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Autore: Jiguzagu_Sanba    27/07/2011    3 recensioni
"Te la ricordi questa canzone? La canterò ancora per te... Per sempre...".
Sulle note di questa perenne melodia, troverete un Hikaru piuttosto cambiato... Siate clementi, eh! E' la mia prima fic! *bluuush*
Genere: Drammatico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Hikaru Matsuyama/Philip Callaghan, Kojiro Hyuga/Mark, Nuovo personaggio, Sorpresa
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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"Il mio tesoro non sorride.
Il mio tesoro non mi viene incontro.
Il mio tesoro non mi presta attenzione,
ma un giorno le nostre strade si incroceranno di nuovo.
Canto con te che mi stai tra le braccia,
te la ricordi questa canzone?
Quella che ti cantavo sempre?
Che cantavo fino a che non ti fossi addormentato?
La canterò ancora per te...
Per sempre…"

Giaceva lì, tra le coltri sfatte ed asettiche, da un tempo interminabile. Non faceva comunque differenza. Non avrebbe rimpianto l’incessante scorrere di quei momenti, che lasciava scivolassero via mentre se ne restava steso, immobile, su quel letto, a mormorare. Non avrebbe potuto. La stentata melodia, a cui le labbra, danzando quasi fittizie, conferivano appena una lieve consistenza, aveva questo strano effetto di condurlo lontano, da qualche altra parte, in un luogo di cui il tempo avrebbe assopito pian piano il ricordo. Tutti avrebbero dimenticato. Sarebbe stata solo questione di poco per alcuni, forse un po’ di più per altri, ma quel che è stato finisce inesorabilmente per sfilare via e non sempre così silenziosamente. Come il suono dell’acqua che cola da un rubinetto che qualcuno abbia distrattamente dimenticato di chiudere con cura. E’ un mesto ticchettio, perpetuo e regolare, a cui tralasci di far caso quando gli obblighi ti sommergono e gli unici respiri che ti concedi sono quelli in cui devi preoccuparti di quale confezione di surgelati ficcare nel forno a microonde. Piccoli e futili gesti quotidiani, usati come pretesto per riempire di sfumature forse ipocrite il grigiore di giornate che, tutto sommato, sono irrimediabilmente tutte identiche. Un sottile strato di apparenza capace di nascondere ogni imperfezione, ogni piccola perdita. Poi sulla città calano le ombre ed è allora, immerso in un silenzio irreale, che ti torna alla mente che le gocce non hanno mai smesso di cadere. Una per una. Grevi e irritanti. Colano e si ammucchiano in una fatiscente pozza di oblio, senza possibilità di fare ritorno. Ma sei troppo stanco per darti una mossa e deciderti a porre definitivamente fine alla tua piccola tortura personale. Rimandi a domani, ogni santissimo giorno, fino a che, distrattamente, forse di inconscia iniziativa o per gentile concessione, il ticchettio cessa di acuire il tormento di notti spesso insonni. E tutto torna tranquillo. Tace. Certo, nulla sarà mai più come lo era stato. Anche un corpo debole come l’acqua non risparmia di imprimere il suo solco indelebile, ma sono eccezioni i momenti in cui succede di farci caso. Gli occhi, prima o poi, si abituano. Ed è quello il momento in cui una nuova pagina immacolata aspetta solo di ricevere il tanto atteso battesimo. Era una speranza che covavano tutti segretamente nel profondo, anche se nessuno aveva avuto il coraggio di dare voce a quel desiderio sopito. Era più facile credere che, a tacere, sarebbe andato tutto per il verso giusto, che le cose avrebbero trovato da sole il loro corso e che presto il Sole sarebbe tornato a splendere, di nuovo radioso. Era perché nutriva anche lui, segretamente, la medesima aspettativa che sorrideva  debolmente, mentre ancora bisbigliava tra le note scomposte? Il calore che dal cuscino trapelava, scaldandogli una guancia, era simile alla sensazione di benessere che si prova a starsene accoccolati tra le braccia della mamma, che amorevolmente ti cinge alle spalle e accosta il viso al seno morbido ed invitante, come cullassero  l’illusione di un domani dai colori sgargianti. Toni spenti e pallidi svaniti, spazzati via, trascinati lontano da un vento  di fresco cambiamento, rigenerante. Forse sorrideva proprio per questo. Perché, nel cuore, sapeva che in qualche modo sarebbe andata a finire così. E allora non gli restava che cantare, semplicemente, con la mente sgombra da ogni ansia, in attesa. Se lei gli fosse stata accanto, se non l’avesse mai lasciato solo, sarebbe sicuramente cessata anche questa ennesima bufera. Aveva fiducia in lei e sapeva che non gli avrebbe dato modo di pentirsene. Era solo questione di tempo, poi tutti i pezzi sarebbero tornati al loro posto. Dovevano tornare al loro posto. Gliel’aveva promesso, ripetuto tante e tante volte, che sarebbe andato tutto per il verso giusto. Troppe. E lui non poteva fare a meno di crederle. L’amava troppo per non crederle. Allo sfinimento. Fino alla nausea.

Sospirava.

“…Te la ricordi questa canzone?”
Una debole risata, sospesa tra genuino sarcasmo ed inconscia rassegnazione, gli sfuggì dalle labbra, dischiuse appena. Quelle parole dovevano avergli riportato alla mente qualcosa di davvero buffo. Glielo si poteva leggere negli occhi, spenti, come vi fosse calato il sipario dell’intervallo, ma da qualche parte, in fondo ai recessi dell’anima, ancora vivi. Vivi e in attesa di un segnale, anche piccolo, che lo riconducesse alla realtà. Sarebbe bastato così poco a rompere quel precario equilibrio. Anche un solo soffio sulla faccia o un leggero tocco sul dorso della mano, quella che, morta, penzolava oltre il confine del letto. Quasi gli sembrò di percepirla, la sensazione di gelide dita minute sfiorargli la pelle, percorrerla ai limiti di un possibile decrescendo, fino ad intrecciarsi alle sue, scialbe e ruvide. Chiuse gli occhi mentre un brivido gli percorse la schiena, increspando la cute, sollevandogli la peluria. Quando li riaprì, gli sembrò di essersi appena risvegliato da un lungo stato di catalessi. Intontito, dovette sbattere più volte le palpebre per riaversi dallo smarrimento in cui versava e fu una sorpresa ritrovarsi realmente a tangere altra carne viva ed altre ossa. Sollevò lo sguardo, lentamente, senza fretta, con surreale calma, poi le labbra diedero forma ad un sorriso disteso, impastato di benessere, che lasciava intravedere lo smalto biancastro degli incisivi. Non poteva sbagliarsi. Quegli occhi, i suoi occhi, erano inconfondibili, li avrebbe riconosciuti tra migliaia di altri. Il candore e la gentilezza che sprigionavano erano la definitiva conferma che dissipava ogni dubbio. Non era affatto un sogno, lei non era un sogno e quella mano era reale come avrebbero potuto esserlo la sabbia a contatto coi piedi o l’aria che imbottisce i polmoni di linfa. Col pollice, la sfregò piano, quasi temendo potesse infrangersi al minimo tocco in mille minuscoli frammenti di vetro. Questa volta fu il turno di lei di sorridere, rassicurante.

“La canterò ancora per te… Per sempre…”

 
  
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