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Autore: xMoonyx    23/07/2011    6 recensioni
Watson, irritato dalle continue chiamate dell'amico, per non annullare l'appuntamento con Mary propone una sfida a Holmes, e del resto l'investigatore non può che accettare.
« Indaghi sulla sua vita privata. »
« Sulla mia vita privata? » ripeté infatti il famoso investigatore, prestando la completa attenzione a Watson.
« Sì, trovi quella persona speciale che la accompagnerà per il resto della vita. Trovi l’amore, Holmes. » c’era un tono forse esausto nella sua voce: sembrava di sfidare un ragazzino poco incline ad ascoltarlo o meglio, capirlo..

Holmes è abituato alle indagini, e si metterà subito all'opera, ma presto si accorgerà che scoprire l'amore è più complicato di sventare i piani di un pazzo assassino pluriomicida. Per una volta l'investigatore non è all'altezza di risolvere il caso, ed è forse per questo che giunge in aiuto una sua vecchia fiamma, Irene.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tutta colpa del cane - S.H.
Desclaimer: I personaggi non appartengono a me ma ad Arthur Conan Doyle e Guy Ritchie; aggiungo che non avendo letto i libri (spero di poterlo fare al più presto però) ho preso come soggetti i personaggi del film, anche se ho aggiunto qualcosa di mio per umanizzarli maggiormente.

Tutta colpa del cane

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« 
Q
uindi... le dispiacerebbe spiegarmi perché mi hai fatto chiamare con tutta questa urgenza?»
Watson sedeva composto sulla poltrona, forse solo un po’ rigido, ma certo non per quello che si aspettava di sentire.
La gamba accavallata si muoveva nervosamente e la mano nella giacca anche, estraendo ad intervalli regolari l’orologio da taschino.
« Oh sì, certo, si sieda Watson. »
« Ma io sono già seduto, forse lei dovrebbe farlo. »
Ma Watson conosceva abbastanza Holmes per sapere che non si sarebbe seduto: era tipico di lui, quando discuteva di qualcosa d'importante, camminare avanti e indietro come se così potesse riordinare i pensieri nella tua testa. La fronte contratta, le dita che tamburellavano sulla pipa, l’altra mano che si apriva e chiudeva ansiosamente dietro la schiena, tutti sintomi di un profondo e complesso ragionamento.
« Ho pronta per lei un’indagine. »
« Cosa? »
Del resto se l’era aspettato.
« Siamo appena usciti dal caso di Blackhood per cui io ho rischiato seriamente di rimetterci la pelle e adesso che finalmente possiamo starcene tranquilli e in pace lei pensa ad una nuova indagine? »
Holmes si fermò, con quello sguardo splendente da bambino determinato. « Esattamente. »
Watson si ritrovò a sospirare sonoramente e tramontare gli occhi al cielo.
« Avrei anche una vita privata... »
« Beh anche io se è per questo. »
« Lei? E quale sarebbe, scusa? Stare tutto il giorno stravaccato sul divano a bere wisky, usare i miei vestiti e fare esperimenti sicuramente fuori legge sul mio cane?!»
« Il nostro cane. »
« No, quello è il mio... oh lasci perdere! »  Distolse lo sguardo, sentendo che se la conversazione fosse continuata così ne avrebbero rimesso i suoi nervi. Prese una grande boccata d’ossigeno e tornò a guardare l’amico, adesso intento a scuotere la pipa per far cadere la cenere.
Alla fine capitolò.
« Le do cinque minuti, Holmes!  Perché ho un appuntamento con Mary, oggi, vorrei finalmente chiederle di sposarmi. E non posso davvero rimandarlo per seguirla in qualche sua mortale avventura! »
« Niente di tutto questo, sarà un qualcosa di semplice. »
« Cinque minuti, si ricordi. »
« Oh me ne occorreranno anche di meno ma, piuttosto...  ha quindi deciso davvero di prendere in moglie quella donna? »
Ecco, ci risiamo... Watson distolse lo sguardo come se guardando Holmes non avesse più potuto controllare la sua irritazione e sarebbe senza dubbio esploso in qualche altra scenata.
Gli mancava solo la sua gelosia!
« Sì, per l’amor del cielo, ho intenzione di sposarla. Possiamo tornare alla sua indagine invece? Sa com’è, i cinque minuti... »
« In che ristorante? »
Watson lo guardò con un misto di disperazione ed esasperazione: Holmes era accigliato come se stesse meditando qualcosa, e Watson colse al volo quello sguardo luminoso.
« So a cosa sta pensando, ma la avverto che lei non è invita-... »
« Di solito ad una domanda consegue una risposta adeguata, non quella ad un’altra domanda. Dunque, in che ristorante? »
« Al Prince » rispose infine Watson, sconfitto « Ma che non le venga in mente di seguirci e ripetere che la mia fidanzata è una divorziata assetata di soldi, in cerca di un marito che la possa soddisfare nelle questioni finanziarie. »
Holmes si aprì in quello che doveva essere un sorriso, ma assomigliava più ad una smorfia divertita: era un abbozzo di risa, ma molto più controllato, ed era tipico del famoso investigatore.
« E’ stata lei a chiedermi di analizzarla, e comunque io non dico niente che non sia la dimostrazione dei fatti e dunque la verità. Ma torniamo a noi, caro amico. Sicuramente si starà chiedendo per quale ragione l’ho convocata qui. »
« A dire il vero ci ho rinunciato. »
« Bene, al momento non c’è proprio nessun caso su cui potremmo indagare... » Holmes interruppe la sua camminata per guardare Watson e puntargli contro la pipa. « Ed è per questo che la nostra nuova indagine sarà quella di trovare un caso! »
Si era aspettato qualcosa del genere, ma non una cosa tanto assurda.
« Lei è completamente pazzo. »
« Lei è troppo pigro. »
« Non sono pigro, ho solo una vita privata, quella che dovrebbe farsi anche lei. »
Holmes si lasciò ricadere sul divano disfatto, i capelli per aria, la barba non tagliata, e lo guardò con quella sorta di broncio inavvertito.
A volte era proprio come un bambino ma Watson lo conosceva abbastanza per poter affermare che non si doveva sottovalutare quel personaggio dall’acume così acuta e un’intelligenza incredibilmente deduttiva.
Avevano investigato assieme su tanti di quei casi che Watson sapeva che Holmes non era uno sprovveduto, anche se a volte decisamente logorroico e fin troppo solare.
No, Holmes era molto di più... se avesse dovuto attribuire una persona al termine Logica non avrebbe avuto dubbi nello scegliere proprio lui.
Ma i tempi delle indagini, delle corse contro il tempo, dei salti nel vuoto, delle sparatorie e dei cazzotti, della lente d'ingrandimento a osservare macchie di sangue sui cadaveri o orme sul terreno erano ormai lontani.
Adesso Watson aveva una fidanzata; e avrebbe pensato alla sua carriera di medico e alla sua futura famiglia.
 Possibile che l’amico non l’avesse capito? Possibile che Holmes credesse di vivere ancora come in quei tempi giovanili?
« Piuttosto ho io una nuova indagine per lei. »
Holmes si riscosse dai suoi pensieri e spostò i grandi occhi scuri su di lui, ancora l’ombra di quella lieve espressione accigliata nello sguardo.
« Indaghi sulla sua vita privata. »
« Sulla mia vita privata? » ripeté infatti  il famoso investigatore, prestando la completa attenzione a Watson.
« Sì, trovi quella persona speciale che la accompagnerà per il resto della vita. Trovi l’amore, Holmes. » c’era un tono forse esausto nella sua voce: sembrava di sfidare un ragazzino poco incline ad ascoltarlo o meglio, capirlo.
Holmes continuò a fissarlo e corrugò la fronte: quelle rughe erano la dimostrazione che ancora una volta era perso in un complicato ed aggrovigliato ragionamento.
« Bene e adesso, se non le dispiace, io devo proprio lasciarla. I cinque minuti sono più che passati e Mary mi starà aspettando. Buona ricerca. »
Con un sospiro irritato gli lanciò in grembo una cornice, prese la sciarpa dall’appendiabiti di Holmes... o meglio, dal suo appendiabiti... e varcò la soglia richiudendosi sonoramente la porta alle spalle.
Quando il silenzio calò sulla stanza Holmes abbassò la testa sulle proprie mani, girando la cornice.
In essa vi era rappresentata Irene, una sua vecchia fiamma.
Rialzò lo sguardo sulla porta, corrugando la fronte.
Una sfida, eh, Watson? Significava qualcosa che gli avesse lanciato proprio quella cornice?
Holmes aveva sete di nuove avventure, e comunque voglia di fare qualcosa: per quanto stravaccarsi beatamente sul divano a fissare il cane apparentemente privo di vita –almeno a giudicare dagli occhi vitrei e le zampe tese come corde di violino- fosse irreparabilmente rilassante, forse doveva davvero seguire il consiglio che il fedele amico gli ripeteva in continuazione; ovvero uscire di casa e prendersi una boccata d’aria.
Fu così che con un impeto di coraggio e una rinnovata voglia di fare indossò la giacca e scese in strada per raggiungere gli alloggi di Irene.

*

« Sherlock, non per essere scortese ma... si può sapere che stai facendo? Sono dieci minuti che continui a fissarmi intensamente senza proferire parola e sinceramente inizio ad annoiarmi. Certo, posso capire che il mio fascino ti abbia rapito, però... »
« Ti sto analizzando, a dire il vero. Cerco di imprimermi ogni tuo dettaglio nella mente per capire cos’è che di te mi piace di più. »
Irene non arrossì; era avvezza ormai ai complimenti, tanti ne aveva ricevuti, e sebbene nutrisse un debole per l’investigatore doveva ammettere che quello sguardo così intenso la metteva a disagio.
Certo, era a conoscenza di quel suo lato così incredibilmente sincero. Tanto sincero che spesso risultava totalmente e irreparabilmente privo di tatto. Ma comunque quegli occhi neri parevano trafiggerla e ... a dirla tutta lei aveva anche i suoi impegni!
« Capisco, e ripetimi ancora una volta perché lo stai facendo. »
« Watson mi ha lanciato una sfida e non ho la minima intenzione di perdere. »
« E così, per curiosità... quale sarebbe il premio? »
Holmes fece una smorfia, interdetto. A dire il vero non lo sapeva nemmeno lui.
Già, qual era il premio? Bella domanda.
« Quando si indaga su un caso non ci si aspetta un premio. » rispose alla fine con un sorriso sarcastico e astuto.
Irene distolse lo sguardo mordendosi il labbro, come se si stesse imponendo di mantenere il silenzio. Ma era davvero troppo difficile: lo sguardo dell’uomo era davvero troppo intenso, e quegli occhi neri come la pece sembravano brillare di vita propria.
« Stai studiando la tua vittima quindi? »
« Corretto. » rispose Holmes con la fronte corrugata per la concentrazione e gli occhi socchiusi. « Allora... bene, bene... i tuoi capelli sono rossi. »
« Grazie per l’informazione, non lo sapevo. »
« Intendo che forse è questo che mi piace di te: hai i capelli rossi, e mi sono sempre piaciuti i capelli rossi perché sono molto rari. »
« Potrebbero anche non essere naturali. » replicò Irene con l’espressione divertita, stando al gioco.
« Invece lo sono, perché se non fossero naturali si sarebbe notata la ricrescita più scura –o più chiara, dipende dai casi- e inoltre non corrisponderebbe al colore delle tue sopracciglia. Per non parlare del tipo di capello: se avesse subìto colorazioni sarebbe sfibrato e dalla consistenza secca ed artificiale. Inoltre le ciocche tenderebbero a districarsi invece che ad uniformarsi e il volume dei capelli aumenterebbe. E se proprio vogliamo essere precisi... »
« Va bene, ti credo! » lo interruppe Irene, dal momento che ascoltare la lista completa degli infiniti difetti dei capelli colorati snocciolata da Holmes non era certo in cima alla lista dei suoi hobby.
« Comunque se fossi innamorato di me lo sapresti, Sherlock, e non credo dipenderebbe dal colore dei miei capelli. Perché vedi, molte altre donne hanno i capelli rossi... »
Holmes parve accogliere quella nota come oro colato, perché la ascoltava silenziosamente al pari di un alunno affamato di conoscenza.
« Allora forse sono le tue mani. » concluse dopo un lungo ragionamento; e dopo averla scrutata dalla testa ai piedi.
Irene si costrinse a non ridere.
« Le mie mani? Cos’hanno le mie mani di tanto speciale? »
« Sono pallide e affusolate, e le unghie non sono mai troppo corte o troppo lunghe, indice che tu tieni molto al tuo aspetto esteriore ma non in modo eccessivo. »
« Ah-Ah. Beh penso che ad una conclusione simile ci sarebbe arrivato anche un bambino. »
« Sottovaluti il mio spirito critico? » Holmes sorrise, raddrizzandosi sulla schiena e tornò a scrutarla con l’espressione concentrata: la fronte corrugata e il mento tra pollice ed indice.
« Forse le tue orecchie. »
« Le mi orecchie? »
« Non sono troppo piccole, e i lobi tendono ad allontanarsi all’ultimo dal collo.  Per questo indossi sempre degli orecchini pendenti piuttosto pesanti, per spingere il lobo verso la sua giusta posizione. »
Irene non commentò stavolta, e nemmeno rise. Holmes ancora una volta dimostrava il suo incredibile e –sì anche eccentrico- spirito di osservazione, e l’unico commento che sarebbe potuto uscire dalle sue labbra sarebbe stato “Ammirevole”.
Ma preferì cambiare argomento e dare tregua a quel povero cervello al lavoro.
« Sherlock... quando ami una persona non lo fai per il suo aspetto fisico. Quando ami una persona ami tutto di lei... è inutile che cerchi qualcosa nel mio viso o nel mio corpo, che ti possa dare una risposta. Cerca piuttosto di andare oltre, Holmes. »
L’investigatore la guardò come se l’avesse vista per la prima volta.
« L’amore è il più grande mistero dell’universo, qualcuno dovrebbe proprio indagarci su! »
Irene rise, e l’uomo con lei. Quando smisero la rossa lo guardò con una serietà che non sembrava nemmeno appartenergli.
« Non devo essere io ad aprirti gli occhi, Sherlock, ma solo tu... »
« Ma se non concludo il caso Watson non mi darà pace! Continua a ripetermi che devo farmi una vita privata e... io davvero ci sto provando! Ma non è certo facile come sventare i piani di un assassino o buttarsi da un ponte spezzato... »
« L’investigatore dell’Amore, eh? » Irene sospirò, rimettendosi in piedi, e versò un secondo bicchiere di Scotch a Holmes.
« Si dice che bere serve per dimenticare, ma con me non ha mai avuto questo effetto... » Holmes vuotò il bicchiere in pochi sorsi e con un sospiro lo poggiò sul tavolo, gli occhi lucidi.
« Ogni volta che tentavo di dimenticare il mio incredibile bisogno di fare qualche indagine finivo per dimenticarmi perché tentassi di dimenticare il fatto, e non il fatto stesso. »
Si voltò verso la finestra, la fronte ancora corrucciata.
« Però non capisco davvero come tutto questo possa essere tanto difficile... sono sempre stato convinto di amarti. »
« E io anche, ma le nostre strade si sono divise... » Irene gli camminò accanto, passandogli una mano sui capelli, e poi sulla barba sfatta. « E poi mi sono accorta che di te apprezzavo specialmente l’ingegno. E tu di me apprezzi la bellezza, ma l’amore non è questo... »
« Non è questo. » ripeté Holmes incantato da quella mano dolce che gli carezzava la guancia –o forse vittima dei primi fumi dell’alcol-.
« Penso che il tuo amico abbia solo cercato di farti capire che nella vita ci sono cose più importanti di un caso o un’indagine. Insomma, della gloria. »
Holmes strinse le labbra e batté le palpebre: lui non aveva mai pensato alla gloria, in tutti quegli anni.
« Ah no? » chiese però con voce impastata, bisognoso di saperne di più. « E cosa voleva dirmi? »
« Probabilmente ha cercato di salvarti la vita. Di salvarti da te stesso, Sherlock... hai solo bisogno di capire cos’è che vuoi veramente. E rispondimi, cos’è che vorresti veramente? »
« Vederci chiaro. » rispose lui intontito.
« Mmm... davvero solo questo? »
« E’ già tanto! E poi vorrei anche mangiare un pavone a casa di mio fratello con Watson. »
« E perché? »
« Immagino perché ho una gran fame. »
Irene sospirò rassegnata. « Stupido, intendo perché proprio a casa di tuo fratello e proprio col tuo amico? »
« Mio fratello ha una grande casa in campagna, e mi è sempre piaciuta l’aria di campagna. E’... più allegra, e non devo sorbirmi il grigiore di Londra. »
Irene sorrise. « E perché proprio con Watson? »
In quell’istante smise di accarezzargli i capelli e si appoggiò con le braccia incrociate al parapetto, guardandolo.
Sherlock aprì la bocca per rispondere, ma la richiuse subito dopo, perplesso.
Perché proprio Watson?
« Perché... è mio amico. »
« Non è una giustificazione sufficiente: anche io sono tua amica, ma tu hai ammesso che vorresti andare in campagna con lui. »
Sherlock tacque ancora.
« Insomma, perché proprio Watson? »
Il cervello di Holmes lavorava in fretta, in cerca di risposte, ma non ne trovò nemmeno una quantomeno plausibile.
« Perché ... » disse dopo quelli che parvero secoli. « Perché lui odia mangiare il pavone. A dire il vero è un animalista sfegatato ma non lo sa nessuno a parte me. Nemmeno Mary, credo... »
« Quella Mary è sua moglie, vero? »
« Non ancora! » rispose Holmes con un tono che uscì incredibilmente irritato ed insieme sollevato. Sbiancò subito dopo.
« Spero di no... »
« E scommetto che questa ragazza non è proprio nelle tue grazie, eh? »
Holmes si voltò a guardarla in quegli occhi così dolci e pieni di vita, e sentì che la risposta oltre le proprie labbra si stesse nascondendo tra i denti per non vedere la luce.
« No. » sputò, aspro. « Ha uno sguardo che non mi piace, sembra quasi che si voglia prendere gioco di Watson, che lo voglia sposare solo per i soldi. Forse è solo una mia impressione ma, modestia a parte, le mie impressioni di solito non sbagliano mai. »
Irene sorrise, come se fossero arrivati a quel punto della questione che Holmes, per quanto si sforzasse, non riusciva a scorgere nemmeno si trovasse ad un palmo dal suo naso.
« Hai paura che Watson sposi Mary o che Watson si sposi? »
Gli ci volle un minuto buono per assicurarsi di aver sentito bene e di conseguenza, accettare di non aver capito la domanda.
« Scusa? »
« Ti da fastidio più il fatto che Watson sposi Mary o proprio che si sposi? »
Ecco, colpito e affondato.
« Che Watson sposi Mary. » rispose guardandola incerto. « Perché mai dovrebbe darmi fastidio il fatto che si sposi in sé? »
Irene scrollò le spalle, divertita. « Non so, speravo me lo dicessi tu! »
E Holmes capì, o meglio, si rese conto di un dettaglio che fino in quel momento aveva giudicato essenzialmente irrilevante: Mary non gli piaceva perché stava per sposare Watson, tutto qui. Del resto non era un tipo così insopportabile, se solo non passasse la maggior parte del tempo ad artigliare il braccio del suo migliore amico, rivolgergli sguardi languidi e battiti di ciglia ammaliatori, e baciarlo appena ne coglieva l’occasione.
Era questo il punto: qualsiasi donna Watson sarebbe stato sul punto di sposare non sarebbe andata a genio ad Holmes, nemmeno un po’.
La verità calò pesantemente su di lui.
« Siamo ottimi amici, tutto qui. » rispose con foga, guardandola quasi in cerca di aiuto. « E’ normale la gelosia tra migliori amici no? »
Irene sollevò un sopracciglio.
« No, so cosa sta pensando... no, no, davvero... non sono gay! »
Irene incrociò le braccia al petto e lo guardò come se stesse delirando.
« Allora parlami delle donne con cui sei stato dopo di me... »
« Emh... io... beh questo non c’entra. Sono stato molto occupato con le indagini... »
« E con Watson. »
« ... per potermi dedicare anima e corpo ad una vita privata. »
« Quindi mi stai dicendo che non sei stato con nessuna donna dopo di me? »
Sherlock aprì la bocca per ribattere ma ancora una volta la richiuse sconfortato, incapace di proferire alcunché.
« No, nessuna. »
« E non hai sentito il bisogno di una donna? »
« Beh... sinceramente non ricordo... può essere ma... c’eri tu insomma. »
« O meglio: il tuo caro amico Watson era sempre al tuo fianco, non avevi bisogno di una donna se c’era lui a farti compagnia. »
« Ma... »
« Tu non sei gay. »
« No, infatti, non lo sono. »
« Eppure fai scenate di gelosia al tuo “migliore amico”, e cerchi sempre un modo per coinvolgerlo nelle tue “avventure”. »
« Ma questo cosa... quello è il lavoro che lo richiede! »
« Giusto, perché la polizia ha bisogno di un medico per catturare un feroce assassino no? »
Sherlok sospirò pesantemente, riacquistando la lucidità che in parte aveva perso a causa dell’alcol e delle carezze della giovane.
« Ancora una volta: io non sono gay! »
« Forse non lo sei, ma ti piace il tuo amico e non lo vuoi ammettere. O forse l’hai sempre saputo. Quando stavamo insieme per esempio, non facevi che parlare di lui, di quanto fosse simpatico, spiritoso, pigro, isterico, irritabile, gentile, intelligente... »
Ma Holmes non l’ascoltava più: si era fermato alla prima fase, a quel fatidico: ti piace il tuo amico e non lo vuoi ammettere.
Piacergli il suo amico?
Piacergli Watson?
Beh sì, gli piaceva... come persona. Come amico, corresse subito dopo la sua mente.
« E per quanto io ti ammiri per la tua intelligenza e l’immediatezza con cui cogli i segni, in questo istante non ti riconosco più: forse sei bravo a studiare gli altri, ma non te stesso! Perché se fossi stato davvero un bravo investigatore –uno di quelli a tutto tondo- avresti capito di essere innamorato del tuo migliore amico! »
Quella parola risuonò nella sua mente come uno sparo.
Il proiettile con su scritto “innamorato” entrò nella sua testa e la spezzò in due, poi scivolò sul suo petto e sul suo stomaco, provocandogli dolorose fitte.
Innamorato? Lui, di Watson?
« Dov’è ora? »
« Chi? » chiese smarrito, tornando bruscamente al presente.
« Come chi, l’oggetto dei tuoi pensieri! Dov’è adesso? »
Holmes pensò a Watson, e di conseguenza a dove si trovasse. Era ancora troppo stordito dalla pallottola “Innamorato” per capire perché la donna gli avesse fatto proprio quella domanda.
« Al Prince con Mary, le chiederà di... »
Si interruppe, con un sussulto.
« Le chiederà di sposarlo! »
Irene spalancò gli occhi, raggiungendolo in un attimo, e prendendogli il volto tra le mani.
« Allora cosa aspetti? Corri, presto, prima che sia troppo tardi! »
Holmes, col cuore a mille e le gambe molli annuì, e Irene gli scoccò un casto bacio sulle labbra.
« Buona fortuna, Sherlock. »
E Holmes corse: corse attraverso la stanza, dimenticando il cappotto nella poltrona di Irene.
Corse nel corridoio dell’appartamento, e lungo le scale, le dita che scivolavano sul corrimano lucido quasi senza percepirlo.
Attraversò come un fulmine l’ingresso grigio, e quasi travolse il povero cancelliere: si fiondò sul portone di metallo e spinse senza accorgersene la vecchietta che l’aveva aperto per entrare.
Si immerse nella strada umida e grigia e corse col cuore a mille per le affollate vie di Londra, col respiro che si tramutava in vapore acqueo abbandonando le sue labbra, le scarpe lustre e nere che si sporcavano di fango ogni volta che incontrava una pozzanghera e la attraversava perché almeno lì non c’era gente.
Ed era assurdo quanto quel paese gli sembrasse estraneo, adesso, quasi ostile, perché Watson non era con lui.
O forse era il pensiero che, se non avesse fatto in fretta, l’avrebbe probabilmente perso per sempre, come la carrozza che avrebbe fatto bene a prendere come taxi. Come il proiettile che continuava a lanciare fitte dolorose forse per ricordargli che era ancora vivo, che era ancora lì, che poteva ancora fare qualcosa.
E tutto aveva un senso, tutto si spiegava con una semplice parola: innamorato.
Non era stata una sorpresa, in cuor suo era consapevole che quella morbosa gelosia non poteva semplicemente essere quella di un amico.
Capiva che Watson era come una calamita per lui... avvicinarsi casualmente al suo viso, cercare il contatto con lui con le mani, o con le spalle, o anche con gli occhi, lo faceva sentire meglio, come più forte.
Se il fedele amico era al suo fianco nelle indagini dei casi, Holmes si sentiva invincibile.
Era come se potesse fare tutto, con lui accanto, come se potesse scovare anche l’assassino più temerario o il ladro più bugiardo.
E si spiegava la sua aperta ostilità a qualsiasi donna che avesse posto gli occhi addosso a Watson per più di qualche secondo.
Quasi senza accorgersene superò il ristorante che tanto agognava e quando se ne rese conto stava già attraversando la strada. Si bloccò con i nervi all’erta e si voltò tanto di colpo che il cocchiere di una carrozza che stava passando di lì dovette tirare con forza le redini dei cavalli per arrestarli e non investirlo.
Holmes adesso correva contro corrente, con i gomiti e le spalle della gente addosso, il cappello perso per strada, i capelli all’aria e i calzoni zuppi almeno fino al ginocchio di acqua –quella presa nelle pozze-.
Poi lì, in contrasto al cielo plumbeo e all’edificio in mattoni grigi svettava l’insegna rossa in caratteri eleganti e inclinati che recava la scritta: Prince, dal 1812.
Si affacciò dalla grande finestra e sorvolò tutti i tavoli, col respiro che si solidificava sul vetro appannandolo e le mani tremanti per la grande corsa. Infine dopo quelli che potevano essere minuti quanto millenni Holmes lo trovò, l’oggetto dei suoi pensieri.
Watson era seduto comodamente nel quarto tavolo a sinistra, oltre il primo parapetto, con la giacca ad avvolgere la sedia, una mano a reggere il mento e l’altra a pochi centimetri da quella di Mary. La donna ridacchiava e reggeva con l’altra mano un fazzoletto rosa di pizzo.
Holmes percepì un formicolio familiare alle punte delle dita, lo stesso formicolio che provava ogni volta che scorgeva quella chioma biondiccia e sentiva quella risatina da oca.
Quel formicolio che lo raggiungeva ogni volta che giocava a box: un’inarrestabile voglia di prendere a pugno qualcuno o qualcosa.
E già... era per Watson che faceva la box: per fargli vincere le scommesse.
Era incredibile come, in un modo o nell’altro, qualsiasi cosa facesse pensava a lui. Ogni cosa che vedeva gli ricordava Watson, come quando pensava alla sua possibile reazione isterica nei giorni in cui decideva di fare degli esperimenti sul suo cane.
Sul loro cane.
E Holmes ricordò come un flash quella discussione di molti anni prima, quando aveva corretto per la prima volta Watson in quanto alla proprietà del cane.
« No, Holmes, è il mio cane, non il nostro. Che vuol dire nostro? Se ne assume l’incarico solo per avere la scusa di provare esperimenti su di lui?! »
« Io uso i suoi vestiti, caro Watson, nel caso non se ne fosse accorto. E abito nella sua casa e precisamente nella sua vecchia stanza. Quasi tutti gli oggetti che ci sono lì sono suoi, così come il cane che pure non è un oggetto, ma un essere vivente e pensate. Noi condividiamo quasi tutto ormai, tra un po’ anche il respiro... »
E com’era stato stupido in quel caso a non essersi accorto dell’ambiguità di quella frase, allora così ingenua.
Ma forse lo sguardo confuso di Watson avrebbe dovuto avvertirlo, in quel tempo ormai così lontano.
Fu una risata incredibilmente familiare a destare Holmes, e ricordargli con un dolore indicibile dove si trovava e perché.
Aguzzando la vista Holmes riconobbe Watson –possessore di quella risata che, se i suoi ricordi non erano stati manomessi, doveva essere altamente imbarazzata- nell’atto di estrarre qualcosa dalla tasca.
E sebbene per un folle momento Holmes ebbe voglia di ridere, al pensiero dell’espressione delusa che si sarebbe dipinta nel volto di Mary quando Watson avesse estratto l’orologio da taschino, si affrettò sull’uscio, sapendo che doveva fare molto in fretta.
Si sistemò la giacca, pettinò i capelli con una mano e prese un grande respiro, poi guardò il suo riflesso sulla vetrata e soddisfatto aprì la porta che annunciò il suo arrivo con un tintinnio di campanelle.
« Buonasera signore, e benvenuto al Prince. Un posto per...? » il cameriere allungò il collo per rintracciare una qualche figura oltre la spalla di Holmes ed infine tornò a guardarlo con un sorriso accondiscende. « Uno? »
« No grazie, sto solo guardando! » rispose Holmes superandolo senza degnarlo più di uno sguardo e quasi correndo per farsi strada tra i numerosi tavolinetti rotondi con la tovaglia color senape.
Quella era una risposta da dare al commesso di un negozio di abbigliamenti, lo sapeva, ma del resto non era neanche tanto lontana dalla verità. Non era venuto lì per mangiare.
Vide Watson estrarre un cofanetto blu scuro ma Mary non se ne accorse, perché l’aveva riconosciuto e ora lo guardava con la bocca socchiusa e l’espressione perplessa.
Proprio quando lei aprì bocca per chiedere –chiarimenti probabilmente- e Holmes fu abbastanza vicino al tavolo, si decise a precederla.
« Watson! »
Forse lo urlò a voce troppo alta, perché molti dei commensali si voltarono a guardare accigliati quello strano personaggio allampanato e coi capelli da pazzo che aveva lasciato una lunga scia di orme bagnate sul lucido pavimento di marmo.
Jonh Watson, paziente e comprensivo di solito, si voltò con una lentezza esasperante.
Non perché volesse imitare una perfetta scena da film, ma semplicemente perché non credeva che la sua principale paura si fosse materializzata proprio lì, oltre la sua spalla, sgocciolante nel suo abito scuro.
« Holmes? » chiese con evidente tono misurato. Doveva contenere la rabbia, o sarebbe esploso.
Buon viso a cattivo gioco diceva il detto, no?
Di fronte a Mary doveva mostrarsi sicuro e disciplinato. Di fronte a Mary non doveva ammettere di avere paura di quello che l’amico avrebbe potuto dire.
Era venuto per insultare di nuovo la sua ragazza? Ci bastava quell’entrata in scena a dir poco spettacolare –in senso negativo, ovviamente- cos’altro aveva in mente quell’investigatore da strapazzo?
« Anche lei qui? » chiese con una gentilezza esagerata e falsa. Si voltò un attimo verso la futura moglie e sorrise con fare innocente. « Mary cara, potresti scusarmi un att-...»
« No! »
Ancora una volta Holmes temette di aver parlato a voce troppo alta, ma a dirla tutta non gliene importava.
Con sua infinita gioia Watson ricacciò il cofanetto dentro la tasca e lo guardò accigliato.
« No? Come mai è venuto qui, ha dimenticato qualcosa? O... io ho dimenticato qualcosa? »
« Ho fatto l’indagine! » disse tutto d’un fiato Holmes, con un sorrisetto deciso sulle labbra. « L’indagine che mi avevi proposto. »
A giudicare dalla sfumatura cupa degli occhi azzurrissimi di Watson, Holmes evinse che non aveva colto il messaggio.
Quando lo fece –quando si ricordò cioè di quanto Holmes prendesse alla lettera tutto ciò che diceva, proprio perché era lui, quello calmo e saggio, a dirlo- spalancò gli occhi piacevolmente sorpreso.
« Oh i miei complimenti ma... per quanto sia un argomento senza dubbio interessante –trattandosi di lei, del resto- preferirei parlarne più tardi... »
« Più tardi sarà... troppo tardi! » rispose Holmes non trovando parola migliore. In condizioni normali Watson l’avrebbe redarguito, dicendo che non era buon costume usare la stessa parola due volte nella medesima frase, ma quelle non erano condizioni normali.
« Spiegazione molto esauriente. »
« Ho capito cosa intendevi con “fatti la tua vita privata”... ho capito chi è quella persona speciale. »
Per la prima volta da quando si erano incontrati quella sera Watson sorrise. « Ah sì? Sono davvero contento che lei ce l’abbia fatta, ero sicuro che prima o poi l’avrebbe capito. Irene è stata felice di ascoltare la sua dichiarazione? »
Perché Watson si ostinava a rivolgersi a lui in terza persona? Era frustrante!
« Non molto, dato che non si riferiva a lei. » rispose in fretta Holmes, guardandolo fisso negli occhi, come aspettandosi che capisse, che gli leggesse nelle pupille.
Ma Watson si limitò ad incrinare il sorriso, forse indeciso se essere allegro o triste per la notizia.
« Ah no? Eppure ero convinto... »
« Quante volte ti ho detto che la convinzione è un difetto tipicamente umano? Bisogna dimostrare le cose, solo in quel caso si può credere a esse. La convinzione infatti, è come la fede più cieca. »
Watson alzò un sopracciglio e in quell’istante Holmes distolse lo sguardo puntandolo insieme ad un indice contro Mary.
« Tu! »
La ragazza sussultò presa alla sprovvista e Watson lanciò un’occhiataccia ad Holmes.
« Io? » pigolò Mary, confusa.
« Tu lo ami? »
« Eh? »
« Tu lo ami davvero? » quasi urlò Holmes, puntando poi il dito su Watson, pallido come un cadavere.
Mary guardò il futuro marito in cerca di conforto da quella che per lei aveva tutta l’aria di una scenata di gelosia. Watson la guardava con compassione, come se gli chiedesse con gli occhi di compatire l’amico.
« Beh... sì... certo che sì! »
« Davvero? » la aggredì Holmes, facendo un passo verso di lei.
« Davvero! Ma perché mi chiedi... »
« E sai cosa fa ogni volta che torna a casa? »
Watson sgranò gli occhi, guardando l’amico come se non lo riconoscesse. Mary dal suo canto arrossì.
« Cosa? Ma che... »
« Prima si toglie il cappello: ha il vizio di lanciarlo dall’ingresso, per vedere se centra l’appendiabiti! »
Watson continuava a guardare Holmes alla ricerca di un senso a tutto ciò a cui stava assistendo, ma l’investigatore sembrava evitare di proposito il suo sguardo.
« Non ha però una buona mira e fa sempre cadere a terra il cappello. A quel punto si fionda a riprenderlo in fretta, prima che il suo cane... il nostro cane... lo scambi per un giocattolo particolarmente ghiotto. »
Mary guardò Watson, in cerca di spiegazioni, ma l’uomo aveva occhi solo per il suo amico, l’espressione profondamente scossa.
Holmes si ritrovò a sorridere al pensiero, senza saperne il perché.
« Poi si toglie la sciarpa e la annoda nel terzo braccio da sinistra: quello è il suo posto, se lo trova occupato si innervosisce e diventa facilmente irritabile per tutto il giorno. Per lui è come un cattivo auspicio: significa che lo aspetterà una giornata pesante. »
Mary tacque ancora e Holmes continuò a perdersi nei ricordi, gli occhi grandi e scuri che evitavano di incrociare quelli chiari di Watson.
« Lui annoda la sciarpa, non si limita ad appoggiarla, perché teme che un colpo di vento la possa far volar via. Eppure sa benissimo che nella sua stanza... nella nostra stanza... io non tengo quasi mai le finestre aperte, anzi tendo ad oscurarle con un doppio strato di tende. Lui le odia, le tende, perché è allergico. No, non alla polvere. Tutti pensano che sia allergico alla polvere ma invece lo è alle tarme. »
La pioggia iniziò a picchiettare sui vetri del locale.
« Poi ha il vizio di tirarsi le pellicine del pollice quando è nervoso: è sempre così, seduto sulla poltrona, con un braccio piegato sul bracciolo e l’altro sulla bocca, la testa sempre voltata a sinistra. Mai a destra, perché una volta da piccolo è stato tutto il giorno appoggiato con la mano al collo voltato verso destra e ha avuto un fortissimo mal di collo che gli è durato quasi una settimana. Poi tende a battere un piede sul pavimento quando pensa intensamente e spesso senza accorgersene crea una musica. »
Sorrise ancora, dolcemente, al pensiero.
« Inoltre ha una piccolissima cicatrice dietro l’orecchio destro, a forma di elica, che noi abbiamo sempre chiamato “fenice” perché sembrava proprio una fenice pronta a spiccare il volo. Anche se di presenza sembra posato e forse quasi freddo, nella realtà è un tipo molto amichevole. Dovresti vederlo quando parla col suo cane, con una vocina che a sentirla, se solo non sapessi che si nasconde lui dietro la porta, non avresti saputo attribuirgliela. Per non parlare di quando pensa che non lo guardi e stringe le labbra: succede ogni volta che gli chiedo di fare qualcosa per me e lui si rifiuta categoricamente. Poi però, preso dal rimpianto, decide di accontentarmi. Mi ha sempre seguito in tutte le mie avventure, non perché fosse realmente interessato: l’avventura è il pane per i miei denti, ma non per i suoi, lui è un tipo calmo e pacifista. A dire il vero vuole aiutare le persone e per questo mi aiuta a scovare gli assassini, perché così può salvare quante più vite possibili da quella loro furia omicida. »
Watson abbassò gli occhi sul piatto, e strinse le nocche sulla stoffa dei pantaloni.
Mary fissava Holmes quasi con le lacrime agli occhi.
« Lui mi ha sempre accontentato perché è un tipo gentile, e io forse non lo merito, perché non ho mai saputo ricambiarlo equamente. Ma se tu... se tu non conosci tutte queste cose su di lui, non puoi dire di amarlo davvero... »
Mary guardò Watson che in questo momento, spalancati gli occhi alzò di nuovo lo sguardo su Holmes.
E Holmes si voltò finalmente a guardarlo.
« Ho concluso la ricerca, proprio come mi avevi chiesto e come ti avevo promesso. E mi sono reso conto che la persona speciale che vorrei al mio fianco beh... l’ho sempre avuta al mio fianco. E’ per questo che non ho mai capito nulla. Ed è stato quando ho pensato che non avrei più goduto della tua ombra accanto a me che ho capito quanto mi avrebbe fatto male quella separazione. Non mi ero reso conto di quanto tu sia importante per me, Jonh...  perché ero ormai abituato alla tua presenza e faceva parte della mia vita. Era come respirare, come bere un bicchier d’acqua. Ma quando sei andato via... quando ho capito che sposandosi ti saresti trasferito... ho compreso che la tua presenza mi mancava come l’aria e l’acqua, perché ormai fai parte della mia vita, e sarebbe come dire addio ad un pezzo della mia anima... »
Holmes sentì una donna sospirare raddolcita e ancora una volta si chiese se forse non stesse parlando a voce troppo alta. Un attimo dopo si accorse del fatto che forse non era lui a parlare forte, ma il resto dei commensali ad essere caduto in un teso silenzio, le orecchie tese nel tentativo di origliare.
Ma ad Holmes non importava. Si era perso in quegli occhi azzurri come lapislazzuli e i suoi piedi intorpiditi non riuscivano a muoversi.
Doveva voltarsi, seppur una voce dentro di lui urlava di rimanere.
Watson aveva capito finalmente, glielo si leggeva negli occhi. E del resto spesso capiva le cose prima di lui.
Holmes sorrise, sapendo che gli toccava la parte più difficile. La più dolorosa.
« Ma ho anche capito che tutto ciò è terribilmente egoistico. Sono stato uno stupido e non merito neanche il titolo di investigatore dato che non sono riuscito nemmeno a comprendere l’ovvio. »
« Le cose ovvie sono le più difficili da scoprire, lo dicevi sempre. » ribatté Watson, alzandosi in piedi.
Lo dicevi... non diceva. Finalmente gli dava del tu!
Holmes guardò Mary, si morse il labbro, si passò una mano sulla barba corta per darsi un contegno e tornò a guardare l’oggetto dei suoi pensieri. Sentiva che gli occhi pizzicavano e bruciavano incredibilmente.
« Sono felice che tu... che tu sia felice, Jonh. Non farò più lo stupido, promesso, e non mi beccherò più secchiate di vino in testa. »
Watson rise scosso e Holmes accennò una risatina amara che però sparì subito.  « E ho capito che tu ami Mary, e sarai felice con lei... se vuoi sposarla, se questo ti rende felice... fallo. Io non potrò che appoggiarti. »
Sorrise ancora, con un peso in meno nel cuore ma uno in più nello stomaco, insieme ad una fitta molto dolorosa.
« Beh allora... adesso vi lascio soli. » con un’ultima smorfia-sorriso Holmes indietreggiò e voltò loro le spalle, affrettandosi verso l’uscita.
Solo quando fu ormai fuori nella pioggia si rese conto che stava correndo e che per di più quelle cose che gli scivolavano sul labbro non erano gocce di pioggia ma lacrime.
Il cuore gli stava scoppiando, si sentiva svuotato di tutto: Londra era ancora più grigia vista con la consapevolezza di tornare a casa da solo, di vedere l’attaccapanni vuoto.
Ed era triste anche l’idea di poter finalmente occupare il terzo braccio da sinistra.
Si passò rudemente una mano sugli occhi, per cacciare le lacrime: lui era un uomo, accidenti, non una ragazzina innamorata!
Quando raggiunse il proprio palazzo si sentiva dolorante in  tutto il corpo e rischiò anche di inciampare nell’orlo bagnato dei calzoni, che si trascinava a terra ormai tutto strappato.
Il cancelliere lo riconobbe e lo salutò ma dal fatto che lui non rispose –non l’aveva neanche sentito, o forse di proposito aveva preferito ignorarlo- o forse intuendo che qualcosa non andava, lo fece passare senza chiedergli spiegazioni.
Il rumore metallico del cancello che veniva richiuso fece rabbrividire Holmes: di solito teneva aperto quel cancello per far passare anche Watson.
Ma Watson non sarebbe tornato, non questa volta.
Salì in camera con gli occhi arrossati, il naso chiuso e un groppo in gola, e con mani tremanti aprì la porta della sua stanza e si ficcò dentro: non voltò nemmeno la testa per vedere l’appendiabiti e anzi raggiunse il divano, sul quale si buttò, fissando il soffitto.
Perché era stato così avventato? Perché gli aveva detto tutta la verità?
E come comunicare a Irene che era stata tutta una perdita di tempo?
L’aveva perso ormai... l’aveva perso per sempre.
Rimase a fissare il soffitto per quelli che potevano essere stati secondi come millenni e sobbalzò solo quando qualcuno bussò alla porta.
Un attimo dopo la stessa porta si apriva, mostrando...
« Watson? » gracchiò Holmes affrettandosi a cancellare le lacrime dal proprio viso. Abbozzò un sorriso al quale Watson non rispose, bagnato fradicio e pallido com’era.  Con la scusa di sistemare le tende Holmes gli diede le spalle, grato di non doverlo guardare ulteriormente in faccia.
« Eih ti vedo un po’ annacquato, sei per caso andato in cerca di avventure senza di me? » cercò di sdrammatizzare rischiando di far cadere un vaso dalla credenza, nel tentativo di tirare una parte della tenda.
Watson non rispose e rimase immobile dov’era, almeno così parve a Holmes al quale non giunsero rumori di passi.
« Dov’è Mary? »
« L’ho lasciata lì. »
Holmes ebbe un tuffo al cuore. « Cosa, perché? »
« E’ vero quello che hai detto prima? »
La mano di Holmes scivolò sulla tenda, tirandola troppo, e il vaso cadde a terra esplodendo in grappoli di cocci.
« Oh accidenti scusa quello è il tuo vaso! » si tuffò sotto la credenza per recuperarne i resti quando una mano, più calda e più grande della sua, gli sfiorò le dita.
Holmes trattenne il respiro, impallidendo, ed alzò lo sguardo incontrando gli occhi di Watson.
Erano più luminosi del solito, fissi su di lui: i baffetti grondavano d’acqua.
« Il nostro vaso. » rispose con un abbozzo di sorriso.
Nostro...
Holmes sgranò gli occhi e un impeto improvviso lo colse lasciandolo senza fiato.
Poi tutto accadde in pochi secondi, senza che Holmes riuscisse a frenarsi: un attimo prima aveva afferrato il viso di Watson, un attimo dopo aveva premuto le proprie labbra sulle sue, sentendo i baffetti pizzicare contro il suo naso.
Travolto dall’emozione cercò di approfondirlo, dischiudendo le labbra dell’altro, in un bacio che nascondeva mille parole, un bacio bisognoso di quel contatto a lungo agognato, un bacio umido e salato per le lacrime.
Quando si staccò da lui Holmes lo fece solo per riprendere fiato, e Watson lo fissò con le guance arrossate e l’espressione stordita e piacevolmente sorpresa.
« E questo cosa vorrebbe dire? » chiese in un soffio il dottore.
Holmes sorrise, riavvicinandosi a lui tanto che poteva sfiorare i suoi baffetti.
« Non è elementare, Watson? »
Un attimo dopo Watson sorrise sulle sue labbra e lo baciò. Che stesse rispondendo, e che anzi era stata sua l’iniziativa sorprese a tal punto Holmes che non rispose subito al bacio: quando lo fece dischiuse le labbra per permettere alle loro lingue di incontrarsi.
Un brivido lo attraversò da capo a piedi, e si ritrovò a stringere quasi impulsivamente la schiena di Watson, che lentamente lo stava trascinando a terra col suo peso.
Sentire la mano del dottore insinuarsi tra i suoi capelli e sotto i suoi vestiti fu più piacevole di quanto avesse creduto; e non immaginava che Watson baciasse così bene!


*

« Cosa farai con Mary? »
Watson sospirò, accarezzandogli i capelli con la mano libera –l’altra era dietro la testa.
« Detto sinceramente, non mi importa un fico secco di lei. » rispose schietto, scoccando un’occhiata complice all’altro, la cui testa era appoggiata sul suo petto nudo.
Holmes sorrise, per poi stuzzicare il collo dell’altro con la punta del naso.
« Mmm, sai che per una volta ti do ragione senza indagare? »
Watson rise e gli accarezzò una guancia, per poi scoccargli un veloce bacio sulle labbra.
« E tu sai che il nostro cane potrebbe fare la spia? »
« Il nostro cane... » rispose Holmes beato, per poi accogliere di nuovo le labbra di Watson.
Holmes avrebbe però ringraziato il cane più tardi.
Nella furia del loro desiderio i due si erano ritrovati sulla porta della camera da letto, che si era spalancata.
Poi erano inciampati su qualcosa ed erano finiti dritti sul materasso.
Quel qualcosa su cui erano inciampati era stato proprio il cane, ancora immobile per l’esperimento che aveva subìto.
Poi ovviamente, una volta conquistato quel comodo giaciglio, nessuno dei due aveva più prestato attenzione all’animale.
« E comunque Jonh... » gli fece notare Holmes ad un certo punto, disegnando strani cerchi sul suo petto nudo. « Vedi di tagliarti quei baffetti, perché pizzicano! »

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x.X.x

Beneee e rieccomi qui dopo secoli con una nuova fan fiction, questa volta su un pairing mai utilizzato finora.
Cosa posso dire? Ho visto il film due giorni fa e sì, ho notato che quei due hanno proprio un comportamento ambiguo e litigano come una coppia!
Per non aggiungere ciò che afferma la critica, ovvero che lo strano rapporto è stato voluto.
Quindi, cari lettori, non sono solo nostre fantasie, e la critica l'ha confermato!
Ma adesso passiamo alla storia... ieri mattina ho avuto l'idea, e ieri stesso l'ho messa su Word. Certo, l'idea originale era un po' diversa -o meglio, più breve-, per esempio non era Irene ad "aprire gli occhi" a Holmes, ma l'investigatore avrebbe dovuto farlo da solo. Ma se devo ammetterlo, preferisco questa versione, anche se più lunga. (Avrei forse dovuto dividerla in più capitoli? La mia idea era fare una shot comunque o.o). Concludo con un sincero : spero che gradirete questa storia, e se così è stato, vi imploro di farmelo sapere in una recensione, potrebbe aiutarmi molto, farmi migliorare o venir voglia di scrivere qualcosa di nuovo.
Ergo... a voi l'ardua sentenza! v.v







 

   
 
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