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Autore: piper3snape    19/07/2011    1 recensioni
L'odiato-amato liceo classico.
Il mio incontro con "la luna" in un'aula scolastica.
Una coicidenza o forse è destino?
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Scuola. L'odiato-amato Liceo Classico. Vuoto.
Io e lei che girovaghiamo senza meta in quel grande edificio deserto. Arriviamo di fronte alla finestra più grande del secondo piano. In fondo alle scale principali.
E osserviamo il cortile. Lo stesso cortile che ogni giorno alle 10.50 si popola di ragazzi.
Dieci minuti di libertà, di sfogo, di caffè buttati giù troppo velocemente, di bevande che scottano la lingua, di fughe, di inseguimenti, di corteggiamenti, di sguardi, di liti, di ripassi dell'ultimo minuto, di parole veloci, di istanti rubati.
E poi togliamo lo sguardo dal cortile e ci allontaniamo piano dalla finestra.
Corridoio sinistro. Lo percorriamo lentamente. Passo dopo passo. Fino ad arrivare al gettonatissimo distributore. Facciamo per scendere le scale quando mi volto di scatto a sinistra.
La vedo.
La II B. La sua classe. Ma anche la mia. La ex I E.
Un'aula piena di ricordi. Pochi metri quadrati stracolmi di vecchie emozioni. Un lampo.
E le prendo d'istinto la mano costringendola a seguirmi fino alla porta. La lascio delicatamente e metto la mia mano sulla maniglia. Faccio una leggera pressione. Non si apre.
«Cavolo, è chiusa!» esclamo delusa tra me e me.
Ma all'improvviso un flash. E mi vengono in mente le miriadi di volte in cui l'anno scorso tornando dalla palestra provavo ad aprire la porta. A volte non ci riuscivo.
Pensavo : «Il bidello non l'avrà ancora aperta».
E poi invece arrivava uno qualunque dei miei compagni e voilà, la porta è aperta!
Quindi riprovo più forte. Niente. Di nuovo. Ma ancora non si apre. Sto tentando un'ultima volta quando sento la sua mano sulla mia.
E' piacevole. Morbidissima. Un delicato petalo di rosa che si posa sulla mia pelle.
Facciamo pressione insieme. E la porta si apre. La guardo. Le sorrido. E poi entriamo.
D'istinto vado verso il mio banco. Il mio posto. Terza fila a destra. Ma non c'è.
«Noooo, e dov'è?» dico piano.
«Cosa?» fa lei.
«Il mio banco. Non c'è più» rispondo un pò delusa.
«Prova al primo banco a destra!» mi dice dolce.
Mi avvicino. «"Se il tuo amore non valgo non amarmi ma non mandarmi via"...si si, è proprio il mio!» esclamo contenta.
«Eh no» fa lei, «E' mio!».
«Come il tuo? Vuoi dirmi che questo è il tuo posto?».
Fa cenno di si con la testa e poi si siede elegantemente proprio su quel banco. Sul mio banco. Sul suo.
Le tende sono aperte e la luce di un sole pomeridiano entra dolcemente nella stanza. Le bacia il viso. Le gambe. Le braccia. Le mette addosso una luce particolare. Quasi divina.
E sembra proprio un angelo. Il mio angelo castano.
E la guardo. E ancora. E ancora. I miei occhi sono rapiti da quella visione. Da quei lineamenti. Da quel corpo. Da quei fantastici capelli ricci.
Mi guarda anche lei. E allora mi perdo nei suoi occhi scuri. E tutto il mondo mi sembra che si fermi lì, che sia tutto racchiuso in quei due occhi. In quelle due luminosissime stelle.
Cosa dirle? Come riuscire a spiegarle tutto quello che provo?
E intanto i secondi scorrono. Se ne vanno per sempre. Ma in dolce compagnia poichè ben presto scivolano via con loro anche i minuti.
Come farle capire che è il mio sole e che tutto il mio mondo ormai ruota intorno a lei?.
«Carpe diem!» si sente ripetere qua e là in continuazione. «Cogli l'attimo!».
«E c'hanno ragione!» penso tra me e me dirigendomi decisa verso di lei. Verso quel banco.
Le vado di fronte. E la guardo in silenzio mentre si porta la mano destra alla bocca. Si morde piano il pollice. Proprio come faccio spesso io.
E le sorrido. Sorrido alla sua immensa dolcezza unita alla sua grande forza. Alla sua insicurezza e alla sua determinazione. Sorrido a quella bambina che in realtà è già una piccola donna. Sorrido ai suoi pregi, ai suoi difetti, alle sue contraddizioni.
Mi avvicino un pò e le tolgo la mano dalla bocca. La faccio scivolare lentamente lungo il corpo. E mi avvicino ancora un pò. Le lascio la mano e dirigo la mia verso il suo viso.
«Sei bellissima!» le dico piano.
Mi avvicino ancora. E l'abbraccio.
Il suo profumo mi invade. E' indefinibile. Proprio come lei. Tutto particolare. Dolce e amaro, delicato e forte allo stesso tempo.
E sento il calore del suo corpo. La sento. Sento che c'è, che è lì con me. E mi basta. Mi basta per essere felice.
E vorrei non staccarmi più. Vorrei che quell'abbraccio bastasse a dire tutto, ad esprimere ogni cosa. Ma non è così. Sento che non lo è. Sento il bisogno di parlare. Di farle capire. Di far uscire ogni battito, ogni anelito di emozione che mi scorre dentro, che percorre ogni centimetro del mio corpo.
«Selene, io...» dico piano staccandomi da lei.
Mi ferma. Afferra la maglia, dietro la mia schiena, e stringe forte. Mi impedisce di muovermi.
E decido di abbandonarmi a lei. A quell'abbraccio.
A volte le parole non servono. Vorrei gridarlo al mondo, vorrei gridarlo a lei quanto è diventata fondamentale per me. E capisco che lo sto facendo. In modo chiaro. Inequivocabile. Più di mille giri di parole. Più di troppe frasi fatte, usate, logorate.
Sento la sua pelle a contatto con la mia. Le sue braccia che si intrecciano piano. Sento il suo cuore che batte, che riempie la mia parte destra. La parte vuota del mio busto. Sento il mio cuore che scalpita al suo solito posto. E proprio lì a fianco, sento il suo. Come se fosse dentro di me. Come se avessi due cuori. Come se fossi finalmente completa. A posto. No, le parole non servono quando parlano le emozioni.
E tra una parola muta e l'altra, tra un bum bum e l'altro, «Driiiiiiiin!».
Il suono della campanella che ci catapulta nella realtà.
«Cavolo, sono le 4!» esordisco staccandomi di botto da lei. A malincuore.
«Di già?». Aggiunge saltando giù dal banco. «Gli altri ci staranno aspettando al piano di sotto. E noi avremmo già dovuto iniziare a buttar giù qualche idea per il compito. E adesso che gli diciamo?».
E' preoccupata. E non fa male. Quel pomeriggio eravamo andate a scuola, una mezz'ora prima degli altri, proprio per iniziare a scrivere qualcosa su quel saggio.
La guardo. E le sorrido incrociando il suo sguardo.
«Qualcosa ci inventeremo!» dico quasi divertita.
Le prendo la mano e scappiamo via.
Ci allontaniamo di corsa da quel banco. Dal mio banco. Dal suo. Ormai dal nostro.  

  
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