Ecco,
si… funziona!… no… prova, prova… sa… sa, prova… oh, fanculo a questa webcam!
Dai, su, accenditi… oh.
Ecco, si vede. Bene. Niente, questo è un… videodiario. Ho ventitré anni, quindi
semmai qualcuno lo ritroverà tra le macerie di questa casa tra cent’anni,
chiunque si dirà: “Cazzo, a ventitré anni hai bisogno di un diario segreto
Georg?”.
La mia risposta è affermativa. Sì. Sì mi serve. Ho… bisogno, di un diario
segreto.
Perché devo parlare, parlare con qualcuno. E trovare un modo per restare sveglio
mentre il latte si riscalda e c’è un esserino che piange dentro a quella culla
lì dietro… ecco, si vede? Sì, ecco, quella lì. Bé, ora non piange. Ma tra poco
lo farà. Fortissimo.
Ecco, niente. Ho bisogno di un diario perché sono un neo-papà. Un neo-papà di
ventitré anni. Un ragazzo padre. Che ha amici della sua età con cui non può
parlare di biberon e pannolini.
E quindi vuole un diario segreto a cui raccontare di ogni volta che qualcuno
gli fa la pipì addosso.
Il videodiario di un neo-papà. E adesso ti… vi… insomma, adesso racconto come è
iniziato tutto questo… Oh, no… magari dopo.
Torno subito, l’esserino nella culla inizia a strillare.
***
“Mi faranno il cesareo, vero?”, Fey Baumann era uno
scricciolo di diciannove anni con una grande pancia in quel letto d’ospedale
così bianco. Gli occhioni azzurri erano titubanti verso l’infermiera, che le
rivolse un sorriso dolce, sistemandole la flebo.
“E’ una gravidanza difficile, lo sai vero?”, indagò la donna, sedendosi in un
angolo del letto.
“Sì.”
“E’ probabile che faranno un cesareo. Hai paura?”, domandò accarezzandole la
fronte. Fey scosse il capo in segno di negazione. “Tanto non è niente di che.”,
la rassicurò. “Andrà tutto bene.”
“Ho un’altra contrazione.”, biascicò la biondina, poggiando le mani sulla
pancia sferica e sporgente.
“Tra poco ti porteremo in sala parto.”, Fey annuì con un sorriso stanco,
passandosi una mano nei capelli. “I tuoi genitori non sono ancora arrivati?”,
domandò con calma l’ostetrica. La bionda scosse il capo di nuovo.
“Io i genitori non ce li ho.”
“Ah. E… i tuoi parenti?”
“Non ho parenti. Sono sola.”
“Ah.”, si zittì. Quell’infermiera si chiamava Greta. Aveva i capelli biondi e
un viso dolce. Sembrava voler bene ad ogni suo paziente. Tentò di indagare
ancora dopo alcuni secondi. “E il padre del bambino?”
“Se ti dicessi chi è non mi crederesti mai.”, rispose Fey, rilassandosi in un
sorriso e sventolando una mano. Greta le si fece più vicina con aria complice.
“Dai, dai, dimmelo.”
“Hai presente i Tokio Hotel?”
“Mh-mh.”
“Georg Listing, il bassista con i capelli lunghi, è il padre del bambino.”,
Greta sgranò gli occhi.
“Dici davvero? E perché non è qui?”, domandò. Non c’era malizia nella sua
domanda, solo curiosità e voglia di sapere.
“Perché lui non sa che sono incinta. Cioè siamo stati insieme per tre notti,
una delle quali qualcosa è andato storto evidentemente. Poi non ci siamo più
visti.”
“Capisco. Non vuoi dirglielo?”, Fey tornò seria di botto.
“E’ una gravidanza difficile.”, mormorò citando le parole dell’infermiera. “Se…
se non dovessi farcela…”, mormorò. “Vorrei che contattaste Georg. Vorrei che il
bambino stesse con lui.”, Greta iniziava a credere davvero alle parole di
quella ragazza. Fey sorrise di nuovo, dopo un attimo, rasserenandola un po’. “E
sempre se non dovessi farcela, vorrei che il bambino si ricordasse di me.”
“Vuoi lasciargli qualcosa?”, chiese Greta in un impeto di amore verso quello
scricciolo.
“Non ho nulla qui con me.”, si strinse nelle spalle la biondina. “Per favore,
chiamatelo Fey.”
“Ma è un nome da donna!”, Greta era sorpresa da quella strana richiesta.
“E’ il mio nome. È qualcosa di mio
che gli rimarrà per sempre. Per favore.”,
calcò la voce sulle ultime due parole, un po’ per enfasi, un po’ perché una
forte contrazione la colpì in piena pancia come un pugno.
***
“Allora lei mi ha detto: «Voglio salire in camera tua». Io ovviamente le ho detto di si.”
“Il solito maniaco.”, Bill Kaulitz rimbeccò suo fratello con fare critico.
“Maniaco! Andiamo, siamo seri. Dannazione, grandi tette e gran culo quella Sam.”,
rispose Tom, mimando con le mani due seni abbondanti. Georg scosse il capo con
fare rassegnato. Gustav, esasperato, gettò il capo all’indietro. “Una scopata
davvero memorabile.”, concluse il chitarrista, un’espressione soddisfatta sulla
faccia da schiaffi.
“Quanto abbiamo ancora?”, lo interruppe Georg, stiracchiandosi.
“Ancora dieci minuti di pausa e poi si torna a lavoro.”, rispose stancamente
l’ossuto vocalist, accoccolandosi sul divanetto. “Non ce la faccio più a stare
in questo studio.”, due colpi sulla porta distrassero la band da deliri di
onnipotenza e oppressiva stanchezza. Dunja, la bionda segretaria del manager
David Jost fece capolino nella stanzetta dedicata al relax.
“Georg, tesoro.”, il bassista girò la testa nella sua direzione. “C’è una telefonata
per te. Dall’ospedale.”
“Ospedale?”, Bill sollevò gli occhi confuso. “Che è successo?”, Georg scattò in
piedi come una molla e in un attimo fu fuori dalla stanza. Pochi secondi dopo
una voce sconosciuta lo raggiunse attraverso il cordless.
“Pronto? Chi parla?”
“Georg Listing?”
“Sì, sono io.”
“Salve, sono il Dottor Mendel del reparto di Ginecologia e Ostetricia
dell’ospedale.”, Georg aggrottò le sopracciglia confuso. Un ginecologo? Non
ricordava di avere una vagina. Né di avere un qualsiasi rapporto con il sesso
opposto che implicasse un suo contatto, di qualsiasi genere esso sia, con quel
preciso reparto dell’ospedale.
“Mi dica.”, Georg inspiegabilmente trattenne il fiato.
“Penso proprio che ieri lei sia diventato papà.”
***
Gli occhi
di Tom si sgranavano ogni frazione di secondo di più. Georg fu tentato di
pararsi la faccia per paura che potessero schizzargli addosso da un momento
all’altro.
“Io voglio capire cosa cazzo significa che sei diventato padre!”, sbraitò il
chitarrista agitando una mano nervosamente.
“Non lo so, Tom. Se lo sapessi a quest’ora non starei andando in ospedale a
fare un test del DNA.”, rispose altrettanto istericamente Georg.
“E se è veramente tuo figlio?”, piombò di colpo nella discussione Gustav, un
alone di pacatezza che si poggiò su di loro permettendogli di riflettere.
“Non lo so, cosa si fa in questi casi?”, biascicò Georg afferrando la giacca di
pelle dall’attaccapanni. Gli altri tre membri della band si guardarono per un
attimo spaesati, gli uni in cerca di una risposta negli occhi degli altri.
“Bé penso che tu debba scegliere se riconoscere o meno il bambino.”, tentò
Bill.
“E se non lo riconosco?”
“Lo danno in adozione.”, rispose con ovvietà il vocalist. Georg corrucciò per
un attimo le labbra sottili, storse il naso, poi si passò un mano tra i capelli
e fece per andarsene.
“Problema risolto. Non riconosco il bambino, lo danno in adozione, avrà una
vita felice. Grazie e arrivederci.”, gli altri approvarono senza ripensamenti,
prima che Georg potesse richiudersi la porta alle spalle con un respiro
profondo.
***
La corsia
dell’ospedale era vuota e vibrante di suoni sommessi. Si percepiva lo
scricchiolio delle rotelline delle barelle sui pavimenti lucidi, il vociare dei
medici e delle infermiere, i loro passi confusi e arrovellati e frettolosi. Il
battito lontano di alcuni elettrocardiogrammi. In quella situazione raggelante
la gamba di Georg molleggiava nervosamente su e giù ad un ritmo instancabile,
fin quando una porta bianca si aprì permettendogli di scattare in piedi come se
fosse seduto su intricati rovi di spine.
“Allora?”, si agitò andando incontro al medico.
“A quanto pare lei è il padre del bambino.”, le gambe di Georg si fecero
incredibilmente molli. Sentì il cuore fare un capitombolo fin giù nello
stomaco.
“Ma è sicuro?”, biascicò. Il Dottor Mendel annuì con serietà.
“Attualmente lei è l’unico parente del bambino.”
“Ma io non conosco bene nemmeno sua madre…”, era nel panico più completo.
“La madre si chiamava Fey Baumann. Aveva diciannove anni.”, Fey Baumann. Quel nome riecheggiò nella
testa di Georg svolazzando dentro ad una nuvola di capelli biondi ed enormi
occhi azzurri. Georg non riuscì a dire niente. Pensò solo a un rivolo di sangue
e alla pelle già bianchissima di Fey che sbiadiva lentamente; una scoordinata
danza di morte sul suono del pianto di un bambino.
“Potrei… potrei vedere il bambino?”, domandò deglutendo. Sentiva la gola
asciutta e arsa come se avesse ingoiato sabbia.
“Certo, mi segua.”, i loro passi rintoccavano inesorabilmente lungo le corsie
fino a quando il camice del Dottor Mendel smise di sventolare davanti ad una
lunga vetrata oltre la quale erano schierate dieci minuscole culle rosa e
celesti. Georg rimase senza fiato nel vedere tutte quelle piccole manine
stropicciarsi e quei piedini scalciare in aria sollevando piccoli lembi di
stoffa. Percorse tutta la lunghezza della vetrata seguendo i passi lenti del
medico fin quando questo si arrestò indicando un punto davanti a sé. Indicava
una culla contenente un bimbo biondo pacificamente addormentato, vestito di una
tutina gialla. L’unica tutina gialla in mezzo a tutto quel rosa e quel celeste.
Georg sentì il fiato mozzarsi e pregò che il battito del suo cuore non fosse
udibile, perché la sua forza aveva un che di imbarazzante.
Sollevò gli occhi e proprio dietro la testa del bambino c’era una grande
etichetta azzurra con un uccellino disegnato. Sull’etichetta c’era riportato il
nome, il peso e la data di nascita dello scricciolo addormentato nella culletta
trasparente e blu.
“Si chiama Fey?”, biascicò Georg. “E’ un nome da donna.”, disse
impercettibilmente tra sé e sé.
“Si chiama Fey come sua madre, è un maschietto che pesa 3 chili e 450 grammi,
gode di ottima salute e allo stato attuale è suo figlio.”, il groppo nella gola
di Georg invece di scendere si ingrossò. Trattenne il fiato ancora nel guardare
quell’agglomerato di coperte muoversi un po’ e spalancare lentamente due occhi di
quel colore indefinito, plumbeo e vitreo
che hanno solo i bambini di pochi giorni. Georg non riuscì a fare a meno di immaginarli
di un verde così simile al proprio. “Allora, vuole riconoscere Fey?”, le parole
del dottore destarono ancora Georg.
I cinque secondi che seguirono furono per Georg i più intensi della sua vita,
perché il suo cervello scatenò un’attività morbosa come non aveva mai fatto
prima. Nella sua testa si succedettero immagini diverse, da Tom che sbraitava,
ai Tokio Hotel sul palco, al nervosismo isterico di Bill prima di un concerto,
a sua madre, al giorno in cui i suoi si erano separati e aveva visto suo padre
andar via, al suo cane, ai suoi amici di Magdeburgo, a quella volta che aveva
fatto a pugni a scuola, per poi passare alla sera in cui lui e Fey si erano
rotolati tra le lenzuola, per poi irrompere nel giallo sole di quella giornata
e di quei capelli dorati e al verde prato che aveva sognato di vedere in quegli
occhi su quella testa così piccola.
E fu così che Georg seguì il dottor Mendel dentro un’altra stanza, e al
pensiero di un Tom arrabbiato nella sua testa preferì quello di un involucro di
pelle, cuore, pannolini e coperte accovacciato in una carrozzina azzurra nuova
di zecca.
…e così decisi di tenere Fey.
Che, sì, ha un nome da donna anche se è un maschio. È il nome della sua mamma. Me
la ricordo a malapena, questa Fey.
Era stata il divertimento di qualche notte. E non mi guardate come mi state
guardando. Lo so, lo so, non è una cosa bella da dire, né da fare… eccetera
eccetera.
Ma che volete, ho ventitré anni.
Oh… finalmente Fey ha fatto il ruttino. Posso andare a dormire.
Buonanotte.