrava che
potesse
svegliarla e rompere quel sottile filo su cui avanzava.
Era la
creatura più
deliziosa che avesse mai visto: i finissimi capelli castano scuro,
quasi neri,
inondavano il cuscino, ricadendone alcuni sul faccino rotondo e roseo i
cui
occhi erano serrati e adornati da lunghissime ciglia; se solo avesse
potuto
vederli quel giorno alla festa, i suoi occhi: sarebbero stati grandi e
vispi
nel giocare con i compagni, si sarebbero inondati di stupore e gioia ad
ogni
regalo scartato dalle sue manine, si sarebbero velati di tristezza e
sonnolenza
ad ogni bambino che la salutava con la manina, scortato dai propri
genitori.
E ora
quegli occhi
rimanevano chiusi, così da non potersi tuffare in quelli
identici ai suoi, due
frammenti di oceano rubati al mondo e racchiusi lì dentro.
Damon
avrebbe voluto dire
tante, troppe cose e forse per questo la lingua si era inceppata e non
aveva
alcuna voglia di collaborare. Non sarebbe riuscito a fare il padre
così come
non era riuscito nell’impresa il suo di padre, Giuseppe
Salvatore.
Tuttavia
la sua mano si
mosse sola, guidata dai desideri del suo subconscio e si
posizionò sulla
sottile stoffa del pigiama color verde mela: il calore del suo
corpicino si
propagava sotto la fredda mano del vampiro.
Il
sangue che le scorreva
in petto era quello suo, suo e di Elena. Riusciva a sentirlo, il
piccolo e
martellante cuore che rimbalzava placido contro il suo petto.
E fu
allora che Damon ne
ebbe la certezza: lì risiedeva la sua umanità,
nel cuore di sua figlia che per
metà era anche il suo.
Sentì
una mano posarsi
leggera sulla spalla ed Elena fu al suo fianco.
“Hai
visto quello?” chiese
piano facendo un cenno al disegno posto sopra la testolina di Rosemary.
Damon
ancora teneva lo
sguardo fisso sulla bambina il cui respiro regolare non dava segni di
alcun
imminente risveglio.
Alzò
gli occhi e fu
incuriosito da uno strano disegno: era Rosemary, ma non riusciva a
comprendere
chi fosse l’uomo accanto a lei così simile a lui.
“Mi
tradisci e non mi dici
niente?” sbottò Damon intuendo comunque che non
fosse quella la conclusione
adeguata.
Elena
lo spintonò col
gomito per poi stringersi ancora di più la corda della
vestaglia attorno alla
sua sottile vita.
“Quello
sei tu” disse leggermente
infastidita dal fatto che suo marito avesse potuto pensare a una cosa
del
genere.
Damon
trattenne un sorriso
divertito per la reazione della moglie e tornò a esaminare
il dipinto: era proprio lui la
figura
sorridente, con i capelli e i vestiti neri che dava la mano alla
bambina,
anch’ella munita di un sorriso a mezzaluna.
“Lei
ti immagina così.
Questo disegno lo ha fatto oggi: sperava che venissi al suo
compleanno”.
Damon
si rizzò in piedi
allontanandosi di qualche passo dalla bimba e inducendo Elena a
lasciare la
stanza non prima di averle rimboccato le coperte.
“Se
la caverà, starà bene, starete
bene”.
“Crescendo
senza un padre”
sospirò Elena arrestando il piede sull’ultimo
gradino della scalinata.
Damon
si fermò e curvò le
spalle ritornate nuovamente pesanti: era il momento
dell’addio, ciò per cui
odiava ritornare in quella casa, ciò per cui odiava se
stesso per quello che
avrebbe fatto.
Damon
si voltò, gli occhi
plumbei e grandi gonfi di lacrime represse.
Elena
deglutì rumorosamente
ed emise un sospiro, anche lei conscia di cosa le stava per dire.
“Non
è giusto avere un
marito immortale. Avrai sempre i tuoi ventidue anni, mentre io
diventerò
vecchia” disse Elena tentando di sdrammatizzare la situazione
ma due lacrime
sfuggirono al suo controllo.
“Ventisette
anni e già un
capello bianco: stai diventando proprio vecchia!” sorrise
ambiguamente il
vampiro stando al gioco della moglie che adesso sembrava non volesse
più
scherzare.
“Sarete
felici” continuò
poi portando le mani di Elena sulle sue e scontrando la sua fronte con
quella
di lei che aveva ceduto al pianto.
“Quanto
è lontana questa
felicità?”.
Elena
sentiva il magone
crescere e aumentare a dismisura: non sarebbero bastate le lacrime a
spazzarlo
via, né infinite notti insonne. Non poteva esistere per lei
felicità alcuna se
non stare con Damon, né poteva stare con Damon senza essere
felice.
Per
lei felicità e Damon
erano due atomi inscindibili.
“La
distanza tra voi e me”.
Damon
aprì gli occhi e la
baciò in fronte così come aveva fatto anche le altre volte. Non poteva permettersi di
baciarla sulle labbra,
sarebbe stato doppiamente atroce abbandonarla poi.
Prese
il suo viso tra le
mani e incrociò i suoi occhi.
Anche
per quella volta non
ci sarebbe riuscito.
Richiamò
dentro di se le
immagini di quella notte, i ricordi più belli vissuti con
Elena e i pochi
istanti con la sua Rosemary.
Brancolava
nel buio più
assoluto, annegava nel nero della sua scelta masochista.
Poi lo
trovò,
l’interruttore per spegnere tutto e per dargli la forza di
compiere quel gesto.
“Anche
per questa volta non
ricorderai che io sono stato qui, ma sappi che ti amo”.
Le
pupille si dilatarono e
nella stanza non vi fu più alcuna traccia di Damon.