Storie originali > Romantico
Ricorda la storia  |      
Autore: Sumi_    25/07/2011    2 recensioni
Faceva molto caldo, era Agosto, e nonostante indossassi una leggera camicia da notte sentivo il sudore scendermi sulla nuca e oltrepassarmi le scapole. Avevo anche sonno, a dire il vero, ma dentro di me imperversava una lotta fatta di opposizioni e dualismi.
Il corpo smaniava affinché mi buttassi sul mio morbido letto matrimoniale, girata verso il muro, ed ignorassi il vuoto nostalgico alle mie spalle. La mente si ribellava a quell'idea. L'orgoglio ferito gridava vendetta, ma l'esitazione mi imponeva di indugiare.
Ogni notte si ripeteva questo scontro ed ogni notte l'indecisione mi spingeva sempre più verso il masochismo costringendomi ad attendere con ansia -e allo stesso tempo rassegnazione- il momento in cui mio marito sarebbe rientrato in casa con la sua ventiquattrore, di nuovo in ritardo, di nuovo a causa del lavoro.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Nobody wants to be weak The words that I have never said.


I think that all the silence is worse than all the violence
Fear is such a weak emotion thats why I despise it
We're scared of almost everything, afraid to even tell the truth
So scared of what you think of me, I’m scared of even telling you
Sometimes I’m like the only person I feel safe to tell it to
I’m locked inside a cell in me, I know that there’s a jail in you
Consider this your bailing out, so take a breath, inhale a few
My screams is finally getting free, my thoughts is finally yelling through
It’s so loud Inside my head
With words that I should have said.
As I drown in my regrets
I can’t take back the words I never said.
[Words I never said - Lupe Fiasco ft Skylar Grey]


Erano già le due di notte eppure, nella solitudine della mia cucina, mi crogiolavo ancora fra i rimpianti che durante la mia piatta e insignificante vita avevo
diligentemente racimolato.
Sedevo su una delle quattro sedie che attorniavano il tavolo in legno di mogano al centro della stanza, tutte troppo alte per una donna di bassa statura come me. Immobile, tastavo col mio bastone il terreno, fissando il capo verso la finestra che si stanziava al di là dell'angolo cottura. Come se davvero potessi vedere ciò che mi circondava.
Faceva molto caldo, era Agosto, e nonostante indossassi una leggera camicia da notte sentivo il sudore scendermi sulla nuca e oltrepassarmi le scapole. Avevo anche sonno, a dire il vero, ma dentro di me imperversava una lotta fatta di opposizioni e dualismi.
Il corpo smaniava affinché mi buttassi sul mio morbido letto matrimoniale, girata verso il muro, ed ignorassi il vuoto nostalgico alle mie spalle. La mente si ribellava a quell'idea. L'orgoglio ferito gridava vendetta, ma l'esitazione mi imponeva di indugiare.
Ogni notte si ripeteva questo scontro ed ogni notte l'indecisione mi spingeva sempre più verso il masochismo costringendomi ad attendere con ansia -e allo stesso tempo rassegnazione- il momento in cui mio marito sarebbe rientrato in casa con la sua ventiquattrore, di nuovo in ritardo, di nuovo a causa del lavoro. Ogni notte lo accoglievo lì, da sola, e fingevo di credere ad ogni sua parola. Mi alzavo dalla sedia, mi coricavo sul letto ed attendevo che il suo peso alle mie spalle mi permettesse finalmente di addormentarmi.
Ultimamente le sue attenzioni nei miei confronti erano aumentate, e no, non si avvicinava la data del mio compleanno.
Per un'attimo mi ero illusa che si fosse pentito, che fosse tornato da me, dalla sua moglie cieca ed ingenua. E invece no, l'unica cosa che l'aveva mosso era il timore che io sospettassi delle sue malefatte. E dunque per acquietarmi mi coccolava, mi viziava, certe volte tornava persino presto e rinunciava a scaldare il letto di un'altra almeno per una notte. La cosa mi faceva così tanta rabbia che, certe volte, quando al suo ritorno mi stringeva fra le braccia, sentivo il bisogno di allontanarlo e urlargli contro che non avevo bisogno della sua compassione, dei suoi sensi di colpa.
Eppure non lo facevo. Non ne ero in grado; perché ero debole.
Rimanevo immobile nel suo abbraccio, fingendo che tutto andasse bene, che io stessi bene.
Ma io non sto bene.
Scesi dalla sedia appoggiandomi al bastone e, continuando a tastare il terreno che mi attorniava, procedetti con passo malfermo verso la credenza sulla quale la notte precedente avevo posato la foto. La presi e tornai al mio posto, poggiandomela distrattamente sul grembo. Inizialmente la ignorai, finsi che non ci fosse, come se tutto ciò che non vedevo finisse per scomparire. Come se l'esistenza degli oggetti, dei ricordi, dipendesse dal mio volere.
E invece ero impotente di fronte al mondo che continuava ed essere anche se non c'ero io ad ammirarlo. Un semplice essere umano di cui le meraviglie potevano fare a meno per essere definite tali: da non vedente stavo lentamente diventando invisibile.
Ma la foto che stringevo in mano era la testimonianza di un tempo in cui i miei occhi non erano soltanto un specchi e retine e capillari, ma vere e proprie lenti. In quella foto c'era una me ormai morta, ma c'era, era lì, era esistita. E ciò mi bastava per risollevarmi l'animo.
Anche se non potevo vedere il cielo azzurro e l'asfalto grigio, anche se non potevo leggere un libro qualsiasi trovato in una sala d'attesa sconosciuta, anche se non potevo fare mille e mille cose che un tempo erano per me un'abitudine... Beh, quel semplice primo piano del mio volto valeva per me tutte quelle cose insieme.
Ricordai il giorno in cui era stata scattata, i sentimenti che avevo provato.
Conoscevo quella fotografia a memoria e invidiavo con tutto il cuore la Eliza di quei tempi.
Un'Eliza autonoma ed indipendente, che lui amava e rispettava.
Allora non ero l'oggetto della sua pietà, ma quello del suo desiderio; non un peso, ma un dono.
Riflettendoci, quante cose erano cambiate in soli 6 anni... Quanti cuori, quante idee.
Erano stati sei anni di matrimonio in cui il mio amore era stato a senso unico.
Sei anni di menzogne, di false dichiarazioni, di falsi baci, false carezze, false promesse.
Sei anni sprecati, in cui la mia dipendenza da lui era diventata come una catena di acciaio indissolubile che mi stringeva il collo nella sua fredda morsa, e che ad ogni passo mi tirava giù, giù, giù.
Ed era solo colpa della stupida malattia che avevo preso sotto gamba, del mio stupido menefreghismo.
Io avevo rovinato il nostro matrimonio privando mio marito di scegliere se stare con una probabile cieca o meno, io l'avevo costretto con la mia indecisa infermità a prendersi cura di me.
E ora che mi stava tradendo glielo dovevo.
Dovevo accettare il fatto che stesse fino a tardi a divertirsi con un'altra. Dovevo soddisfare il suo muto bisogno di smettere di sentirsi in dovere nei miei confronti, permettergli di credere di essermi utile, di star aiutandomi a guarire.
Ma io non sto guarendo. Se lui mi amasse, se mi ricambiasse...
Ma non era così.
Non mi amava. Nonostante avesse giurato, nonostante ogni mattina fosse la prima cosa che mi diceva, nonostante lui stesso ne fosse convinto, io lo sapevo. Lui non mi amava.
Forse, se non gli avessi nascosto la verità, se glielo avessi detto... Magari non mi avrebbe sposata.
O magari ora mi avrebbe amato veramente, come un marito ama sua moglie.
No, non l'avrebbe fatto. Nessuno sceglierebbe volontariamente di vivere con una handicappata. L'ho ingannato. E adesso lui si sente costretto a dimostrare di amare una cieca solo per non rimangiarsi i voti.
E intanto mi tradiva.
Lo sapevo e... mi andava bene.
Doveva andarmi bene.
Mio marito mi tradiva, e non mi interessava neanche sapere chi fosse la donna con la quale si divertiva alle mie spalle.
Era colpa mia, io lasciavo che lo facesse, io lo permettevo.
Perché ero diventata una debole, una donna senza spina dorsale.
E perché lo amavo.
Lo amavo come solo una sciocca può amare un uomo che non la ricambia, come un prigioniero può amare la salvezza. E, quando non c'era, quando mi lasciavo prendere dalla gelosia, lo amavo come un condannato può amare la forca.
Lo amavo in mille modi diversi, e forse lo invidiavo anche, ma soprattutto sentivo di essere un ostacolo per lui, di star rovinandogli la vita col mio handicap, costringendolo ad avere nei miei confronti premure che altrimenti non avrebbe mai neanche sognato di dedicarmi. Avrei voluto avere la forza per allontanarlo da me e permettergli di costruirsi una vita vera con la sua amante, mettendo da parte la pietà che lo spingeva a rimanere al mio fianco, ma ero un'egoista. Io sentivo di avere bisogno di lui, e stare ad aspettarlo fino a tardi era uno dei modi migliori che conoscevo per farglielo capire.
Il filo aggrovigliato dei miei pensieri fu spezzato dal rumore di un'auto che frenava sul vialetto.
Sentii il motore spegnersi e Derek scendere dall'auto con il suo inconfondibile passo deciso e un poco frettoloso, come se in realtà non mi stesse tradendo, come se non vedesse l'ora di incontrarmi. Infilò la chiave nella serratura, la girò ed entrò consapevole che ero lì, nel buio della cucina, ad aspettarlo in perfetta solitudine, stringendo freneticamente fra le mani il mio bastone. Stavo tremando, come ogni notte, per la paura di ciò che sarebbe potuto uscire dalle mie labbra se solo la gelosia avesse preso il controllo.
E se decidesse di lasciarmi? Se decidesse che passare queste fugaci notti con la sua amante non le bastava? Se decidesse di dedicarsi a lei anima, corpo e anulare?
Il cuore mi batteva nel petto all'impazzata, ma in un certo senso ormai ero abituata a sentirmi in quel modo, in preda al terrore e alle paranoie.
E lui lo sapeva, perché mi conosceva meglio di chiunque altro
Lui, pur non amandomi, sembrava riuscire a leggermi nel pensiero, anticipava le mie parole come se già le avessi pronunciate. E questo mi feriva ancor più del fatto che non mi amasse, perché voleva dire che si sforzava di farmelo credere.
“Sono tornato.” mormorò, accendendo la luce e avvicinandosi a me.
“Si,” sospirai “ho sentito.”
Derek posò la 24ore sul tavolo, mi strinse la mano, mi prese dal grembo la foto e si allungo per rimetterla sulla credenza. Sussultai, perché di solito lo facevo io.
Sgranai gli occhi presagendo il peggio e cercai il suo sguardo con le mani.
“Eliza.” sussurrò lui, come se il mio nome fosse una qualche chiave che avrebbe potuto aprire la porta dei suoi sogni, delle sue illusioni. Ma il mio nome non era altro che un nome, e anche lui dovette accorgersene perché alzò il capo e rispose alla mia espressione interrogativa baciandomi il palmo della mano.
Sorrise contro il dorso, si mise il mio braccio dietro al collo e mi abbracciò con slancio.
Mi rilassai, sentendo che il copione stava tornando ad essere lo stesso della sera precedente, e di quella prima, e di quella ancora prima. Lasciai che mi abbracciasse, senza rispondere in alcun modo, forse perché una parte di me temeva che soddisfare me stessa rispondendogli sarebbe equivalso ad impedirgli di sottrarsi nel momento in cui lui avrebbe preferito farlo.
Che pensiero stupido. Devo approfittarne, devo abbracciarlo anche io...
Ma non riuscivo a farlo. Non ci ero mai riuscita fino ad allora, e non potevo certo cominciare quella notte.
Si invece, lo farò. Lo farò. Lo farò.
Ero in bilico, indecisa fra la solita routine fatta di un Eliza arrendevole e un Derek traditore, oppure un cambiamento improvviso che mi avrebbe portata su una strada ignota. Decisi in meno di un'istante, ancora stretta fra le braccia di Derek, e giunsi alla conclusione che non avevo abbastanza coraggio per portare un'innovazione nella mia vita coniugale.
Rimasi ferma a subire l'abbraccio passivamente, poi lui mi lasciò e si allontanò un poco. Supposi che mi stesse guardando negli occhi, e mi chiesi cosa vedesse. Ormai ero sulla 40ina, non più la giovane e liscia mora che conosceva.
Chissà quante rughe solcavano il mio viso.
Mi chiesi come mai questa volta mi stesse guardando in faccia. Solitamente non lo faceva.
Che avesse deciso di smettere di tradirmi?
Il mio cuore fece una capriola di felicità a quel pensiero, e sentii l'impellente impulso di abbracciarlo, ma mi trattenni ricordandomi che la mia non era altro che un'ipotesi.
Abbassai la testa, ma lui mi fermò il mento e mi baciò.
Sentii le sue labbra morbide e calde muoversi sulle mie, le sue carezze incorniciarmi il viso. Poi, senza interrompere il bacio, mi prese in braccio e diede un calcio al bastone provocando un gran trambusto, ma Derek non vi badò. Mi portò in camera, mi stese sul letto e mi seguì allentando la cravatta. Si avvicinò al mio orecchio, lo mordicchiò teneramente e mi sussurrò: “Ti amo”.
Lo ripeté una, due, cinque, dieci volte, e nel frattempo sentivo le sue mani navigare esperte sul mio corpo, cingermi e lasciarmi, ed il cuore mi palpitava pieno di gioia ad ogni suo tocco. Eppure non c'era niente di diverso dalle altre volte.
Sempre la solita routine, la sua folle convinzione di amarmi, le sue false carezze.
Ma non era vero.
E io non osavo dirglielo.
Non glielo dirò mai, non posso e non voglio. Basta. Sono una debole e desidero vivere nella menzogna. E nessuno potrà mai condannarmi per aver deciso di mantenere saldo il mio matrimonio... Lui crede di amarmi, e non sarò io a convincerlo del contrario.
Era sbagliato ciò che stavo facendo, era come se gli stessi mentendo spudoratamente, come se lo stessi ingannando un'altra volta. Ma non avevo la forza per allontanare la mia ragione di vita. Volevo solo approfittare delle sue braccia, delle sue labbra, delle sue mani, e delle sue parole.
Ero un'egoista, una debole ed una bugiarda.
Ma soprattutto, ero innamorata.

   
 
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Sumi_