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Autore: TittaH    23/07/2011    2 recensioni
-Cambiare vita è sempre stato il mio sogno, sin da bambina; sognavo l’America, volevo andare a New York ed esaudire i miei desideri che in Italia non avrebbero mai preso forma.-
La storia di una ragazza al confine tra sogno e realtà.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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 Volevo ringraziare le mie fidate lettrici e volevo specificare che rispetto alla mia precedente long-fic, questa è più leggera e parla di me e di quello che voglio essere.
I nomi usati dei fratelli e del migliore amico sono i reali nomi dei miei fratelli e del mio migliore amico; il mio nome e cognome li ho cambiati perché erano troppo lunghi e il cognome è quello del mio best friend. Se esiste una persona che si chiama come la protagonista della storia, non era mia intenzione offendere o altro.
Preciso che non scrivo a scopo di lucro, i fatti accaduti non sono reali- ma spero che in un futuro si avverino- e le persone citate sono frutto della mia fantasia e/o della mia vita vera.

 


Chapter two

 
 
Una corsa incredibile, un fischio disumano e poco femminile ed eccomi in taxi.
Alla guida c’è un uomo sulla trentina che continua a fare discorsi e domande che io non seguo perché son troppo eccitata all’idea di essere in America.
Il suono dei clacson mi stordisce e così le grida dei bambini che corrono inseguiti da un cinese col grembiulino bianco; rido tra me e me pensando a cosa avranno potuto combinare.
Il tassista mi avvisa che sono arrivata a destinazione e mi sveglia dal leggero torpore per via del maledetto fuso orario.
E’ mattina inoltrata qui e fa un caldo boia per essere solo Marzo.
Per fortuna indosso dei pantaloncini di jeans chiaro, una canotta grigia e le mie fidate Vans nere; sotto braccio una borsa enorme nera piena zeppa di qualsiasi cosa, tra cui iPood e cellulare.
Prendo quest’ultimo e dopo aver ricaricato la scheda internazionale mando un SMS ai miei amici per avvisarli del mio arrivo.
Nel frattempo sono dentro un hotel a tre stelle- che a me sembra averne molte di più, ma si sa che qui sembra tutto così diverso- e osservo ogni cosa intorno a me: la moquet color crema con un leggero corridoio in stoffa rossa stile red carpet, i mobili in legno massiccio e rose intarsiate, i divani e le poltrone singole in pelle color cammello e i lucenti lampadari fatti di piccoli Swarovski.
Mi avvicino alla hall, trascinandomi dietro la mia valigia enorme e le mie borse a mano- con uno zaino in spalla- e attendo che la receptionist mi dia l’attenzione che merito.
“Buongiorno.” dico, cercando di farmi almeno guardare.
La tipa si volta con superiorità e mi fissa con un’aria che non saprei descrivere.
“In cosa posso esserle utile?” mi domanda sorvolando sui convenevoli e sulla buona educazione.
Inclino la testa ed estraggo dalla borsa un foglio che dovrebbe essere la prenotazione fatta su internet.
“Avrei prenotato una camera singola per un mese, con probabilità di prolungamento del soggiorno, a nome di Anna Fiore.” affermo col mio perfetto inglese e mostrandole la prenotazione.
Digita qualcosa sul suo computer e poi si rivolge a me con un mezzo ghigno sul viso e una chiave magnetica tra le mani.
“La sua camera è la 304. La sveglia di solito è alle sette e trenta in punto, ma se vuole può rimuoverla. La donna delle pulizie passa per le dieci, ma può mandarla via, e il servizio in camera lo può richiedere digitando il numero 3 sul telefono in dotazione dell’hotel. Il pagamento può effettuarlo prima di abbandonare la sede definitivamente. Le auguro un buon soggiorno e la ringrazio per aver scelto il nostro albergo.”
Non ascolto propriamente tutto quello che è abituata- o forzata- a dire, soprattutto perché ha quella espressione ‘base’ sul volto che mi ispira violenza per quanto è ipocrita.
Mi limito a ringraziare e salutare, prendendo la mia chiave, e raggiungo la mia stanza senza l’uso dell’ascensore, dato che voglio perdere qualche chilo.
Passo silenziosamente la tessera nell’apposito congegno ed entro nella mia futura ‘casa’, sorprendendomi  e non poco: i muri sono di un dorato alquanto accecante, con piccole fasce di carta da parati bordeaux in tinta con la moquette; il letto a baldacchino è pieno di cuscini in stile impero e veli pieni di brillantini argentati e i mobili sono chiari, come a dare un tocco di luce alla stanza, in legno molto lavorato e raffinato.
Al lato del letto c’è un piccolo comodino, identico all’armadio a muro, sul quale è posata una lampada in vetro soffiato e seta e un telefono fisso che subito stacco.
Non voglio disturbi e non voglio rinchiudermi in stanza a mangiare.
Prendo la mia borsa azzurra e marrone ed estraggo i regali dei miei fratelli, mettendoli al posto del telefono, che sposto nel cassetto vuoto, e svuoto la mia valigia mettendo da parte il cambio per almeno due giorni.
Prendo un paio di leggins grigi e una maglia smanicata leggermente lunga a stampe nere, le Converse nere e la biancheria e mi fiondo sotto la doccia.
Mi spalmo il bagnoschiuma ai frutti di bosco su tutto il corpo e sento la tensione abbandonarmi, come la schiuma che finisce nello scarico nel momento esatto in cui passa l’acqua tiepida.
Mi lascio avvolgere da un accappatoio bianco e soffice come lo zucchero filato e mi guardo allo specchio.
Nonostante le occhiaie, la faccia sbattuta e la stanchezza, mi trovo carina e mi sento bene.
Sarà l’effetto America!” dico tra me e me, prima di indossare culottes e reggiseno bianchi.
Finisco di vestirmi e mi lego i capelli leggermente ricci e scuri- per via della tintura- in una coda alta, fermando qualche ciocca ribelle con dei fermagli neri.
Passo un po’ di copri occhiaie sotto gli occhi e un velo di mascara sulle ciglia.
Niente lucidalabbra perché li odio, una spruzzata di deodorante e sono fuori, sempre in compagnia della mia amata borsa nera che farebbe un baffo a Mary Poppins.
Mi addentro nelle strade enormi e affollate della Città, in cerca di uno Starbucks- avevo promesso a me stessa che sarei andata in uno Starbucks il prima possibile- e cerco di capirci qualcosa dall’iPhone che ho tra le mani.
Dovrebbe esserci uno proprio qui vicino…” sussurro tra me e me in italiano, girando l’angolo e trovandomi la grossa insegna verde e luccicosa.
Sono di fronte all’ingresso quando sento in lontananza una ragazza urlare a quello che dovrebbe essere il suo ex: “Shut the fuck up, motherfucker!” e mi scende una lacrima dall’emozione.
Cazzo sono in America!” affermo, nella mia lingua, catturando la lacrima con l’indice smaltato di nero.
Entro e mi siedo su uno sgabello, tra tante altre persone che avranno ordinato o che come me stanno attendendo di farlo- dato che dietro il banco non c’è nessuno-, e ne approfitto per chiamare casa.
Mamma! Sì sono a New York, sono arrivata circa un’ora fa e ora sono nella casa dei miei sogni. Sì, mamma, Starbucks! Un semplice caffè con un po’ di latte e una spruzzatina di cannella. Appena chiudo con te lo dico al barista che è uscito in questo preciso istante. Mamma!!! Cioè, io sono appena arrivata dall’altra parte del mondo e tu mi chiedi se il barista è carino?
Mia madre è sempre la solita, non cambia mai. Avrà pure cinquantacinque anni ma è giovanissima dentro.
Rido alla sua battuta e mi fingo scandalizzata, ma soprattutto stralunata quando vedo il moretto dietro al banco sorridere nella mia direzione, neanche capisse quello che sto dicendo.
Va bene, mamma, ora devo proprio chiudere. Saluta tutti, ci sentiamo. Baci, bye!”
Attacco la telefonata e lascio che il mio iPhone si perda tra la miriade di roba assurda che mi porto dietro.
Il ragazzo si avvicina verso di me, dopo aver servito gli altri clienti che si allontanano, e io faccio per chiedergli un caffè, ma questi mi allunga un bicchiere lungo di cartone contenente del liquido scuro un po’ macchiato con della cannella.
Strabuzzo gli occhi, com’è possibile?
Non volevi del caffèllatte con la cannella?” mi domanda in italiano.
Certo, ma… Un momento! Sei italiano ed hai origliato la mia conversazione!
Mi sorride e io perdo la mia forza, perché il sorriso italiano è qualcosa che ti smorza dentro, ti sviscera completamente e mi sta facendo sentire a casa per un attimo.
E’ bello, moro, coi capelli corvini leggermente rasati ai lati e degli occhi di un nocciola che più nocciola non si può. Le labbra sottili ancora stirate in un sorriso mimano qualcosa, ma io non ascolto troppo presa dalla finezza delle sue mani.
Allora?!
Mi riprendo dai miei pensieri e, ingoiando un sorso della mia bevanda, gli chiedo: “Puoi ripetere, per favore?
Lui ride forte e pulisce il banco con uno straccio bagnaticcio.
Come ti chiami?” ripete non perdendo quella piega sul volto e io annuisco, finendo il mio bicchierone di caffè americano- che, tra parentesi, non è così schifoso come dicono.
Anna, Anna Fiore. Tu?
Stefano, Stefano Butera.
Ci stringiamo la mano e io distolgo lo sguardo imbarazzata.
Allungo una banconota che ho, precedentemente, scambiato alla banca ma Stefano mi blocca.
Offre la casa!
Sbuffo, scuotendo il capo.
Ho sempre odiato la parola ‘offrire’, perché mi da il senso di dover poi restituire il favore e io tutto voglio tranne che avere debiti con qualcuno.
D’accordo.” concedo dopo la sua insistenza. “Ma un giorno ripagherò il favore.” affermo sicura, mentre lo vedo ridacchiare tra sé e sé.
Avrò una scusa in più per rivederti.
Altro sorrisone e io mi appoggio alla maniglia della porta, che nel frattempo ho raggiunto, pur di non cadere.
Sento le gambe mollicce e non è un buon segno.
Allora ciao, Stefano.” lo saluto sorvolando il suo chiaro invito implicito.
Ciao Anna.
Chiudo la porta di Starbucks, recuperando l’iPhone per accedere a Google Maps, e faccio un giro turistico accompagnata da un nuovo sorriso italiano tra i pensieri.



Il ragazzo citato, ahimè, non esiste e non lo conosco, ma il cognome è quello di una ragazza che avevo su FB qualche mese fa, ma che ora non ho più O.o
Pooooi, i discorsi col font corsivo sono e saranno sempre discorsi in italiano, mentre i discorsi senza alcun font sono in inglese.

Allora, che ne dite? Cosa succederà tra Anna e Stefano? Cosa centrano e come entreranno i Mars?
Fatemi sapere cosa ne pensate e se vale la pena di continuare.

  
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