Venezia, 21 Giugno 1611
Mi trovavo in un lugubre luogo malconcio, una taverna al di fuori della Venezia dove abitavo. Stavo su di un tavolo nell'angolo più buoi della stanza. Rimanevo impassibile fissando il mio piatto di fagioli che non ricordavano neanche lontanamente quelli del cuoco di palazzo. Non osavo assaggiarlo. Non aveva un aspetto invitante. Ero lì per un motivo particolare. Non aveva a che vedere con la mia famiglia o con i loro problemi, perchè non ne avevano: le loro uniche preoccupazioni erano i vestiti, gli incontri con altri nobili a cavallo e il tè. Ma, soprattutto, c'era una cosa che li preoccupava maggiormente, un'altra frivolezza che ritenevano il loro scopo nella vita: trovarmi un marito. Ero l'unica ventenne ancora sola di tutta Venezia. “Una donzella ormai non lo sei più, fai sorridere solo poca gente” mi ripetevano in continuazione sperando che io mi decidessi a piacere a qualcuno. Non potevo rendermi bella agli occhi delle persone a mio piacimento ma, nel loro mondo senza problemi, questo non si concepiva. Il motivo della mia presenza in quel luogo non riguardava neanche questo: il mio futuro marito. Perchè, si, avevo alcuni pretendenti che con il tempo diminuivano sempre di più, ma di loro non mi interessava proprio. Ero in quel posto a dir poco squallido perchè il mondo aveva voluto donarmi un'altra chance, un'altra opportunità di essere felice. La mia vita era orribile. Niente mi divertiva più: i cavalli erano ormai monotoni, Venezia continuava ad essere circondata da gente ignorante o da Patrizi veneziani curanti solo dell'aspetto esteriore delle persone, non avevo più amiche perchè tutte erano mogli e i miei fratelli seguivano le orme dei miei genitori. Ma ora c'era qualcosa di diverso, di migliore, che poteva far rinascere in me quella gioia di vivere che ormai avevo perduto da tempo. Quando quel qualcosa entrò dalla porta del locale, sentii un gelido vento attraversarmi la schiena. Il mio corpo diventò di pietra mentre attendevo che si sedesse di fronte a me.
«Eleonora, giusto?» mi chiese fissando i miei occhi verde smeraldo.
«Si, sono io. Mentre lei dev'essere...» sussurrai delicatamente.
«Si, sono io.» mi rispose dandomi la certezza che la mia salvezza fosse seduta al mio stesso tavolo con un cappello che gli copriva il volto. Un volto sicuramente perfetto, come quello della strega che l'aveva chiamato. Dorothy, la mia serva, era sempre stata l'unica a capirmi e aveva deciso di confidarmi il suo segreto: stregoneria. Secondo lei, potevo essere felice in un unico modo: chiedendo aiuto all'uomo che ora mi sedeva di fronte. Un uomo senza dubbio particolare. Per aiutarmi avrebbe dovuto avere un potere importante. Mi prese la mano, si alzò e mi portò nel retro della lurida squallidezza dove ci trovavamo. Prese il suo polso e si infilò i denti nella pelle. Il sangue iniziava a scivolare intrepido lungo il suo palmo e poi sulle sue dita. Me lo avvicinò. Una situazione a dir poco strana, macabra ma allo stesso tempo intrigante e allettante. Portò la sua mano insanguinata sulle mie gote bianche e mi fece bere il sangue che scivolava pian piano sulla sua pelle. Mandai giù quel sapore inconfondibile, dolce ma allo stesso tempo amaro. Ora le mie labbra erano di un intenso rosso sangue. Lì la sua ferita si richiuse e, con scatto deciso, infilò i suoi denti freddi sul mio collo caldo e pulsante. In quel momento scivolai a terra perdendo i sensi. Stavo per diventare un vampiro.