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Autore: Selene Silver    27/07/2011    4 recensioni
Per Karac
Genere: Dark, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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To chase a feather in the wind.

 

 

«Per favore, Robert… Per favore, torna a casa.»

La cornetta del telefono stretta tanto forte da far sbiancare le nocche, l'altra mano serrata a pugno sul cuore, come a voler tenere insieme i brandelli di carne che si erano aperti in una ferita immaginaria eppure sanguinante. «Sì… te lo giuro. Torno subito.»

 

Col senno di poi, avrebbe detto di aver sempre avuto paura che qualcosa andasse male. Fin dall'incidente automobilistico in Grecia. Il Dio Dorato ne era rimasto tramortito. Adesso era definitivamente morto. Si dissanguava, una cosa rattrappita e patetica, sulla moquette della camera d'albergo. Robert poteva solo guardarlo, la bocca secca e socchiusa, le ginocchia tremanti e gli occhi che sembravano andare a fuoco per le lacrime. Guardava quella parte di sé stesso morire, mentre risentiva la voce di Maureen nella mente. I singhiozzi che le raschiavano la gola, le parole farfugliate eppure così chiare. «Karac è morto, Robert. È morto.»

 

«Ti aspetto qui, papà.»

Erano le ultime parole che gli aveva detto, tenendogli la mano. Era incredibile quanta forza avesse in quella stretta. Di solito, prima di lasciarlo partire per un tour, Karac lo abbracciava e gli chiedeva almeno cinque volte se sarebbe tornato presto. Robert rispondeva invariabilmente di sì, anche quando era una bugia. Lo diceva anche a Carmen, che a ogni partenza si chiudeva nella sua stanza e piangendo urlava «Vattene, vattene!» per poi correre a scusarsi e salutarlo con un bacio quando la limousine arrivava per portarlo via.

Invece Karac, stavolta, aveva promesso di aspettare. Robert ne era rimasto sorpreso e intenerito insieme. «Ma dove dovresti andare?» gli aveva chiesto, sorridendo e tirandolo a sé per baciarlo e fagli il solletico, fino a farlo ridere, anche se i suoi occhi rimanevano tristi e stranamente seri. Aveva pensato che il suo raggio di sole stesse diventando grande.

«Ti aspetto qui, papà.» Come se avesse avuto paura di non poterci essere, invece.

 

Incespicò all'indietro e cadde sul divano. Il telefono era finito per terra, non riusciva a ricordare come. E d'altro canto, che importava? Il telefono poteva pure rompersi, l'intera città saltare in aria. Che importava? Come si poteva pensare a cose tanto minuscole, quando il sole era appena imploso, diventando null'altro che una stella fredda, una luce nera, un buco in un cielo crudelmente azzurro?

 

Karac. La prima volta che l'aveva tenuto fra le braccia. La curva del suo braccio che accoglieva perfettamente quel fagotto tenero che altri non era se non suo figlio. Il peso. Il profumo. La lanugine dorata che gli ricopriva la testolina morbida, la boccuccia aperta in uno sbadiglio, gli occhi socchiusi ma inequivocabilmente azzurri come i suoi.

E poi. La sua risata gorgogliante. Quella volta che era tornato a casa e se l'era trovato a sgambettare per il salotto, quando alla sua partenza gattonava ancora.

Quando lo seguiva dappertutto, ridendo, correndo, invitandolo a combattere i giganti insieme, offrendogli come spada un bastoncino di legno.

Karac. I suoi capelli biondi nel vento. La sua risata. I suoi abbracci. Ti aspetto qui, papà.

Lo ricordava così chiaramente. Come poteva non esserci più? Come poteva non esistere più in nessun luogo?

 

Si alzò, barcollò fino alla finestra. Doveva tornare a casa. 

Chiamare Cole perché lo aiutasse a preparare la partenza, prenotare il volo, chiedere a John di accompagnarlo; non avrebbe avuto bisogno di dire di non potercela fare da solo, Bonzo l'avrebbe sicuramente capito. Pur con la mente intorpidita dallo shock, riuscì a pensare addirittura con ironia che i media ci avrebbero dato dentro - irrispettosi, senza cuore né anima - calcando sulle loro strane "attitudini". Doveva telefonare a Jimmy. Rassicurarlo, dirgli che non aveva nessuna colpa; e in effetti era vero. Chiamare Jonesy e dirgli di rimanere insieme alle sue figlie, invece che raggiungerli in America.

Deglutì. Doveva fare tutte quelle cose, ma non ne aveva la forza. Non riusciva a muoversi. Si sentiva il corpo pesante. E poi, se avesse raccolto il telefono e avesse digitato il numero, avrebbe dovuto parlare. Dirlo. Dire quelle parole che avrebbero reso tutto irrimediabilmente reale. Perché Robert non era una di quelle persone che cercano sotterfugi. Non avrebbe privato d'importanza, reso meno vero ciò che era accaduto, usando frasi fatte come "è sparito" o "non c'è più". No, lui avrebbe detto "è morto". Ora gli serviva solo il coraggio di aggiungere un soggetto al verbo.

 

Con fatica, cercò qualcosa nella stanza, qualcosa che lo aiutasse a tornare in sé. Ma era solo una suite d'albergo, che per quanto sfarzosa finiva semplicemente per assomigliare a tutte le altre centinaia che aveva visto.

Tornò a guardare la finestra. Posò una mano sul vetro; era fresco. Avvicinò anche il viso, e il suo respiro lasciò un alone bianco sulla superficie trasparente prima che vi posasse sopra una guancia. La pelle gli bruciava, come gli occhi; senza neanche accorgersene aveva pianto tutto il tempo, lacrime silenziose che non esprimevano davvero il suo dolore. Dov'erano le urla, la pazzia, la rabbia? Intuì che sarebbero arrivate dopo. Perché ora si sentiva semplicemente vuoto, sfinito, dissanguato. E in cerca di un motivo per alzarsi, ancora una volta, risalire la collina da cui era rotolato, un motivo per curarsi i tagli profondi e infetti che si sentiva dentro e fuori.

 

Fu allora che la vide. Arcuata, bianca, luminosa nella luce di un sole che lui vedeva morto, la piuma fluttuava nel vento, tracciando traiettorie apparentemente prive di senso, come il volo dell'uccello che l'aveva persa.

Robert schiacciò la mano contro il vetro con forza, come se volesse prenderla. Ma ovviamente non poteva. Così si limitò a guardarla, mentre continuava a vorticare nell'aria. La fissò finché gli occhi gli andarono fuori fuoco, finché la sua danza non gli s'impresse nella mente. Poi sbatté le palpebre.

Quando tornò a guardare nel punto dove un attimo prima c'era la piuma, questa era sparita.
 

 

Yours is the cloth, mine is the hand that sews time 
his is the force that lies within 
Ours is the fire, all the warmth we can find 
He is a feather in the wind 


Mi sento una merda. Perché sto scrivendo di un'argomento di cui non so un paio di palle, dal momento che non ho mai perso nessuno, e perché avrei dovuto postare questa fic almeno un'ora fa. STUPIDA RAGAZZINA, COSA CREDEVI DI FARE POSTANDO QUESTA MERDA??!!!
Sì, m'incazzo pure con me stessa. Ma volevo semplicemente rendere omaggio. A Karac, quel cucciolo. E al suo papà, che prima di quel fatale 26 luglio 1977 splendeva come il sole, e che dopo si è rialzato, nonostante tutto, e ancora sembrava che andasse tutto bene, ma in realtà la sua luce si era affievolita, e lo si nota nelle rughe, negli sguardi troppo profondi, nei sorrisi che sembrano così tristi.
Ho anche fatto un disegno per questa merda, qui. Buonanotte.
  
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