Lo studio era arredato con gusto,
mobili di legno scuro semplice e seri, nelle cui vetrine erano allineati con
ordine gli strumenti di lavoro di Watson: lucidi stetoscopi, misuratori di
pressione, aghi e siringhe. In un angolo discreto si trovava il lettino per le
visite, opportunamente mascherato da un paravento. Un orologio a pendolo
ticchettava dietro alla scrivania.
Watson, schiena dritta e sguardo
compreso, tentava di ascoltare l’elenco di sintomi che il suo paziente
accusava. Sembrava soffrisse di un qualche tipo di gastrite, ma il dottore
doveva ammettere di riuscire a seguire il filo del discorso con estrema
difficoltà.
Tutta colpa di Holmes, come sempre.
Voleva sinceramente che la
smettesse, una buona volta, di complicargli la vita.
Era riuscito a trasformarlo, da
professionista apprezzato e suddito emerito di sua Maestà Britannica, quale era stato fino a qualche anno prima, nello scalcagnato
tirapiedi di un investigatore privato di dubbia fama. Si era trovato a fargli
da infermiere, cameriere, assistente e guardaspalle. Lo aveva seguito in ognuna
delle sue folli avventure, senza lamentarsi, nonostante mai, quello sciagurato
di Holmes, si fosse degnato di suggergli in che razza di guai si stessero
cacciando.
Si aspettava, ogni volta, che
confidasse pienamente in lui, senza spiegare niente, senza mai avvertirlo dei
rischi, senza nemmeno concedergli il diritto a fare domande. Non poteva parlare,
mentre aveva il dovere di ascoltare le sue infinite orazioni che, comunque, lo
lasciavano sempre con l’amaro in bocca e la sensazione che quello che di importante c’era da dire, Holmes lo tacesse. I suoi
consigli erano a malapena ascoltati e mai seguiti.
Si sentiva, spesso e volentieri,
inutile, un peso morto che Holmes si trascinava dietro senza averne realmente bisogno.
Eppure l’investigatore non gli
permetteva di allontanarsi, faceva tutto ciò che era nelle sue possibilità per
tenerlo legato, facendo leva sul suo buon cuore, sul suo senso del dovere e
sull’affetto che, inevitabilmente aveva iniziato a nutrire per lui.
Maledetto egoista.
Gli negava ostinatamente ogni
possibilità di farsi una vita. Accanto a lui, Watson lo sapeva fin troppo bene,
non avrebbe mai e poi mai avuto la possibilità di una vita normale. La vita
tranquilla, da buon inglese,
da buon medico che si era guadagnato al servizio dell’esercito di
Sua Maestà. Voleva degli orari regolari, alzarsi la mattina quando albeggiava e
andare a letto presto, avere il suo tè alle cinque esatte, una clientela
affezionata, una casa pulita e accogliente e una moglie che lo facesse sentire
tranquillo e soddisfatto.
Niente di tutto ciò era minimamente
compatibile con un rapporto con Holmes, soprattutto l’ultima parte. Da quando aveva cominciato a frequentare Mary
il suo amico si era fatto sempre più scorbutico e insistente
e aveva tentato con ogni mezzo di convincerlo a rompere i rapporti con la
fidanzata. Che Mary fosse una persona responsabile, di grande forza d’animo che
sicuramente gli sarebbe stata accanto in ogni momento della sua vita, non lo
interessava minimamente.
Era solo un maledetto egoista. Lo
avrebbe privato di qualsiasi piacere, pur di averlo accanto a sé, a sua
completa disposizione. Da lui non c’era veramente da aspettarsi niente.
Eppure, che avesse avuto la faccia tosta di trattare Mary come aveva fatto non se lo sarebbe
aspettato. E il suo desiderio di umiliarla era stato tale che aveva preso una
totale cantonata nell’analizzare il carattere e la vita precedente di Mary.
Watson non avrebbe mai creduto che
i pregiudizi che aveva nei confronti della signorina
sarebbero riusciti persino ad annebbiare la lucidità della sua mente razionale.
Era stata la prima volta che aveva assistito a un suo fallimento nell’uso della
logica.
Non sapeva se era rimasto più
sconvolto dalla infantile scortesia di Holmes o dal
suo errore madornale.
Mentre cercava di concentrarsi sul
suo paziente, il dottore non poteva esimersi dal continuare a interrogarsi
intorno all’investigatore. Dalla risoluzione del caso Blackwood
erano passate, ormai, quasi due settimane, durante le quali non lo aveva mai visto. Non avrebbe saputo dire se, a trattenerlo
dal fargli visita fosse il più che comprensibile sdegno per come aveva trattato
la sua promessa, che il dottore aveva accantonato finché il suo amico era stato
in pericolo, ma di cui non si era scordato, o l’inquietudine che lo aveva colto,
nel momento in cui era stato testimone di quanto la gelosia lo avesse accecato.
Mentre era immerso in queste
riflessioni, l’uomo di fronte a lui aveva cessato di parlare e lo fissava con
aria di aspettativa che si faceva via via più impaziente alla sua mancata risposta.
Il dottore si riscosse, cercò di
ricordare la conversazione appena avuta, ma con fastidio si accorse di non
essere in grado di recuperare se non brandelli di informazioni.
Dissimulando il disappunto e l’imbarazzo, fece accomodare l’uomo sul lettino e
tirò il paravento in modo da nasconderlo alla vista.
“Levativi il cappotto e slacciate
la camicia, signor Sunders, se non vi spiace”.
Mentre il paziente si spogliava,
Watson lavò accuratamente le mani, distogliendo lo sguardo dal paziente.
Ma Holmes
continuava a infiltrarsi fra i suoi pensieri.
Era preoccupato per lui e questo lo
irritava. Era adulto e più o meno responsabile, in
fondo aveva vissuto diversi anni da solo, prima che lui cominciasse a fargli da
balia: non c’era nessun reale pericolo a lasciarlo a se stesso per un po’.
D’altro canto non poteva negare che
le pulsioni autodistruttive del suo amico fossero violente e che la sua assenza
le esacerbasse. Provava un certo orgoglio e un malsano piacere al pensiero che
solo grazie a lui Holmes non si abbandonasse alla sua dipendenza dalle droghe e
riuscisse a condurre una vita quasi regolare.
Si chinò sul torace nudo del signor
Sunders e cominciò a tastarlo, cercando punti dolenti
o gonfiori sospetti.
Doveva pensare anche alla propria
autoconservazione, aveva il diritto di essere egoista anche lui ogni tanto,
anzi, a ben vedere, non si trattava di egoismo, quanto di semplice buon senso,
perché, in fin dei conti, i rischi a cui andavano incontro
continuando a frequentarsi assiduamente come avevano sempre fatto, erano
peggiori di quelli a cui Holmes andava incontro costretto ad arrangiarsi da
solo.
Per quanto si trattava di lui,
Watson, non erano nemmeno paragonabili. A stargli alla larga, aveva solo da
guadagnarci.
Il rapporto fra loro due
travalicava la semplice amicizia. Era qualcosa di morboso. Non era in grado di
giudicare, per quello che riguardava i sentimenti di Holmes, ma per quello che
riguardava i suoi erano qualcosa che andava ben aldilà
della morale e del comune buon senso.
Era completamente succube di lui,
da sempre. Non poteva rifiutargli niente.
Quando questo si era trasformato in
ciò che provava adesso nei suoi confronti non ne era
certo, ma era assolutamente certo che fosse giunto il momento di sottrarsi alla
sua influenza. Anche per questo, o forse soprattutto per questo, aveva
cominciato a frequentare Mary. Se fosse stato altrimenti, sospettava che le
attrattive della vita casalinga non gli sarebbero parse altrettanto allettanti;
ma da quando si era reso conto di come si era trasformata l’influenza che
esercitava Holmes nei suoi confronti aveva saggiamente
deciso di mettere un anello matrimoniale fra sé e le sue tentazioni.
Holmes era imprevedibile e geniale,
strafottente e affascinate, agile come un gatto alla bisogna e al tempo stesso
irrimediabilmente goffo la maggior parte del tempo. Lentamente si era
appropriato di tutti i suoi pensieri, di tutte le sue emozioni, di tutta la sia
vita. Il dottore avvertiva un brivido scivolargli lungo la spina dorsale,
mentre realizzava quanto Holmes si fosse impresso nella sua anima. Ricordava
tutto di lui, gli bastava chiudere gli occhi per vederlo, distrarsi un attimo
per sentire la sua voce. Riconosceva ogni sua inflessione, conosceva ogni suo
gesto.
Non era così sciocco, né così ingenuo
da non riconoscere i sintomi. Aveva avuto in cura diversi pazienti che
manifestavano la medesima ossessione e sapeva perfettamente cosa significava. Poiché
aveva riconosciuto il suo male con facilità, questo era cresciuto in fretta.
Talvolta si domandava cosa sarebbe
accaduto se lui non avesse cominciato a sospettare dei propri sentimenti. Forse
non avrebbe mai cominciato a pensare a Holmes in quell’ottica. Forse non si
sarebbe mai trovato a studiarlo con avidità, da dietro il suo sguardo grigio e
indifferente, non si sarebbe mai scoperto a chiedersi che consistenza avessero
i suoi arti scolpiti, che odore la sua pelle, che sapore la sua bocca. Invece
era vittima di una passione bruciante che solo l’abitudine a una discrezione
esercitata fin dall’infanzia gli permetteva di nascondere.
Watson si era sempre giudicato un
uomo profondamente etico. Aveva più volte superato i limiti della legalità,
soprattutto in compagnia di Holmes, ma aveva sempre rispettato quelli della sua
morale personale. Quello a cui adesso anelava, invece,
non solo era illegale, ma anche decisamente immorale.
Da persona concreta e razionale qual’era, si era spesso chiesto se l’omosessualità fosse a
ragione considerata un peccato contro Dio e una grave malattia della società e
spesso si era risposto che quei poveretti facevano del male solo a se stessi.
Comprenderlo negli altri però era decisamente più
facile che accettarlo per quanto riguardava se stessi. Watson non era mai stato
un critico tenero dei propri peccati e quello che perdonava negli altri, lo
condannava in sé.
E quello che lo legava a Holmes era
qualcosa di crudele e perverso che lo spaventava persino, con cui non riusciva
a venire a patti.
Quando Holmes, solo un paio di
settimane prima aveva giocato con il suo anello di fidanzamento e lo aveva
accusato di volerlo abbandonare, era stato travolto da un’onda di rabbia
bruciante che non credeva di poter provare. Per la prima volta nella sua vita,
si era trovato a chiedersi se la sua forza fisica e la sua abitudine al corpo a corpo, sarebbero bastati per aver ragione delle
capacità boxistiche di Holmes. Aveva desiderato afferrargli i polsi, torcerli
fino a fargli male, male davvero, nel modo in cui un medico sa di poter far
male. Di prenderlo per la gola e stringere finché non gli avesse spezzato il
respiro e ascoltarlo annaspare inutilmente per l’ossigeno. Aveva desiderato
morderlo, non baciarlo, morderlo per vedere il suo sangue, per trasmettergli quella
furia devastante, quella sofferenza crudele che non poteva alleviare, perché
capisse e soffrisse con lui, egli che era sempre inconsapevole di tutto.
In modo simile e differente, gli era capitato, durante gli incontri di boxe di Holmes, di
desiderare che, per una volta, uno dei suoi incapaci avversari, lo mandasse a
terra con la mandibola frantumata e un paio di costole fratturate. Non per
poterlo assistere, aveva già fin troppe occasioni per assisterlo inabile e
sofferente, ma il piacere sadico ed estetico che era
certo che la vista del corpo leonardesco del collega, infranto e macchiato di
sangue gli avrebbe dato.
L’attrazione per Holmes sembrava
inevitabilmente declinare in una lussuria seviziosa e
inquietante, inevitabilmente peccaminosa, ragion per cui
aveva fatto di tutto per allentare il legame che li stringeva e per gettare
acqua sul fuoco dei suoi sentimenti.
Fino a quel momento, però, c’era
sempre stato qualcosa che aveva semplificato le circostanze: la convinzione che
Holmes non lo ricambiasse, che fosse troppo concentrato
su stesso per poter provare qualsivoglia genere di sentimento per un altro.
Cogliere l’ampiezza della sua
gelosia, aveva improvvisamente offerto al dottore un’altra prospettiva: se
esisteva la possibilità che il suo collega non lo rifiutasse, Watson non era affatto sicuro di essere in grado di resistere.
Quindi non
restava che troncare, allontanarsi da lui definitivamente, o almeno finché
entrambi non avessero recuperato il lume della ragione.
Non desiderava rischiare di
soggiornare in qualche cella, ma soprattutto non voleva perdere il rispetto che
aveva di se stesso.
Holmes non conosceva il significato
della parola buonsenso e Watson aveva avuto fin troppe
evidenze della totale incapacità dell’amico di resistere a qualsiasi
tentazione. Stava a lui decidere per entrambi e per entrambi era un bene che si
allontanassero.
Anche se allontanarsi da Holmes era doloroso come strapparsi un braccio.
Il paziente sussultò, mentre lo
palpava con eccessiva energia e Watson si affrettò a
scusarsi, vergognandosi del modo in cui si era lasciato distrarre dal suo
dovere, lui sempre così responsabile. Una dimostrazione in più di quanto certi
sentimenti non portassero altro che problemi. Il pensiero di Holmes, non
avrebbe dovuto turbarlo al punto di distrarsi durante una visita. Il pensiero
di nessuno, uomo o donna, avrebbe dovuto avere tanto poter su di lui.
Il dottore si concesse alcuni
secondi per chiudere fuori dalla mente i pensieri che tanto lo turbavano,
quindi riprese a palpare il paziente con delicatezza. Ritrovata la
concentrazione, diagnosticare il problema e chiudere la visita fu questione di
pochi minuti. Eppure fu per Watson una delle più grandi fatiche che si fosse
trovato ad affrontare.
Più desiderava allontanarli, più i
ricordi, i dubbi, i desideri lo braccavano.
Era una parola difficile,
dolorosa, perfino orribile, ma la verità era che lo amava. Lo amava in un modo
in cui era convinto di non poter amare nessun altro, sicuramente non Mary.
Apprezzava Mary, la stimava, le
voleva bene, molto più che a Holmes, ne era sicuro, ma
solo per lui provava quel desiderio implacabile, solo l’assenza di lui lo
faceva sentire così solo.
Ed era sicuro che, contrariamente a
qualsiasi evidenza portata dalla logica e
dall’esperienza, una volta perso Holmes, si sarebbe sentito solo per sempre.