Storie originali > Horror
Ricorda la storia  |      
Autore: WhitePumpkin    19/07/2011    3 recensioni
La morte arriva in un sala da the: ha puntato una nuova vittima. E, si sa, se la morte vuole una persona, deve prendersela per forza. Stavolta, però, è in vena di scherzi e di effetti speciali... Cosa avrà architettato per uccidere la Signora Irene?
Genere: Demenziale, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
La morte è così che va: arriva che nemmeno te ne accorgi e ti si porta via, non sta mica lì a pensarci o a farsi tanto supplicare! A volte non avverte neanche: si trova a passeggio, nota un individuo chissà in base a cosa e decide di volerlo; e allora ecco che fa capitare qualcosa che le consenta di prenderselo, e hai voglia a chieder pietà!
Nessuna frase la può commuovere, non sta a guardare l’età, non le interessa se hai famiglia e ancor meno le importa che a te di morir proprio non va, non ce l’avevi nei piani imminenti e non ne hai voglia alcuna. Puoi parlare anche per ore mai lei non t’ascolta: l’unico pensiero suo è pianificare il modo col quale può prenderti a sé; il modo, in poche parole, col quale farti morire, e una volta deciso eccola là che s’adopra tutta per attenuarlo, e fa sì che tale malattia ti colpisca o che qualcuno ti travolga con l’auto, o che ti caschi in testa un mattone.
Il più delle volte essa è magnanima, cerca di evitare le sofferenze: un colpo al cuore, una morte nel sonno, un rapido incidente. Ma spesso, ahimé, si sente cattiva e vendicativa con l’umanità, e assegna morti lente attraverso lunghe e sofferenti malattie. Infine alcune volte si sente scherzosa e gioconda, e allora ecco che architetta morti strane e insolite!
C’è anche il caso in cui non nota certi individui, o essi entrano casualmente nelle sue grazie, e allora ecco che va a prenderli quando sono talmente vecchi da non ricordare neanche più il loro nome, e la accolgono perché sanno che è giusto così, che è giunta l’ora in cui i possedimenti loro passino ai figli che da tanto li stanno attendendo. Ma, a meno che tali figli non siate proprio voi, quest’ultimo caso direi proprio che è il più noioso ed è quello su cui meno c’è da raccontare.
Anche il caso delle malattie lo trovo ben poco interessante, poiché esse si svolgono nel medesimo modo: il soggetto si ammala per svariate ragioni (ma di queste non sto a discorrere perché medico non sono), con analisi e controlli lo scopre e, dopo un arco variabile di tempo, ecco che muore. Nulla di eclatante o di entusiasmante.
Il primo caso è forse già un po’ più degno di nota: ci sono incidenti, oserei dire, spettacolari (se ovviamente non ne siamo coinvolti in prima persona).
Ma il caso in assoluto migliore è quando la morte è in vena di scherzi, ed è di questo che discorrerò.
La signora Irene era una donna grassa e alquanto brutta. Era alta, altissima, un metro e ottanta almeno, il che avrebbe dovuto favorire una linea se non magra, per lo meno nella norma. Ella invece era un colosso: aveva le spalle di un nuotatore, il senso enorme e cadente, pancia sporgente, cosce abbondanti, dita grassocce e, se me lo permettete, un fondoschiena che occupava tronfio la bellezza di metà divano.
Anche gli occhi, d’un verde insipido, parevano grassi per quanto sporgessero; le guance erano tonde e sempre rossastre, lei diceva pel trucco, ma io resto convinta che la causa fosse nient’altro che il vino rosso, ch’ella tanto estimava. Il mento…che dico, il! I menti! Quanti menti che aveva e quanti colli! E quei quattro peli ricci le stavano in testa a dispetto di tutto, come a voler sfidare cotanto lardo, e lei se li tingeva di un colore insignificante, che non si capiva se fosse un castano, un biondo o un color topo.
Ora, è usanza affermare che l’intelligenza sovente si cela in corpi tutt’altro che aggraziati: ecco, neppure questo era il caso suo. Sotto a quegli innumerevoli strati di grasso, nient’altro si celava se non più grasso ancora. Come fosse abile a leggere e scrivere e fare qualche conto ancora non è noto: eppure essa quanto vanto faceva della sua presunta conoscenza letteraria! Stando a sentirla, aveva affrontato gli studi classici in gioventù, quando viveva, guarda caso, in un’altra regione: io però, vi dico, son quasi certa ch’essa si fosse fermata alla licenza media e quel “quasi” l’ho posto perché mi resta in cor il dubbio meschino che si fosse arrestata invece alla quinta elementare. Ma non solo la signora Irene si vantava per questa cultura: amava far sfoggio di ricchezze, si ingioiellava, non lavava i suoi capelli se non dal parrucchiere, e puntuale a partire dal primo di novembre tirava fuori il suo visone.
Ora, di certo il necessario sostentamento non le mancò giammai, ma tutto il resto altro non era che facciata: i gioielli, ma questo nessuno ne era a conoscenza, erano tutti un’eredità della defunta zia (l’unica parte che a lei era toccata); il visone era sempre lo stesso da ben trent’anni e fu regalatogli all’epoca dal suo povero marito, per farle la corte (qual coraggio!); automobili non ne possedeva, sicuramente pel costo della manutenzione e benzina, ma affermava invece di non volerne perché guidare non si confà alle vere signore. Queste, a suo giudizio, è necessario che viaggino in taci: eppure molte volte io la vidi scendere furtiva, armata di occhiali neri e sciarpa fino al naso, da autobus e tram, una o due fermate precedenti dalla sala da the che era solita frequentare (che poi è quella che frequentavo anch’io, ed è lì che la conobbi).
Successivamente seppi che aveva dato l’esame per il conseguimento della patente per ben diciassette volte e, stufa di vedersi inesorabilmente bocciata, vi aveva alla fine rinunziato: ma queste sono probabilmente dicerie, o per lo meno me lo auguro… Suvvia, chi sarebbe tanto folle da ripetere lo stesso esame per diciassette volte? Al massimo io lo rifarei cinque o sei, che possiamo considerare il margine tra sfortuna e incapacità, ma alla settima è naturale che si getti la spugna, nonché dignitoso.
Affar suo, comunque, io non son di certo una che s’immischia: se son così ben informata è perché trovandomi spesso alla sala da the sono circondata da pettegole e ignorare il loro stridulo timbro è pressoché impossibile.
Insomma, ora che vi ho descritto la signora Irene è giunta l’ora di passare a ciò per cui iniziai a scriver questa storia: narrarvi la sua assurda morte! Oh, se ci foste stato, che sollazzo! Una scena di cui, per chi non l’ha vista è proprio un peccato, è arduo trasmettervi le sensazioni ma diamine, sono la scrittrice! Farò del mio meglio.
Me ne stavo al mio solito tavolino tondo all’angolo di destra, sorseggiando un the al lampone (uno fra i favoriti miei). Mangiavo le petites madeleines e intanto leggevo un bel libro di Proust, ed ero giunta guarda caso al momento in cui anche Marcel beveva the mangiando i medesimi dolcetti.
La signora Irene entrò, pomposa come al solito. Tutto il suo lardo stava stretto in un abito giallo canarino pieno di fronzoli e merletti ovunque e con degli enormi bottoni sul davanti che parevano destinati a saltar via da un momento all’altro. Sopra indossava una giacchina dello stesso colore e prudentemente l’aveva lasciata slacciata, affinché (penso io) chiudendola sul davanti non si squarciasse sul di dietro. I suoi piedoni gonfi se ne stavano insaccati in un paio di decolté beige chiaro con un tacco quadrato larghissimo, poiché uno ordinario non avrebbe retto tanto sforzo. Aveva in testa un orribile cappellino, anch’esso beige, con un fiore sul lato che pareva uno sputo. Al collo s’era messa una collana bella larga d’oro giallo dalla quale pendeva un ciondolo con una pietra incolore. Aveva stretta fra le sue dita a salsiccia una borsetta gialla pelosa come un gatto soriano. Cominciò a salutare a destra e a manca: il proprietario, le cameriere, vari uomini seduti a un tavolo, e infine prese posto al tavolino di fronte al mio. Io feci finta d’esser concentrata sul volume affinché non mi salutasse, ma credo che in ogni caso non m’avesse notata, poiché da com’era seduta non rientravo nel suo campo visivo. La sentii ordinare un the con latte e un plum cake ai mirtilli. Quando la cameriera si allontanò dal tavolo per preparare l’ordinazione, la signora tirò fuori un libriccino e si mise a leggere anche lei.
Dopo cinque minuti circa, la ragazza ritornò col the e con la torta, forchetta, coltellino e zollette di zucchero. Lei, avida, cominciò a bere e la vidi imprecare poiché s’era scottata la lingua col liquido ancora bollente. Passò allora ad attaccare il plum cake e lo tagliò tanto violentemente che una briciola le schizzò in un occhio. Fece per stropicciarselo ma, ahimé, aveva ancora le posate in mano e accadde che s’infilzò la punta del coltellino dentro al bulbo oculare e prese a urlare come una forsennata, tenendone il manico per paura di estrarlo. Gli uomini che aveva salutato entrando si alzarono e accorsero, mentre gli altri seduti ai tavoli osservavano spaventati e schifati la scena.
Allora io scostai la lunga tovaglia del mio tavolino, sapendo che lei se ne stava lì. Un istinto mi guidava, me lo sentivo, e difatti c’era: la morte. Stava avvolta nel suo mantello nero, seduta scomodamente per terra; io le feci psst e si voltò di scatto, intimandomi di non disturbarla. Io compresi che voleva divertirsi un po’ e dunque rimisi al suo posto la tovaglia e mi risedetti per bene, con fare indifferente. Mangiai un’altra madeleine mentre mi gustavo la scena. Tutti cercavano di estrarre la posata dall’occhio della signora Irene il più delicatamente possibile e lei se ne stava immobile e pallida, sudando freddo ed emettendo versi di terrore. Mentre un uomo teneva l’estremità del coltellino fra le dita, stava giungendo l’ultima delle cameriere, accortasi ora dell’incidente poiché impegnata a riordinare il bancone dei dolci. Ebbene, essa ad un certo punto inciampò in quello che pareva il nulla (ma io sapevo che la mia compagna da sotto al tavolo aveva teso la gamba al suo passaggio) e cadde in avanti, addosso proprio alla schiena della signora Irene, che a suo volta si curvò per effetto di quel peso e il risultato fu che il coltello si conficcò ancor più in profondità e che essa lanciò urli penetranti di vero e proprio terrore, e la stessa cosa fecero molti dei presenti. Una donna svenne addirittura, cadendo dalla sedia. Alla fine si decisero a portarla all’ospedale: due uomini la sostenevano ai lati per farla alzare dalla sedia e farla camminare fino all’uscita della sala. Ma io sapevo che non se la sarebbero cavati con poco: se la morte si trovava là, proprio fra i miei piedi, significava che la signora Irene doveva morire, poiché essa non si scomodava mica per un semplice incidentuccio di tal poco conto! Con me era successo, ma era stato un errore: difatti essa voleva farmi morire e organizzò per me un incidente in macchina. C’era praticamente riuscita, poiché il cuore mio s’era arrestato per qualche attimo; quindi, credendo d’averla fatta franca, si era concessa di distrarsi e le fu fatale: un medico, infatti, riuscì a rianimarmi e io “tornai” in vita. Da quel momento in poi riesco a vederla. All’inizio se l’era presa, aveva chiuso i pugni e battuto i piedi a terra emettendo grugniti rabbiosi. Poi s’era rassegnata e quindi, come premio per averla sconfitta, m’aveva consentito di scegliere quando lasciare questo mondo: quand’avessi capito o deciso che fosse ora di morire, dovevo recarmi da lei e avrebbe risolto. Ecco, questo è il mio segreto, ma adesso torniamo alla signora Irene.
L’avevamo lasciata che usciva dalla sala, con due uomini a tenerla e un coltello nell’occhio. Appena ebbe varcato la soglia, un gatto randagio, ovviamente nero, le passò fra le grosse gambe facendole perdere l’equilibrio. I due non riuscirono a reggere tutto quel peso e quindi dovettero lasciarla cadere. Quel che voi non sapete, ma che ora vi dirò, è che per arrivare alla Sala bisogna salire ben sedici gradini: la signora Irene li fece dunque tutti ruzzolando e, quando arrivò alla fine, prese a urlare come un’indemoniata poiché nella caduta s’era rotta una gamba. Ve l’immaginate la scena? Una botte di mole smisurata, gialla e beige, che rotola giù per le scale gridando! Debbo confessarvi che ero molto ma molto divertita, seppur la disperazione di coloro che mi stavano attorno esigesse, se non altrettanto, quantomeno un contegno. Riuscii a mantenerlo, seppur lo sforzo fu notevole, finché non assistetti alla scena successiva.
La morte era accanto alla signora Irene e dal suo ghigno beffardo intesi che già aveva ben in mente la prossima mossa e si accingeva ad attuarla. Così fu.
Quasi tutti i clienti della Sala s’erano precipitati giù per le scale, coll’intenzione di aiutare la botte gialla precipitata,ma con la gamba rotta ella era adesso impossibilitata ad ogni movimento. Dunque un uomo l’afferrò per le spalle, l’altro per i piedi, per condurla sdraiata dall’altro lato della strada, dove stava parcheggiata la loro automobile, caricarla su e portarla al pronto soccorso.
Io frattanto avevo sceso i gradini e me ne stavo in piedi a fianco della Morte. Essa mi avvisò che ciò che avrebbe fatto di lì a poco non sarebbe stato piacevole da guardare, ma io le risposi che non ero facilmente impressionabile. Dunque, mentre il terzetto attraversava la strada, la Morte sollevò l’ossuta mano destra tenendo pollice, indice e medio alzate e anulare e mignolo piegati, con la punta che toccava il palmo. Abbassò anche il pollice, lentamente, mentre i tre si trovavano proprio al centro della strada.
Ripiegò il medio quando erano giunti sull’altra corsia.
Mentre, infine, abbassava l’indice, si sentì il rombo di una moto e, quando la punta del dito d’era ormai congiunta con l’interno della mano, quella moto ci passò davanti agli occhi ad una velocità tale che l’unica cosa ch’io vidi furono i due uomini cadere uno in avanti e uno all’indietro mentre essa passava fra loro, e la signora Irene volare per aria e dividersi nettamente in due all’altezza dell’ombelico mentre i pezzi del suo corpo venivano dall’impatto scaraventati a metri di distanza, in mezzo a una pioggia di sangue che macchiò l’asfalto.
A quel punto vidi la morte andarsene e c’era chi gridava, chi piangeva, chi sveniva, chi addirittura vomitava. Approfittai di quel momento di distrazione generale per concedermi la sana risata che da tanto mi premeva in gola, risalii gli scalini e tornai al tavolo, per finire il mio the al lampone, non ancora del tutto raffreddato. Inoltre, avendo terminato le mie madeleine, accompagnai la bevanda con una fetta del plum cake che la sbadata signora Irene avea lasciata pressoché intatta e pensai che ella, seppur grassa, brutta e stupida, aveva per lo meno un buon gusto, poiché quel dolce era davvero delizioso.

  
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Horror / Vai alla pagina dell'autore: WhitePumpkin