Nuova Vita al Grande Tempio
Premessa – Innanzi tutto voglio dire che, per me, la
serie dei Cavalieri dello Zodiaco (o Saint Seya) nasce e muore con l’anime; non
so niente del manga, perciò non lo tengo in considerazione.
Ho scritto questo racconto per presentare tre
personaggi da me creati e che rivestono ruoli importanti nella mia
continuazione della storia, e presentare la situazione del Grande Tempio che
rinasce, dopo il ritorno di Atena.
Il primo personaggio è quello di Elettra;
gran sacerdotessa di Zeus, amore di Micene Sagitter, bandita dal santuario di
Atena per volere di Arles e ora tornata grazie a Lady Isabel. Donna dal
carattere forte, materna, profonda conoscitrice della tradizione, diverrà amica
e confidente di Isabel.
Il secondo personaggio è Celeste,
sacerdotessa guerriero e migliore amica di Tisifone fin dai tempi
dell’addestramento; libera ed insofferente a qualsiasi regola, dopo la fine
della sua relazione con Scorpio, fugge dal Grande Tempio, per tornare dopo
quasi sette anni di silenzio, sconvolgendo le vite di diverse persone.
Il terzo personaggio, che però non ha una grande
parte in questa storia, è Alexandros, il figlio che Elettra,
giovanissima, ha avuto da Micene; il ragazzo, amatissimo dalla madre, è dotato
di un cosmo molto potente e di un’innata saggezza. Per quale importante ruolo,
Atena, favorì il suo concepimento nella notte degl’inganni?
Purtroppo il racconto non risponde a quest’ultimo
interrogativo, spero comunque che il testo possa essere, almeno, interessante.
Buona lettura.
NOTA DELL’AUTRICE: per chi avesse già letto
questa fanfiction firmata con un altro nome, non preoccupatevi, sono sempre
io, nessun plagio in giro, nella prima pubblicazione l’ho solo firmata col
mio vero nome, cioè Sara. Un bacione a
tutti!
*****
“Credo
che dovremmo spostarlo ancora un po’ a sinistra.” Mani sui fianchi, Elettra,
osservava il lunghissimo tavolo di legno d’ulivo al centro della sala. “Sì,
ancora un centimetrino a sinistra ed è a posto!” Affermò gioiosa il primo
ministro di Atena, incurante degli sbuffi dei cavalieri che lo stavano
spostando.
“Tu le hai contante, le volte che lo abbiamo
spostato?” Chiese, sussurrando, Scorpio ad
Andromeda, che gli stava al fianco.
“Sinceramente ho perso il conto…” Mugolò l’altro,
apprestandosi all’ennesimo sforzo per spostare il pesantissimo tavolo di legno
pieno, ricavato dall’ulivo millenario benedetto da Atena all’alba dei tempi.
“Questo sforzo non è degno di un cavaliere della mia
levatura… uhu…” Si lamentò Pegasus, sudando.
“Vedilo come un avvicinamento ai campi elisi… uhu…”
Gli rispose Sirio accanto a lui.
“Tu… mh… con questa storia dei campi elisi, avresti
già rotto le ba…”
“Ho detto a sinistra!” Gridò la Divina Elettra, con
tutta la potenza della sua voce abituata la comando. “Ma cos’è, a forza di sbattere
la testa, vi siete rimbambiti?”
Quel giorno Pegasus non era proprio nello stato
d’animo adatto per sopportare i moti di spirito di quella donna: ora gliene
avrebbe dette quattro…
“Ora basta!” Gridò Scorpio, sbattendo un pugno sulla
levigata superficie di legno; Pegasus lo guardò, il cavaliere dell’ottava casa
lo aveva preceduto! “Mi rifiuto di spostare nuovamente questo… questo
baraccone!” Aggiunse, ribellandosi all’ordine costituito, che vedeva la gran
sacerdotessa di Zeus uno scalino sopra di lui. Elettra si avvicinò lentamente
al tavolo, ai cui lati erano fermi i cavalieri, ed appoggiò le sue lunghe,
candide, mani sul piano, piegandosi leggermente in avanti; poi guardò Scorpio
con i suoi occhi quasi turchesi e disse:
“Scorpio, angelo mio dagli occhioni azzurri…”
Ironica come sempre, pensò Pegasus. “…finché qui comando IO, tu fai quello che
IO dico. Siamo bene intesi?” Poi trasse un respiro profondo, che fece alzare ed
abbassare il suo mitologico seno.
Per quanto facesse, Pegasus, non riusciva ad immaginare
come Micene (il suo idolo!) avesse potuto innamorarsi perdutamente di quella
donna, fino al punto di darle un figlio; certo la sua bellezza fisica era
addirittura sconvolgente, ma c’erano volte, come ora, in cui riusciva a
malapena a sopportarla. Invero, però, Pegasus non poteva dire di conoscerla
bene da giudicare le sue qualità; a Lady Isabel piaceva tanto… un motivo ci
doveva pur essere.
Elettra si voltò, allontanandosi dal tavolo e
scuotendo i capelli biondi di sole, con un sorriso trionfatore.
“Al lavoro, ragazzi.” Li invitò Scorpio, colui che
poco prima aveva osato affrontare la loro somma persecutrice.
Proprio mentre i cavalieri tornavano a piegarsi
sull’immane albero, trasformato in tavolo dalle sapienti mani dell’uomo, dalla
balconata cadde uno dei drappi, schiantandosi al suolo con un rumore
fortissimo. Elettra sobbalzò, poi sollevò lo sguardo sugli incauti uomini che
si erano fatti sfuggire il pannello di stoffa ed il suo sostegno.
“Volete farmi morire!” Gli gridò la donna,
reggendosi il petto.
“Magari…” Sussurrò Cristal, Pegasus non poté
trattenere un sorriso; in quel mentre entrava Lady Isabel.
“Che splendido lavoro, Elettra.” Affermò la ragazza,
andandole incontro e stringendole le mani.
“Grazie, cara, sei sempre così gentile!” Le rispose
la sacerdotessa. In effetti, era vero: la Divina Elettra aveva restituito la
vita al Grande Tempio.
I cavalieri erano ancora lontani, a curarsi le
ferite delle ultime battaglie, mentre lei, sostenuta dalla sua insopprimibile
volontà, in pochi mesi ricostruiva ciò che era stato distrutto, faceva
rifiorire ciò che era appassito, cancellava l’odore e le tracce di sangue da
ogni angolo del santuario e, nel frattempo, cresceva un figlio quasi
adolescente da sola e trovava la forza per superare la morte del suo più caro
amico, Acquarius.
Qual era la fonte da cui, questa donna, traeva la
sua inestinguibile energia? Ma forse era inutile porsi domande, si doveva solo
accettare di farsi travolgere dall’eterna, liquida, fiamma del suo sguardo di
cielo e di mare. Era questo che avevano fatto ben due cavalieri d’oro,
perdutamente innamoratisi di lei?
Pegasus guardò le due donne che aveva davanti,
quanto erano diverse le loro bellezze; da una parte Lady Isabel col suo candore
lunare, dall’altra Elettra con la sua fisicità terrena e solare. La gran
sacerdotessa, personalmente, non gli diceva nulla, ma doveva ammettere che, pur
col suo carattere spigoloso, stava facendo miracoli; solo pochi giorni e…
“… la sala del Simposio dei Cavalieri sarà pronta.”
Concluse la Divina Elettra.
“Benissimo, non vedo l’ora di vedere i miei
cavalieri schierati, con le loro armature lucenti.” Le rispose Milady, poi si
voltò verso di loro ed aggiunse: “Ora fate una pausa cavalieri, continuerete
più tardi.”
“Io la amo, questa donna!” Esclamò Pegasus,
allontanandosi subito dal tavolo.
“Lo sappiamo, Pegasus, lo sappiamo.” Commentò
Scorpio, non notando lo sguardo di disapprovazione del compagno.
Pegasus, quando passò vicino ad Elettra, le lanciò
uno sguardo di sfida, cui lei rispose con un ironico e sbieco sorriso.
“Non credere di essermi sfuggito.” Gli disse, poi si
rivolse a Scorpio. “A te ci penso dopo.” Neanche una minaccia, solo
un’affermazione.
Lady Isabel, invece, incurante di ciò che accadeva,
si avvicinò a Phoenix, posandogli delicatamente una mano sul braccio.
“Avrei bisogno di parlarti, vieni da me, quando hai
finito.” Affermò dolcemente, il ragazzo annuì.
“Che cosa doveva chiedermi, Milady?” Chiese Phoenix,
entrando nello studio di Isabel.
“Vieni, siediti qui davanti a me.” L’invitò la ragazza,
la sua dea; il cavalieri ubbidì, con calma.
“Ascoltami Phoenix.” Iniziò lei. “Ora che la pace è
ristabilita, il Grande Tempio ricostruito ed io reggo saldamente il mio trono,
desidero che anche tu e tuo fratello indossiate un’armatura d’oro.”
“Noi abbiamo già un’armatura d’oro.” Replicò
Phoenix, accennando alla trasformazione delle vestigia della Fenice e di
Andromeda.
“Intendo un’armatura della schiera dei guerrieri
eletti, dei supremi difensori di Atena.” Rispose calma la dea.
“Non capisco perché…”
“Perché vi voglio nella schiera, vi voglio a
presidio di una delle dodici case.” Gli spiegò Isabel. “Phoenix, ne ho parlato
con il Maestro dei Cinque Picchi e con la Divina Elettra, avrei deciso di
affidarti l’armatura di Gemini.” Il ragazzo alzò lo sguardo, fissando gli occhi
neri della sua signora, stupito.
“Ma… non credo… perché proprio quella, perché io?”
Chiese, quando ritrovò la voce.
“Gemini è stato tuo maestro.”
“Ciò che mi ha insegnato non è che male, non posso
dimenticare di essere appartenuto al male.” Affermò voltando il capo; Lady
Isabel si alzò, aggirò la scrivania e si sedette accanto a lui, prendendogli le
mani.
“Phoenix, non dimenticare che hai saputo trovare la
tua strada, che sei tornato ad amare ed a combattere per la giustizia.”
“Quelle vestigia, però…” Continuò il ragazzo
dubbioso.
“C’è un’altra cosa che non devi scordare, ed è
quella che, prima di morire, Gemini ritrovò la pace e da allora il suo spirito
ci aiutò molte volte. I volti di Gemini sono entrambi sereni, ora.” Phoenix,
però, continuava da essere insicuro e titubante. “Non è l’armatura ad
influenzare colui che l’indossa, la sua energia è sempre positiva, si deve solo
riuscire a farne il miglior uso possibile, e dipende da te, questo.”
“Milady, io…”
“Io so che il tuo animo non è confuso. Tu sai per
cosa combatti. Sei solo inquieto, ma non temere, l’essere un cavaliere d’oro
non ti impedirà di andare a cercare la tua pace lontano da qui.” Gli assicurò
la ragazza. “Non t’impedirò di andare, se vorrai farlo, ho imparato che sarebbe
inutile.” Aggiunse sorridendogli, lui fece altrettanto.
“Ma la volontà del cavaliere di Gemini?” Chiese poi.
“Se questo ti può rassicurare, ho interpellato lo
spirito di Gemini, ed egli dice che tu sei l’unico degno d’indossare le sue
sacre vestigia.” Rispose Isabel.
“Milady, ho un po’ di tempo per pensarci?” Domandò
alzandosi, lei l’imitò.
“Tutto il tempo che vuoi, questo mia proposta non ha
scadenze, Phoenix.”
“Grazie Milady, per la fiducia, soprattutto.” Le
disse, apprestandosi ad andarsene. “Ah… Milady, per quanto riguarda Andromeda?”
“Ci parlerò tra poco.” Gli rispose la ragazza, che
si era di nuovo seduta alla scrivania.
“Bene.” Concluse Phoenix, infilandosi le mani in
tasca ed uscendo dalla stanza; Lady Isabel sorrise, mentre l’osservava andare
via.
Dubbi, certezze. Scelte. Di questo è fatta la vita
di un uomo, di un cavaliere. Si vide venire incontro Pegasus; lui dubbi non ne
aveva, era stato Sagitter a sceglierlo. Ne, il suo amico, aveva dubbi
sull’appartenere ad Atena, mai lui era appartenuto a qualcun altro; ed in più
c’era ciò che lo legava a Lady Isabel, molto più di semplice fedeltà.
Phoenix, in quel momento, di certezze ne aveva solo
due: l’amore per suo fratello e la fede nella giustizia; che lo portassero
nell’ade o sugl’altari non gl’interessava.
“Ti stavo cercando!” Lo chiamò Pegasus,
avvicinandosi.
“Cosa c’è?” Chiese laconico Phoenix, con la sua voce
burbera.
“Ho bisogno di te, dobbiamo togliere un altro
pizzicore alla Divina Elettra. Gli rispose Pegasus.
“Perché non vai con Sirio o Cristal.” Replicò
l’altro voltandosi dall’altra parte, sempre con le mani in tasca.
“Perché sono ancora impegnati nella sala del
simposio. Dai sbrigati, andiamo!” Il cavaliere seguì l’amico, recalcitrante.
“Come l’hai convinta a lasciarti andare?”
“Non l’ho convinta, mi ha cacciato lei!” Rispose
entusiasta Pegasus. “Ho cominciato a fare un po’ di casino e s’è innervosita.”
Aggiunse ridendo.
“Dove stiamo andando?”
“A parlare con delle persone, perché nella zona est
ci sono stati dei furti e dobbiamo indagare.”
“Perché non lo fanno i soldati?” Solo domande di
poche sillabe per il cavaliere della Fenice.
“Limitate capacità mentali.” Spiegò l’altro; erano
arrivati davanti ad una casupola.
“Ti aspetto fuori.” Annunciò Phoenix, mentre Pegasus
si apprestava ad entrare.
“D’accordo.”
Phoenix si appoggiò alla parete, incrociando le
braccia: immancabilmente il pensiero gli tornò sulla proposta di Lady Isabel,
accettare o no? Da una parte era lusingato che la sua dea ed un sacro cavaliere
avessero riposto fiducia in lui, dall’altra combatteva con l’inquietudine di un
uomo, di un cavaliere, non disposto a rinunciare alla propria libertà per
nessun motivo al mondo.
Indugiava su queste idee, quando vide una figura
vestita di rosso, muoversi furtivamente dietro ad un costone roccioso. Phoenix
si staccò subito dal muro, cercando di vedere meglio.
“Fermo là!” Gli gridò. “Fatti vedere.” Per tutta
risposta la persona saltò il costone e prese a correre lungo la brulla collina
sottostante; Phoenix la seguì, correndo a sua volta.
Ora la vedeva davanti a se: era una donna, anzi una
sacerdotessa guerriero, ma non gli sembrava di averla mai vista al santuario.
“Fermati!” Le gridò nuovamente; e si fermò, ad una
decina di metri da lui, poi si voltò, mettendo le mani sui fianchi.
Era alta, indossava un body rosso, calze bianche ed
una fascia rosa intorno alla vita; aveva un seno prosperoso, a stento
trattenuto dai lacci e dalla copertura di lucido metallo. I suoi lunghi
capelli, biondi scuri, si sollevavano nel vento; portava la maschera, come le altre,
il decoro sembrava un disegno di rivoli di sangue scarlatto.
“Bene, vedo che sei ragionevole.” Affermò Phoenix,
senza nessuna ironia.
“Perché mi hai inseguita?” Gli chiese la ragazza,
con una voce roca e sensuale.
“Perché scappavi.”
“Non stavo scappando!” Replicò la sacerdotessa.
“Poche storie, se sei la ladra, consegnati subito.”
Le consigliò Phoenix.
“Ladra io?! Adesso ti faccio vedere!” Esclamò
adirata la donna, assumendo una posizione d’attacco. “TIFONE DEL DESERTO!”
Gridò poi, mentre un vortice di sabbia prendeva origine dal suo pugno.
Phoenix non si scompose, e quando il tifone lo
raggiunse, lo bloccò con la mano. Non è un attacco serio, pensò. Grazie alla
difesa del cavaliere, il vortice di sabbia deviò, ritornando verso la
sacerdotessa, che non poté evitarlo e cadde seduta a terra.
Phoenix si avvicinò, mentre la ragazza tentava di
rialzarsi; era quasi in piedi, quando un rumore di metallo spaccato, accompagnò
la ferita longitudinale che aprì in due la sua maschera di bronzo. I due pezzi
scivolarono a terra, scoprendo i grandi occhi celesti della sacerdotessa, ed i
tratti delicati del suo viso, sotto i capelli scomposti.
“E… Esmeralda…” Pronunciò quel nome come in trance,
la somiglianza era sbalorditiva.
“Il mio nome è Celeste.” Protestò la ragazza,
balzando in piedi. “E potevi anche darmi una mano ad alzarmi!”
Phoenix scosse la testa, come a cancellare tutte le
immagini tornate, subitanee, nella mente, alla vista di quel volto sconosciuto
eppure familiare.
“Idiota!” L’apostrofò lei, risvegliandolo del tutto.
“Ora dovrò ucciderti, ma sei troppo carino per farlo senza rimorsi!” Continuò,
puntandogli contro l’indice.
“Smettila!” Le rispose il ragazzo, spingendola
davanti a se. “Non sarai costretta a fare nulla, non conosci l’editto di
Atena?”
“No, arrivo adesso.” Affermò candida, allargando le
braccia; la disarmante innocenza di quelle parole fece sorridere Phoenix.
“Secondo l’editto, la legge della maschera non è
valida con sacerdoti e cavalieri.” Le spiegò di nuovo serio.
“E io come faccio a sapere che sei un cavaliere?” Il
ragazzo mosse la testa con disapprovazione ed impazienza.
“Credo di avertelo appena dimostrato.” Affermò
indicando la maschera rotta. “E adesso cammina.”
“E aspetta un attimo!” Protestò Celeste,
divincolandosi. “Fammi pulire il viso, non vedi che ho un taglio?” Phoenix non
se n’era proprio accorto, doveva averlo provocato la pressione della maschera;
la lasciò fare.
La ragazza si avvicinò ad una fonte e cominciò a
pulirsi lentamente il viso, mentre il sole si rifletteva sull’acqua e sui suoi
capelli dorati, abbagliando lo sguardo del cavaliere. Non è Esmeralda,
continuava a ripetersi Phoenix, è morta tra le tue braccia, ricordalo; non si
era accorto che Celeste lo guardava con la coda dell’occhio.
“Senti, ma tu ce l’hai con tutto il mondo o solo con
me?” Gli chiese ironica, sollevandosi sfrontata ed incrociando le braccia.
“Non ce l’ho con te.”
“L’ho capito.” Affermò la ragazza, con un sorriso
malizioso, che evidenziò le leggere efelidi sulle sue guance. “Altrimenti non
mi guarderesti così.” Aggiunse, passandogli davanti; lui la seguì, risalendo la
collina.
“Chi è Esmeralda? Una che ti ha lasciato?” Gli
chiese, senza guardarlo.
“Sì, mi ha lasciato… molto tempo fa.” Celeste
avvertì il dolore, in quella risposta; la ragazza non si voltò verso di lui,
per rispetto di quei sentimenti che aveva sentito vibrare nella sua voce.
Giunsero davanti alla casupola, dove Pegasus,
attendeva impaziente, calciando sassi con le mani in tasca; quando li vide
arrivare assunse un’espressione stupita.
“E questa, chi è?” Domandò con un fanciullesco
sorriso, indicando la sacerdotessa.
“L’ho trovata laggiù.” Rispose sibillino Phoenix.
“Trovata?” La ragazza lo guardò, stupita. “Non
catturata?” Aggiunse.
“Se tu fossi una nemica, ti avrei catturata, ma
siccome potresti anche non esserlo, ti ho trovata.” Spiegò il cavaliere.
“Non fa una piega!” Affermò Celeste, sorridendogli
con calore; quel sorriso lo colpì profondamente.
“La porti su?” Chiese Pegasus al compagno.
“Certo…”
“Aspettate un attimo.” Li fermò la ragazza. “Voglio
parlare con Tisifone, dov’ è?”
“Tisifone?” Ripeté stupito Pegasus. “…credo che sia
al posto di guardia…” Aggiunse.
“Grazie, ci vediamo, eh?” Li salutò la sacerdotessa,
allontanandosi; Phoenix la seguì, afferrandola per un braccio, lei guardò la
sua mano, poi lui negl’occhi.
“Scusa…” Sussurrò il ragazzo, lasciandola. “Ma forse
è meglio se veniamo anche noi.” Era un po’ imbarazzato, ma non quanto lo fu
quando Celeste avvicinò il viso al suo e sussurrò, con la sua voce profonda:
“Non riesci proprio a staccarti da me, eh, dolcezza?”
Fu Pegasus ad entrare per avvertire Tisifone che
qualcuno la stava cercando, mentre Celeste e Phoenix aspettavano fuori,
accarezzati dalla brezza.
“Che profumo!” Esclamò la ragazza. “Adoro la
primavera, mi mette voglia di vivere, d’innamorarmi…” Concluse la frase
guardandolo negl’occhi; lui si voltò dall’altra parte.
“Non mi hai detto il tuo nome.” La ragazza
continuava a fissarlo.
“Phoenix.” Le disse, senza voltarsi; in quel momento
Tisifone uscì dalla costruzione, con il suo portamento militaresco. Celeste,
quando la vide, saltò giù dal muretto su cui era seduta, andandole incontro;
Tisifone si bloccò e strinse i pugni, iniziando a tremare. Celeste si avvicinò
ancora ed allungò la mano verso di lei; l’altra ragazza colpì la mano tesa,
scansandola da se.
“Tisifone…” Sussurrò, con un filo di voce, Celeste.
“Torni così, dopo quasi sette anni di silenzio, e
credi che possa bastare tendere la mano!” Affermò con rabbia la sacerdotessa.
“Tu non sai quanto male mi hai fatto!” Le gridò, prima di voltarsi e correre
via; Pegasus la seguì.
Phoenix osservò Celeste: la sua spavalderia era
completamente sparita, stringeva le mani e si vedeva che tratteneva a stento le
lacrime; era profondamente turbata. La ragazza lentamente si voltò verso di
lui, sforzandosi di sorridere, ma aveva gli occhi lucidi e le mani le
tremavano.
“Mi porti dove posso avere una maschera nuova.”
Chiese a Phoenix, agitando i due pezzi dell’oggetto.
La maschera. Prigione e protezione. Ciò che rendeva
le sacerdotesse guerriero macchine da combattimento senza sentimenti; ma come
negare che, sotto quella lastra di bronzo lavorato, ci fossero ragazze come
questa, che ora Phoenix aveva davanti in tutta la sua fragilità. Resisté
all’istinto di abbracciarla (non è Esmeralda, si ripeté), ma la prese per mano,
guidandola verso il tempio, dove avrebbe ricoperto il suo volto con la
maschera. Protezione e prigione.
Arrivati sulle scale del santuario trovarono Cristal
che, seduto tranquillamente, scriveva su un blocco di carta azzurra; il ragazzo
sollevò la sua biondissima testa e salutò:
“Ciao Phoenix.” Poi guardò, con aria incuriosita, la
ragazza che lo seguiva. “Chi…”
“Celeste!” La voce entusiasta di Scorpio proveniva
da un luogo poco più in alto. Il volto della ragazza s’illuminò, mentre
guardava verso l’alto, recuperando la sua solare vitalità.
“Scorpio!” Gridò, lanciandosi su per le scale.
Gli gettò le braccia la collo e lo baciò sulle
labbra; il cavaliere rispose al bacio con passione, stringendola a se e
carezzandole i lunghi capelli.
Phoenix e Cristal osservarono la scena un po’
stupiti; infatti, nonostante la fama di rubacuori di Scorpio, ed il fatto che
buona parte delle ragazze del santuario gli corressero dietro, era raro vederlo
in atteggiamenti simili con una donna. Il cavaliere era molto riservato e
l’unica persona con cui si confidava era la Divina Elettra, ma sembrava che
quei due condividessero un dolore comune, che li avvicinava in maniera
speciale.
Celeste, infine, si staccò da Scorpio, ma,
contrariamente a quello che pensavano gli altri due cavalieri, non lo carezzò
teneramente, bensì gli sferrò un potente pugno in pieno volto; Scorpio
barcollò, andando a sedersi sulle scale dietro di se.
“Celeste!”
“Maledetto bastardo, è il minimo che ti meriti!”
Affermò sorridente la sacerdotessa; poi entrambi si misero a ridere.
“La tua maschera?” Le chiese Scorpio, quando riuscì
a smettere di ridere.
“Ah, già…” Rispose Celeste, poi si voltò verso
Phoenix. “Ti dispiace se vado con lui?” Gli domandò, indicando l’amico
ritrovato; il ragazzo scosse la testa.
“Per niente, io ho altro da fare.” Rispose Phoenix,
voltandosi e mettendo le mani in tasca.
“Allora ci vediamo dopo.” Concluse Celeste,
allontanandosi con Scorpio; Phoenix girò la testa e la osservò, alzando stupito
le sopracciglia.
“Bel tipino.” Commentò Cristal, sorridendo.
“Già, davvero un bel tipino.” Confermò Phoenix,
passandosi una mano tra i capelli. “Ah, Cristal, hai visto Andromeda?” Gli
chiese poi.
“Credo che sia nella casa di Pisces, ci va spesso
ultimamente.” Rispose l’amico.
“Grazie.” Phoenix si allontanò, scendendo verso la
dodicesima casa.
Celeste e Scorpio, nel frattempo, stavano già
aspettando che una nuova maschera fosse consegnata alla ragazza, guardandosi
negl’occhi.
“Hai ancora i più begl’occhi che io abbia mai
visto.” Affermò la sacerdotessa, osservando le iridi azzurre, tra le folte
ciglia scure, dell’amico.
“Non dire sciocchezze.”
“Furono questi occhi a farmi innamorare di te.
Azzurri come il cielo sopra il deserto.”
“Dove sei stata, tutto questo tempo, Celeste?” Le
domandò.
“In un sacco di posti.” Rispose allegra lei.
“Ma perché sei andata via in quel modo…”
“Non potevo fare altrimenti, Scorpio.” Raccontò lei.
“Non sopportavo più di vivere qui, mi sentivo prigioniera e dovevo trovare la
mia strada, lontano da Morgana, da Tisifone… da te.” Lui le prese la mano.
“Pensavamo che ti fosse successo qualcosa, che fossi
morta. Tisifone pensava che ti avessi ucciso io.”
“Come?” Sorrise lei, stupita. “Davvero? Ah, ah, ah!
Non è possibile!”
“Sì, ridi, ridi, mi ha odiato per sette anni, ed è
colpa tua.” Le mise il broncio, incrociando le braccia. “Stupidone.” Gli disse
poi, cingendogli le spalle con le braccia. “Ora sono tornata, e tutto andrà a
posto. Anche con Tisifone.”
“Devo farti conoscere un paio di persone.”
“Atena?” Domandò la ragazza con trasporto.
“Sarà la prima, è adorabile, vedrai.” Rispose
entusiasta Scorpio.
“Poi devi dirmi tutto dei nuovi cavalieri.”
“Vedo che sei notevolmente interessata…” Commentò
lui, allusivo.
“Vedremo, i tre che ho visto sono uno più carino
dell’altro!”
“Sempre la solita!” Esclamò Scorpio, abbracciandola
e sollevandola da terra. “Ti voglio bene, Celeste.”
“Anch’io ti voglio bene, Scorpio.”
La casa di Pisces era semi buia, silenziosa e
fresca, come tute le altre undici case del santuario. Phoenix entrò quasi in
punta di piedi; non sapeva a quale attività si dedicasse il fratello tra quelle
mura, ma certo di recente vi si recava spesso. Andromeda non era il tipo che
faceva le cose di nascosto, perciò Phoenix non era mai andato a disturbarlo nel
suo rifugio; il giorno in cui avrebbe avuto voglia di dirgli che cosa faceva
lì, sarebbe andato da lui e, semplicemente, glielo avrebbe confessato. Ora,
però, Phoenix gli doveva assolutamente parlare.
“Andromeda, dove sei?” Chiese ad alta voce, in modo
che il fratello potesse sentirlo.
“Phoenix.” Rispose la voce cristallina del
cavaliere. “Fratello, vieni. Da questa parte.” Seguendo le indicazioni,
raggiunse una porta aperta, dalla quale proveniva una luce intensa; Phoenix
attraversò l’apertura e si trovò in un altro mondo: un mondo di luce, di vita,
d’amore.
La sala era ampia, al posto del soffitto un
lucernario, composto d’infiniti riquadri di vetro, che gettava all’interno la
luce del sole; uccelli colorati volavano liberi, da un pianta all’altra. E il
profumo, e le piante… Infinite varietà di fiori, orchidee dai colori mai visti,
arbusti pieni di bacche colorate, addirittura alberelli, carichi di fiori o di
frutti; una nebbiolina azzurra si alzava dalle piante appena annaffiate, dando
al tutto un’atmosfera irreale. In mezzo a tutto questo, Andromeda, col sorriso
di un fanciullo, addosso una vecchia tuta ed i piedi nudi, che portava un sacco
di fertilizzante.
“E’ meraviglioso, non è vero?” Domandò il ragazzo al
fratello, con la gioia negl’occhi. “Era tutto appassito, quando l’ho trovato.
Ho tolto le piante morte, le ho sostituite con nuove, poi, con pazienza, ho
curato le altre ed il giardino è rinato!” Nella sua voce c’era un entusiasmo
incredibile.
“E’ stupendo fratellino, veramente stupendo…” Commentò
Phoenix, quasi commosso; ora capiva, capiva cosa l’attirava verso la dodicesima
casa: l’amore per la vita di Andromeda, lo aveva portato a far rinascere il
giardino di un uomo, di un nemico, che aveva sconfitto ed ucciso.
“Questo posto, sai, conferma la mia teoria su
Pisces. Un uomo che ama tanto la natura non può essere crudele.”
“Ascolta Andromeda.” Lo interruppe Phoenix.
“Dimmi, fratello.” Il ragazzo era intento a piantare
dei bulbi.
“Hai parlato con Lady Isabel?” Le mani di Andromeda
si fermarono per un attimo sulla terra umida, poi ripresero a lavorare.
“Sì, vuole che noi due abbiamo un’armatura d’oro.”
Affermò, dopo qualche secondo di silenzio. “Mi vuol dare quella di Pisces.”
“A me… quella di Gemini.” Disse Phoenix, il fratello
si voltò verso di lui. “Non sono sicuro di accettare.”
“Ti capisco.” Sussurrò Andromeda, tornando ai suoi
bulbi. “Quelle vestigia comportano un grande impegno.”
“Tu cosa hai deciso?”
“Non lo so, non credo di meritare un’armatura
d’oro.” Umile come sempre, Andromeda. “Ciò che mi piace sul serio è questo,
occuparmi di tutto questo.” Affermò alzandosi ed abbracciando con un gesto
tutto il giardino.
“Hai pensato che se tu accettassi, questo posto
sarebbe tuo, per sempre?” Il fratello lo fissò, spalancando i suoi occhi verdi
come smeraldi, poi sorrise.
“No, non ci avevo pensato.” Rispose.
“Beh, allora fallo.” L’invitò Phoenix, avvicinandosi
a lui e posandogli le mani sulle spalle. “Tu meriti ogni grammo di felicità di
questo mondo.” Aggiunse.
“Anche tu, ricordalo.”
Ma cos’era la felicità? Phoenix non era sicuro di
saperlo, lui continuava ad essere inquieto. Che cosa gli mancava per essere
felice? Aveva accanto suo fratello, la giustizia trionfava, Atena regnava in
pace, gli sarebbe bastato volerlo per diventare un cavaliere d’oro; eppure…
Non poteva essere ancora il pensiero di essere
appartenuto al male, lo aveva superato da tempo, e allora cosa? Cosa?
Lentamente un pensiero prese forma nella sua mente, una forma ben precisa.
Capelli biondi, pelle bianca, occhi verdi: Esmeralda. Era l’idea di
quell’amore, antico, eppur presente, mai confessato del tutto, mai sbocciato e
vissuto nella usa pienezza. Che fosse questo, ciò che gli mancava, l’amore? Lei
era morta ormai, da tanto tempo…
Ma un altro viso si sovrappose a quello della
scomparsa fanciulla; un viso più vissuto e duro, ma dolcissimo e malinconico.
Occhi celesti, come un opale, abituati a non essere visti, nei momenti di
tristezza, di dolore; così diversa…
Tanto diversa, però, non poteva fare a meno di
confonderle; si convinse di dover conoscere meglio Celeste, per non sovrapporla
più all’unica donna che avesse amato.
Il vapore dell’acqua calda non aveva ancora del tutto
lasciato la stanza da bagno; Scorpio si era seduto sul bordo della vasca, vinto
da una stanchezza che non poteva essere causata da una giornata passata
tranquillamente. La sua anima era stanca. Bussarono alla porta.
“Entra.” Sapeva che era Celeste, non aveva pudore
con lei, e poi non era del tutto nudo; la ragazza entrò, con in mano lo
spazzolino da denti.
“Posso?” Gli chiese, agitando il piccolo oggetto.
“Prego.” Rispose lui, indicandole il lavandino;
Celeste si avvicinò ed aprì l’acqua, continuando a fissarlo con la coda
dell’occhio.
Il suo amico era bellissimo: la sua pelle olivastra
ed opaca risaltava, al confronto con il candido cotone dell’asciugamano che
aveva sui fianchi, il suo corpo perfetto era modellato dalla continua attività
fisica, i lunghi capelli scuri gli ricadevano sulle spalle, fin quasi alla
vita, umidi e scomposti. E poi, quegl’occhi, la malinconia di quello sguardo
trasparente; lo aveva lasciato che era un adolescente, lo ritrovava che era un
uomo, e che uomo!
“Non potrei mai innamorarmi di un uomo che non fosse
un cavaliere.” Affermò sicura la ragazza, quando ebbe finito di lavarsi i
denti.
“Perché?” Le domandò lui, incuriosito, guardandola
da sotto in su.
“E lo domandi, con quel corpo da reato?!” Rispose
Celeste, indicandolo; Scorpio sorrise, chinando il capo, un po’ imbarazzato.
Celeste si girò nuovamente verso il lavandino,
assumendo un’espressione più seria; si guardò nello specchio, stava per
affrontare un argomento delicato.
“Ho saputo di Melissa.” Affermò asciutta; lui alzò
il capo, come se una freccia lo avesse attraversato.
“Chi… chi te lo ha detto?”
“Castalia, abbiamo parlato un po’, oggi. Mi ha detto
anche della trafugazione del corpo. Sei stato tu, vero?”
“Sì.” Ammise Scorpio, tenendo gli occhi bassi. “Mi
aiutò Acquarius. Melissa aveva lasciato una lettera, in cui diceva di non voler
essere sepolta nella cripta…” Aggiunse, la voce gli tremava; poi si alzò,
avvicinandosi alla ragazza.
“Celeste, siamo solo io, te e la Divina Elettra a
sapere questa storia, ora che Acquarius è morto. Ti prego, non dirlo a
nessuno.” La sua richiesta era accorata.
“Non preoccuparti.” Era sincera, non avrebbe mai
tradito una delle persone più importanti della sua vita. Scorpio si era
voltato, mostrandole le sua bellissima schiena, ma chinava la testa, sotto il
peso del dolore; Celeste capì che, nonostante fossero passati cinque anni, il
cavaliere non aveva superato il senso di colpa per il suicidio del suo grande
amore.
La sacerdotessa ricordava appena Melissa: era
minuta, con lunghi, lisci, capelli color miele; ricordava i suoi occhi, quelli
sì. Occhi blu, profondi, stellati, colmi d’angoscia, di paura; non era una
ragazza felice, o forse, lo era stata solo con lui, lontano dalla sua famiglia
oppressiva.
“Ora come stai?” Chiese a Scorpio, in un moto di
curiosità ed apprensione per lo stato del caro amico.
“Ho passato periodi peggiori. L’arrivo di Atena e
dei cavalieri mi ha risollevato, ma…” Le rispose voltandosi verso di lei.
“…sono arrivato vicino al fondo troppe volte.”
Celeste gli andò accanto e gli prese le mani, era
davvero dura vederlo triste, lo ricordava ancora come quel ragazzo spensierato
di cui si era innamorata, quando era poco più che bambina. Gli carezzò il viso,
poi lo baciò con tenerezza.
“Ce la farai, sei un cavaliere d’oro, no? E poi, il
più bel culo del grande tempio non può rimanere a secco per troppo tempo!”
Esclamò Celeste, strizzandogli l’occhio.
“Quanto mi è mancata, la tua energia.” Le rispose
lui abbracciandola.
“Oh, calma, calma, bellezza!” Lo fermò la ragazza.
“Non vorrai riscoprire come si fa, proprio stasera?”
“Tranquilla, ho già capito che hai messo gli occhi
addosso ad un bel tenebroso!” Ribatté Scorpio.
“Dai!” Sbottò Celeste, fingendosi offesa e dando al
ragazzo un colpetto sul petto. “Andiamo a letto, ora, è tardi.” Concluse la
ragazza.
Più tardi, nel letto abbracciata a Scorpio, il sonno
tardava ad arrivare; i pensieri, invece, vagavano come spiriti nelle tenebre.
Phoenix, silenzioso, schivo, introverso fino a sfiorare l’arroganza, eppure un
uomo che aveva profondamente sofferto, si leggeva nel suo volto, segnato dalla
lunga cicatrice, e nei suoi occhi grigi, vibranti e sofferti. Doveva conoscerlo
meglio, sentiva di avere qualcosa da dividere con lui; doveva assolutamente
conoscerlo meglio.
Il giorno dopo, Celeste, camminava sulla balconata
esterna del Grande Tempio, con due priorità in testa: chiarire con Tisifone ed
avere una chiacchierata con Phoenix; entrambe le cose sarebbero state dure da
realizzare. Guardò in basso; Cristal, di nuovo sulle scale, continuava a
scrivere sul suo blocco azzurro, mentre, poco più in là, Tisifone e quel
ragazzo bassino con i capelli castani, parlottavano ed ogni tanto si
scambiavano un bacio. Cosa c’era che non andava in quella scena d’affetto tra
due ragazzi? Celeste non sapeva spiegarsi quella strana sensazione.
“Qualcosa d’interessante?” Le domandò una voce
cristallina alle sue spalle; la sacerdotessa si voltò e vide una ragazzo con
splendidi occhi verde smeraldo; era esile ed aveva una volto efebico e
dolcissimo.
“Mah! Mi chiedevo cosa stava scrivendo il biondino.”
Rispose Celeste, non ammettendo il suo vero obiettivo.
“Una lettera d’amore, immagino.” Affermò il ragazzo.
“La sua amata abita lontano.”
“Una… lettera d’amore!” Esclamò gioiosa la ragazza.
“Ma è splendido che in un’epoca ipertecnologica, qualcuno trovi ancora il tempo
per scrivere una vera lettera d’amore!” Il suo entusiasmo fece sorridere anche
Andromeda.
“Noi non ci conosciamo, ma immagino che tu sia
Celeste.” Le disse, porgendole la mano.
“Esatto.” Rispose lei, stringendogliela; il
ragazzino aveva una stretta di una forza e sincerità impressionanti. Lo guardò
negl’occhi, da dietro la maschera.
“Io sono Andromeda, il fratello di Phoenix.” Si
presentò.
“Vi somigliate.” Lo stupì la ragazza.
“Sei la prima che lo dice!”
“Non parlo fisicamente, è la vostra energia vitale.
Ho provato una sensazione simile quando ho stretto la tua mano e quella di tuo
fratello, tutto qui.” Si giustificò Celeste.
“Beh, comunque complimenti, non è da tutti percepire
una cosa simile.” Si congratulò Andromeda.
“Mi piace osservare le persone, ed il mio è un punto
di vista privilegiato.” Spiegò Celeste, indicando la sua maschera.
“Sai che puoi non portarla sempre, vero?” Le domandò
premuroso.
“Sì, ma ormai ci sono talmente abituata che senza mi
sento nuda, vulnerabile.” Confessò la ragazza; poi, entrambi, tornarono a
guardare in basso, ora era rimasto solo Cristal.
“Andromeda, sai se Tisifone abita ancora nella
casetta col tetto rosso?” Il ragazzo l’osservò, dando l’impressione di
pensarci.
“Credo di sì.”
“Grazie.” Gli disse posandogli una mano sulla
spalla. “Ci vediamo.” Lo salutò andandosene.
Fu mentre si recava a casa di Tisifone che Celeste
assisté alla scena chiarificatrice della sensazione che aveva avuto poco prima.
Lady Isabel. Scorpio gliela aveva presentata la sera
prima e lei l’aveva trovato subito speciale; già, ma in lei albergava Atena, la
dea della giustizia, la sua dea. Era anche una ragazza bellissima, e Celeste
era convinta che non fosse da sottovalutare una componente di attrazione
fisica, nella devozione dei suoi cavalieri; in fondo, comuni mortali o santi,
sempre uomini rimanevano.
Pegasus e Lady Isabel, la dea ed il suo più fedele
cavaliere, ma la sacerdotessa non riusciva a pensarli così, vedendoli in quel
momento, erano solo due ragazzi. La ragazza era troppo lontana per sentire
quello che si dicevano, ma, di qualsiasi cosa parlassero, gli occhi dell’uno si
perdevano in quelli dell’altra; lui le teneva le mani, come si tengono preziosi
gioielli. Questa, pensò Celeste, è l’energia che deve esserci, quando due
persone si amano, pur non essendoselo confessato, come immaginò fosse per quei
due.
Poi pensò a Tisifone, quella che era (o era stata?)
la sua migliore amica; lei era, veramente, innamorata di Pegasus, ma non
sapeva, o più facilmente, non voleva ammettere che quel ragazzo fosse posseduto
da un sentimento molto profondo per un’altra. Due ragazzi uniti da un amore
che, nonostante tutto, non riuscivano a combattere e tanto meno a nascondere,
se questo era ciò che succedeva quando stavano insieme.
Celeste decise di non dare a Tisifone un motivo in
più per avercela con lei, già la loro conversazione sarebbe stata dura; non le
avrebbe detto niente di ciò che aveva visto. Pensando questo, uscì dal
santuario, per andare dall’amica; mentre le mani di Pegasus e Lady Isabel
stentavano a lasciarsi.
“Tisifone.” Sussurrò Celeste all’altra sacerdotessa
guerriero, attirando la sua attenzione; la vecchia amica era ferma davanti alla
sua casetta.
“Ancora tu!” Sbottò Tisifone, con rabbia.
“Ti prego, ascoltami!” Le gridò Celeste, mentre
l’altra si allontanava; le corse dietro e l’afferrò per un braccio.
“Non voglio sapere niente da te!”
“Tisifone, ti prego, io ho bisogno di spiegarti…” La
supplicò Celeste. “Hai dimenticato ciò che ci univa da bambine, quando ci
bastonavano, ci uccidevano con l’addestramento?” Tisifone voltò lentamente il
suo volto mascherato verso l’altra ragazza. “…e nella notte l’unico conforto
era il nostro reciproco affetto, e quando piangevamo, erano i capelli
dell’altra ad asciugare le nostre lacrime! In nome della nostra antica
amicizia, tu devi ascoltarmi.”
“Se mi eri tanto amica, allora perché te ne sei
andata così?!” Le chiese gridando.
“Ma non capisci? Era l’unico modo per non essere
perseguitata e poi…” Spiegò Celeste, chinando il capo. “Tu non capivi, io
DOVEVO andare via. Non potevo restare qui, mi sentivo prigioniera.”
“Certo, la tua libertà era più importante della
nostra amicizia! Io avevo bisogno di te, del tuo sostegno!” Replicò Tisifone.
“Perdonami, sono tornata anche per chiederti
perdono.” Supplicò l’altra.
“Quant’è inutile ora, la tua richiesta di perdono.”
Affermò la ragazza, chinando la testa.
“Forse è inutile, ma è l’unica cosa che posso fare,
mi dispiace, non potevo restare in un luogo dove le forze del male stavano
prendendo il sopravvento…”
“Bella giustificazione!” L’interruppe Tisifone.
“Non è una giustificazione!” Replicò Celeste con
rabbia. “Non cerco giustificazioni agli errori che ho commesso, né tu dovresti
dare a me la colpa per i tuoi.” Quella frase colpì profondamente Tisifone,
ricordandole di aver servito l’usurpatore, senza porsi domande ed agendo a
volte con crudeltà. “Ammetto le mie colpe, e per quelle chiedo perdono, mi
dispiace di averti lasciato quando avevi più bisogno di me…” Aggiunse Celeste.
“…ma entrambe dovevamo trovare la nostra strada, solo in modi diversi.”
Concluse dolcemente prendendole le mani.
“Sei sempre stata tu la più forte.” Ammise Tisifone,
chinando il capo. “Io non credo di aver ancora trovato la mia strada…”
“Ma adesso sono tornata, amica, sorella mia, e non
ho più motivi per andarmene, ma solo per restare!” Affermò Celeste. “Ti aiuterò
io, Tisifone.”
“Ho paura.” Confessò la sacerdotessa all’amica
ritrovata.
“Non devi, ora siamo di nuovo insieme.” Le rispose
l’altra, abbracciandola. “Ricordi, nessuno ci poteva sconfiggere, quando
combattevamo insieme.” Aggiunse rassicurandola; Tisifone iniziò a singhiozzare.
“Mi sei mancata tanto…”
“Anche tu, Tisifone.” Celeste strinse a se la sua
più cara amica ritrovata; la ragazza, però, sapeva qual’era il peso che
Tisifone aveva nell’animo: era la certezza che l’uomo che amava fosse
innamorato di un’altra. Lei l’avrebbe aiutata ad uscire da quella situazione,
che la faceva tanto soffrire; la ragazza sapeva che la sua amica era
estremamente sensibile e non le sarebbe stato facile superare la faccenda, in
special modo se era innamorata sul serio, ed era così. Celeste sentì le lacrime
raggiungerle gli occhi, abbracciò Tisifone più stretta ed iniziò a piangere
insieme a lei.
Elettra era seduta al suo tavolo di primo ministro
di Atena, sistemando alcune carte; sul piano solo poche cose, un vaso colmo di
mimose, alcune fotografie…
Lei e Micene, così giovani, sorridenti, innamorati,
eppure le forze del male già incombevano su di loro, e presto, l’oscurità,
avrebbe strappato il cavaliere di Sagitter dalle sue braccia. Il ricordo le
strinse il cuore e le fece nuovamente provare il dolore di quando sentì sparire
il cosmo di Micene; in quei giorni aveva creduto di morire, di raggiungerlo
presto, nei campi elisi, finché non scoprì di aspettare un bambino. Micene le
aveva fatto il dono più grande, restituendole la vita attraverso quella di suo
figlio, quell’ultima notte insieme, la notte degl’inganni…
Bussarono alla porta e, senza aspettare il suo
invito, qualcuno entrò: era Alexandros, neanche le avesse letto nella mente che
pensava a lui, e forse lo aveva fatto.
“Volevo salutarti, vado a casa a studiare, domani ho
il compito.” Le disse suo figlio; Elettra lo fissava con dolcezza,
sorridendogli. “Che cosa c’è, ho qualcosa in faccia?” Chiese il ragazzo,
toccandosi il viso con le belle mani.
“No, sei bellissimo!” Esclamò la donna. “Vieni a
dare un bacio a tua madre!” Gli ordinò; lui si avvicinò sorridendo, non c’era
bisogno di troppe parole tra loro, si capivano al volo.
“Ma… non sono un po’ troppo grande per queste cose?”
Protestò Alexandros, mentre si chinava sul viso di Elettra.
“Non dire sciocchezze, non sarai mai abbastanza
grande per smettere di baciarmi!” Affermò lei; suo figlio la baciò
delicatamente sulla guancia e lei fece altrettanto.
“Ciao, mamma.” La salutò il figlio andandosene.
“Ciao, amore mio… oh, e non metterti a guardare la
TV, siamo intesi? Devi studiare.” Alexandros annuì, uscendo dalla stanza.
Elettra continuò a sorridere, spostando lo sguardo
fuori dalla finestra aperta; annusò la primavera, che era già quasi estate. Suo
figlio aveva già tredici anni; tutti le dicevano che somigliava a lei, forse
per i capelli biondi, o quell’aria nobile, ma quando Elettra lo guardava,
vedeva Micene: gli stessi occhi blu come il mare al largo, profondi e pieni di
vita. La somiglianza fisica, però, non era l’unica cosa che padre e figlio
avevano in comune; i loro cosmi si somigliavano. Cosmo; come Alexandros, senza
alcun addestramento, possedesse un cosmo tanto potente, non riusciva ancora a
spiegarselo; e questo la spaventava. La rassicurava, però, un altro fatto: il
cosmo di suo figlio era sì potente, ma talmente puro da appartenere totalmente
alla giustizia. Il pensiero che Alexandros potesse essere un prescelto la
onorava, ma la spaventava ancora di più; un cavaliere non lo era, altrimenti a
quest’ora… era già troppo vecchio per l’addestramento da cavaliere, cosa aveva
in mente Atena per lui?
Bussarono di nuova alla porta, questo la distrasse
dai suoi pensieri e la fece tornare a guardare verso l’interno della stanza.
“Avanti.” Invitò la donna; Scorpio si affacciò
timidamente.
“Disturbo?” Le chiese con gentilezza.
“Ma no, figurati, accomodati pure.” Le piaceva
parlare con lui. “Ho saputo che hai ritrovato una vecchia fiamma…”
“Solo una vecchia amica.” La corresse Scorpio;
Elettra gli sorrise, ironica e dolce.
“Beh, qualunque cosa sia, sarai felice di averla
incontrata di nuovo, o no?
“Sì, molto.” Ammise il cavaliere.
“Perché sei venuto da me, Scorpio?” La donna
poggiava i gomiti sulla scrivania ed il mento sulle mani; era talmente bella
che al cavaliere, per un attimo, manco il fiato.
“Ecco, ieri, poi… pensavo che…”
“Basta così.” Lo fermò lei. “Non era poi così grave,
eravate stanchi ed io continuavo a tormentarvi. Non ho intenzione di punirti e…
rassicura Pegasus, non punirò neanche lui.” Assicurò Elettra; Scorpio sospirò,
sollevato.
“Meglio così, non ci tenevo a faticare ancora!”
“Ah! Voi cavalieri d’oro siete delle signorine!”
Sbottò la donna, ridendo. “Senti, Scorpio.” Gli chiese poi. “Avrei due inviti
per la prima di Edipo Re, se non hai impegni…” Gli occhi del cavaliere s’illuminarono.
“Certo che vengo!” Rispose entusiasta; quando, poco
dopo, la lasciò, sorrideva ancora.
Ci era
cascata un’altra volta; è vero, la prima volta che era uscita con lui (oddio,
ma era un appuntamento?) era stato per caso, ma adesso lo aveva invitato lei!
C’era un aspetto da considerare, però: prima doveva
sempre andare da sola, alle prime a teatro, Acquarius era insopportabile nelle
occasioni mondane. Lui preferiva rimanere a casa, a fare l’amore; non che ad
Elettra questo dispiacesse, ma lei amava le manifestazioni culturali. In
Scorpio aveva trovato un compagno ideale: il cavaliere amava alla follia il
teatro classico e non si stancava di vedere nuove rappresentazioni, era bello
parlare con lui. Scorpio era intelligente e simpatico. E bello. No, no! Otto
anni, Elettra; quell’uomo, o meglio quel ragazzo, aveva ben otto anni meno di
lei! Doveva assolutamente combattere quell’attrazione, che le stava nascendo
dentro.
CONTINUA…