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Autore: Woland in Moskau    23/07/2011    1 recensioni
E se l’istinto avesse una ragione, questo non avrebbe senso di esistere. E se la ragione avesse un vincolo perenne sul cuore, questo perirebbe. Amy sapeva sin dall’inizio dove sarebbero arrivati con quel contatto, ma non aveva voglia di rintanarsi ancora in scuse recalcitranti, come sempre non aveva pensato dinnanzi al bacio affamato che aveva sostituito l’abbraccio di poco prima.
SOSPESA
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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You’re just another love song


 

 Dicono che se rivolgi maggiormente l’attenzione in direzione della costa puoi sentire le mille voci che attraversano New York City. Lungo i viali, percorrendo le immense strade illuminate da luci confuse e veloci le nenie appartenenti a milioni di persone sembrano quasi rincorrersi all’infinito per morire insieme nel cielo, dopo aver superato con un balzo la fiaccola imponente sostenuta con orgoglio dal simbolo della città. In realtà, penso di non aver mai avuto il tempo di soffermarmi ad ascoltarle tutte. Mi sarebbero servite molto, avrei voluto con tutto il cuore abbandonarmi a racconti sconosciuti e proveniente da ogni dove, ma il mio cuore sembrava restio ad accettarle e le mie orecchie sorde dinnanzi a queste. Stavo perdendo lentamente la capacità di farmi sorprendere da ciò che mi circondava, stavo diventando sbiadito, una pagina scolorita dall’inchiostro poco chiaro e vecchio destinata a diventare illeggibile.
 

 

*
 

 

Amy Dixon non aveva mai avuto realmente l’intenzione di abbandonare l’Inghilterra. Il suo era stato perlopiù un capriccio, una delusione momentanea nei confronti della chiusura mentale di suo padre, dell’incomprensione che da sempre aleggiava nell’ambiente familiare in cui viveva. Non era tale la situazione da portarla a pensare di non vedere più i muri della vecchia casa elegante in cui era cresciuta, bel casino mescolare sentimenti come l’impulsività e l’orgoglio. Da quel giorno, in cui aveva marciato con sicurezza lungo il vialetto di casa per non farne più ritorno, era rimasta fedele alla sua parola e aveva preso ormai innumerevoli aerei ma nessuno diretto a Londra con scalo a Winchester.                                                                          

Camminava lentamente per le vie di Time Square, uno dei centri industriali e turistici maggiori della Grande Mela, alla ricerca dell’indirizzo scribacchiato sul foglietto che stringeva in mano da parecchi minuti, consultandolo come una mappa. Sbuffò spostandosi nervosamente i capelli dagli occhi, alzando continuamente lo sguardo, come illudendosi di essere finalmente giunta a destinazione. Dopo qualche minuto di sconforto e di imprecazioni nervose riuscì a trovare l’imponente sede della Parker Records e si sentì alquanto stupida per non aver subito notato un’imponente edificio come quello che le si porgeva dinnanzi alla vista, soprattutto perché c’era già stata in quel posto, ma probabilmente il suo cervello aveva inconsciamente eliminato ogni informazione che riguardava un determinato periodo della sua vita, o forse era solo l’effetto del jetlag.
Quando finalmente si trovò di fronte alle pulite vetrate dell’ingresso alzò lo sguardo, facendo scorrere velocemente i numerosi piani del grattacielo. La sensazione che percepì era uno strano senso di nausea misto a un giramento di testa causato dalle vertigini, ma soprattutto da ciò che si preparava ad affrontare. Fece un grande respiro e aprì la porta, ritrovandosi in un’immensa e bianca hall. Raggiunse con passo incerto il banco informazioni e strascicò un saluto per attirare l’attenzione della bionda Barbie che le rivolse un falso sorriso cangiante.
-Posso aiutarla, signorina?-
Anche la voce di quella bambola curata era perfettamente modulata e Amy non potè non sentire il nervoso salirle lentamente, non aveva mai sopportato quel genere di persone e si ritrovava sempre e comunque, in qualche modo, ad averci a che fare. Con pregiudizi sulla sua persona inclusi.
-Sì, ho un appuntamento con il signor Parker.-
-Il signor Parker?-
Barbie la squadrò per bene e spalancò gli occhi con fare innocente, poi senza aggiungere una parola attese una conferma al telefono, che aveva repentinamente preso in mano, con un gesto quasi di stizza.
-Mi dica il suo nome per favore.-
Con il telefono ancora in mano, volse il suo sguardo altolocato in direzione della ragazza che aveva di fronte, che era alquanto fuori luogo, perlomeno secondo i suoi canoni prestabiliti.
-Amy Elizabeth Dixon.-
Amy non aveva distaccato un minuto gli occhi dalla bambolona, quasi accettando la sua provocazione e sfidandola. Cosa ci faceva un pagliaccio dai capelli rosa e una borsa sporca di vernice in quel posto così chic? E come osava chiedere del vertice della società con una tale leggerezza? Erano assolutamente cazzi suoi e questo era ciò che il suo sguardo duro come l’ossidiana voleva trasmettere a quello stupido e cangiante dell’invidiosa portinaia.
-Bene, signorina Dixon, prenda l’ascensore fino all’ottavo piano, poi giri a sinistra e…-
-La so già la strada, grazie. Buona giornata.-
-Arrivederci.-
Amy si allontanò con un sorrisetto compiaciuto dipinto sulle labbra, mentre si stringeva in mezzo a una moltitudine di uomini in giacca e cravatta e donne in tailleur, talmente occupati da non accorgersi della macchia colorata in mezzo a loro, grigi.  Però preferiva così, preferiva quando le persone non si accorgevano di lei, piuttosto che quando le lanciavano occhiate giudiziose, come era accaduto poco prima con la bionda della hall.
Quando raggiunse l’ottavo piano, l’ambiente era cambiato, o perlomeno in giro si vedevano più persone stravaganti. Infatti lì in zona c’erano le sale di incisione e quindi qua e là sbucavano fuori musicisti indaffarati ed esaltati dal nuovo contratto. La Parker Records, infatti, era una delle principali case discografiche americane che stava per approdare anche all’estero, direzionata soprattutto verso gli artisti emergenti provenienti dalla scena underground della City e quindi suoni prettamente più grezzi, che solo una persona con un forte ego e una forte volontà avrebbe potuto prendere sotto la sua ala protettrice.
Fece inconsciamente una smorfia sentendo il senso di nausea ampliarsi e punzecchiarle la gola, quando finalmente giunse di fronte a un ufficio chiuso, imponente.
-Sì?-
Girò lo sguardo e per poco non vomitò del tutto.
-Ciao Jane, quanto tempo.-
La ragazza si sistemò i capelli cotonati poi spalancò bene gli occhi e riconobbe la colorata artista di fronte a sé.
-Amy, quanto tempo. Ti trovo ehm… bene.-
I suoi occhi avevano percorso lentamente l’intera figura di Amy, soffermandosi sulla valigia sporca di colori di ogni tipo e sui capelli, che raramente la ragazza aveva visto di un colore naturale. Infatti ora sfoggiavano un rosa tenue, abbastanza scolorito.
-Non sforzarti troppo, non penso sia necessario.-
La donna alzò appena le sopracciglia e aprì appena le narici in segno di disprezzo nei suoi confronti, fece poi movimenti analoghi alla sua collega all’entrata e non appena mise giù la cornetta, fece un sorriso.
-Prego, il signor Parker ti attende.-
-Arrivederci Jane.-
-Buona giornata Amy.-
Si lasciò sfuggire una risatina di scherno, che Amy ignorò totalmente. Aveva un problema molto più grosso da affrontare in quel momento, anche se le seccava particolarmente considerarlo un problema.
-Avanti.-
Riconobbe la voce profonda ed ammaliante, un po’ fredda e autoritaria alla prima sillaba. Aveva appena bussato e subito le era stato concesso di entrare. Sbuffò e cominciò a respirare regolarmente, richiudendo la porta dietro di sé. L’ufficio era ordinato e pulito come se lo ricordava, con pile di carte sulla scrivania di legno pregiato e la poltrona del dirigente girata verso l’immenso spettacolo della città attraverso le vetrate, uno spettacolo che le aveva sempre aperto uno squarcio nel cuore. Ipersensibilità da artista, diceva lui.
Era al telefono, come quasi sempre. Si girò e le rivolse un saluto con la mano mentre parlava ancora concitato con qualcuno di cui riusciva a sentire poco chiaramente la voce, ma sicuramente la cosa non le avrebbe interessato. I capelli erano più lunghi ma comunque curati, nonostante gli ricadessero continuamente sul volto, data la precarietà del modo in cui erano legati. Stava bene, gli ricordava uno dei tanti personaggi manga che aveva avuto modo di vedere in Giappone. Forse uno di quei manga ambientati nell’Europa ottocentesca come Kuroshitsuji o D. Gray Man, ridacchiò appena a pensarci, attirando del tutto la sua attenzione.
Finalmente abbandonò il cellulare sulla scrivania e si lasciò andare pesantemente sulla sedia, massaggiandosi le tempie con ampi movimenti circolari delle dita. Poi la guardò e accennò ad un sorriso, anche se in realtà non gli riusciva molto bene. Amy ricordò lui e ricordò quello che avevano passato e la situazione in cui erano e il riso di poco prima lasciò spazio alla nausea che l’aveva accompagnata per l’intera mattinata. Ora non erano niente, non sapeva nemmeno perché lui aveva voluto che venisse lì.
-Ciao Amy, hai fatto buon viaggio? Accomodati pure!-
Gentile come sempre, lei era ancora pressoché attirata verso la porta da cui era entrata, la vigliaccheria le imponeva quasi di riaprirla e correre via velocemente, ma non l’avrebbe mai fatto. Mosse qualche passo piano, senza alzare lo sguardo e sedendosi di fronte a lui, iniziando a stropicciarsi la gonna che indossava, che in quel momento le apparve troppo corta.
-Sì tutto bene, grazie. Tu, John?-
Lui si sistemò meglio sulla sedia, mentre accendeva lo stereo da lontano con un telecomando quasi invisibile appoggiato vicino a un telefono. Erano i Radiohead, l’album era Ok Computer per la precisione, uno dei preferiti di John, da quanto ricordava Amy.
-Ho fatto incidere ai 5BB il loro nuovo album e siamo molto soddisfatti, infatti tra un mese dovrebbe partire la nuova tournee. Solo che questa volta sarà in tutta l’America, non solo nel distretto di New York. Infatti sto un po’ impazzendo a organizzare il tutto…-
Si lasciò andare ad una risata cristallina, ma abbastanza controllata.
-Sì me l’aveva detto Matt. Mi ha mandato una mail prima di partire con Jensen per l’Australia…-
Non riusciva a parlare tranquillamente, come se nulla fosse. Non ce la faceva proprio e non capiva perché lui si stesse comportando in quel modo così sibillino e alquanto irritante.
-Com’è andata a Tokyo? Hai sbarcato il lunario come mangaka?-
Alzò gli occhi sino ad incontrare i suoi, chiari e grandi. Li sgranò appena e cercò di riassumere i sei mesi in cui era stata via.
-Bene, sì sono soddisfatta. Io e il mio socio Hiruma siamo stati quasi subito serializzati dalla Shueisha e mi hanno proposto un contratto a distanza, per farmi tornare in America, dato che all’inizio l’avevo chiesto e...-
Aveva chiesto di tornare in America per stare vicino a John, se lo ricordava bene. Ma ora non aveva più senso lasciare il Giappone, in realtà.
-E però in realtà non so più se lascerò il Giappone o meno. Voglio dire, non ho più realmente un motivo per farlo.-
John mantenne lo sguardo fisso in sua direzione, le mani incrociate sopra la scrivania e la bocca semiaperta, come a voler dire qualcosa, che però si era arrestata sulle sue labbra.
-No, ti capisco Amy. Effettivamente non hai più nulla da spartire qui.-
Si alzò e le diede le spalle, fissando il panorama con malinconia, conscio della frecciatina che aveva appena lanciato. Infatti l’atteggiamento di Amy si ribaltò e alzandosi iniziò ad urlare come un’ossessa.
-Cosa significa che non ho più nulla da spartire qui, eh? Che razza di risposta è? Io ti assicuro che qualsiasi cosa ti stia frullando per la mente è assurda, specialmente l’idea di farmi venire qui!-
John si girò con un sorrisetto, colpita e affondata.
-Hai sempre saputo come sono fatto, Amy. E comunque, non ti ha mai sfiorato l’idea che volessi semplicemente vederti dopo tutto questo tempo?-
Amy rimase leggermente spiazzata, ancora in piedi e con i pugni stretti per la rabbia. Si risedette e si coprì le gambe con la borsa, le era sovvenuto uno strano senso di pudore in presenza dell’uomo in giacca e cravatta di fronte a lei.
-No, perché sei un insulso calcolatore da sempre.-
-Ti ringrazio per il complimento, Amy. Comunque confermo che volevo semplicemente vederti.-
Lei lo guardò, poi abbassò gli occhi perché sentiva il magone crescerle e soprattutto gli occhi inumidirsi. Odiava piangere, specialmente in presenza di John.
-E perché tu vorresti vedermi? Hai appena finito da dire che non ho più nulla da spartire con te ed effettivamente è così, per una volta siamo d’accordo su qualcosa.-
Non riuscì a fermare le lacrime, ma perlomeno a modulare la voce sì. Lui finse di non accorgersi che stava piangendo e con le mani in tasca, ancora rivolto verso i grattacieli di New York asserì:
-Se avevo voglia di vederti, significa che no, non è così.-
Amy spalancò la bocca senza capire che fine avesse fatto l’orgoglio tanto saldo di John, che spesso lo bloccava dinnanzi ai suoi sentimenti.
-Tu stai scherzando vero? Sei stato tu a dirmi che se fossi partita per il Giappone non ci sarebbe più stato nulla tra di noi. Non mi hai mandato una singola mail mentre ero via e ora vieni a dirmi che ti son mancata? Tu sei totalmente pazzo e io mi sono ritrovata in un rapporto malsano, sin dall’inizio!-
Ora urlava e singhiozzava, ricordandosi gli albori della loro relazione. Una storia di semplice sesso, lei aveva bisogno di una distrazione, lui di calore umano perché suo padre stava morendo. Poi da quelle reliquie avevano costruito qualcosa che sembrava dovesse reggere, ma quando lei aveva deciso di partire per dare un senso alla sua vita lui aveva reagito lasciandola, o meglio, imponendole una scelta.
-Che il nostro rapporto fosse malsano non posso negarlo, Barbie. Comunque fatto sta, che da quel rapporto malsano avevamo costruito qualcosa per cui essere felici. Non puoi biasimarmi poi se non ti ho cercato, non mi sono rammollito del tutto, una base forte di orgoglio l’ho ancora.-
-Hai perso le palle, ma l’orgoglio ti è rimasto, giusto?-
Amy era fuori di sé, sapeva che non l’avrebbe fatto infuriare facilmente, ma perlomeno voleva provarci. Come tutte le volte, lui calcolatore, lei istintiva.
-Felice di notare che anche tu sei sempre la stessa. Comunque questo è tutto ciò che ho da dirti, non ho mai smesso di provare determinati sentimenti nei tuoi confronti.-
Amy era spiazzata. Il cuore le batteva talmente velocemente che quasi le sembrava dovesse uscirle dal petto per finire nelle mani di John, dove era realmente sempre stato. Ma non capiva, aveva paura di lui, ormai aveva bisogno di stabilità.
-Io ho bisogno di pensarci su, John. Ormai ho quasi venticinque anni, ho bisogno di stabilità e di tranquillità e non sono sicura che sia ciò che tu mi possa dare.-
Lui sospirò e sorrise tristemente con lo sguardo basso.
-Almeno apprezza lo sforzo che ho fatto.-
Amy questa volta sorrise con sincerità. Era cambiato, o perlomeno nei suoi confronti lo era. Gli si avvicinò piano e lo abbracciò forte, appoggiandosi al suo petto, sentendo il suo respiro caldo sulla nuca e il profumo del costoso dopobarba inebriarle la mente, quasi ammazzando la sua ferma lucidità.
E se l’istinto avesse una ragione, questo non avrebbe senso di esistere. E se la ragione avesse un vincolo perenne sul cuore, questo perirebbe. Amy sapeva sin dall’inizio dove sarebbero arrivati con quel contatto, ma non aveva voglia di rintanarsi ancora in scuse recalcitranti, come sempre non aveva pensato dinnanzi al bacio affamato che aveva sostituito l’abbraccio di poco prima. 

 

  
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