E quella sera, forse
distratto, non la notai. Non notai quegli occhi stupendi, quei capelli d’oro,
quell’infinita bellezza che suonava strana e ricercata, strana e ricercata
proprio come il suo nome: Martha.
Conoscerla non fu che un
gioco, uno dei tanti che ci divertiamo spesso a fare usando le altre persone.
Che volevo da lei? Non lo so: amare forse, forse una semplice ricerca
d’affetto, forse proprio uno di quei giochi, forse solamente sentirmi meno
solo, affogato nel piacere dello stare assieme…
E quel primo giorno con lei
non fu che una fragile corsa contro il tempo, nella consapevolezza che l’avrei
abbandonata, che non l’avrei mai più rivista, che anche se l’avessi baciata
avrei scordato subito la fragranza delle sue labbra. Così le stetti accanto tutto
il giorno, ascoltando le sue parole, riempiendo i suoi silenzi, cercando anche
una minima traccia d’amore in quel suo volto così misterioso. Mattina e
pomeriggio. Sempre assieme, sempre a provare di far scoppiare anche nel suo
cuore quella scintilla che nel mio mi sembrava fosse già esplosa. Forse
inconsciamente già sapevo che sarebbe tutto finito miseramente, come ogni
storia che nasce in estate sulla sabbia incandescente, sotto la calura del
Sole. Già, forse inconsciamente lo sapevo ma no, la mia mente non l’avrebbe
accettato, preferiva restare affogata nell’oblio di quella piccola, futile,
momentanea ma infinita perfezione.
E la sera uscimmo assieme. Io
lei gli altri… Ammetto che per me c’erano solo due persone. Ammetto anche che ero
deciso: mi sarei buttato. Quella stessa sera. Forse erano gli incitamenti degli
amici, forse la consapevolezza del partire il giorno dopo, ma devo dire che
stavo bruciando. Ardevo, ardevo di voglia d’amare e di essere –almeno per una
sera- amato.
Poi arrivò lei, avvolta in
uno splendido e sfolgorante abito rosso che faceva impallidire ogni cosa in
fronte alla sua magnificenza. Quando la vidi dimenticai tutto: gli alberi del
bosco, i palazzi, forse pure la strada sotto i piedi, sicuramente quell’anima
che avevo accanto per farmi coraggio. Eravamo io e Martha, avvolti nel vuoto
d’un momento perfetto.
Le prime ore serali fuggirono
veloci, mentre quella fiamma che avevo dentro lentamente si spegneva. Si
spegneva perché no, non riuscivo a chiederle nulla, non riuscivo a parlarle,
non riuscivo a mostrare a quell’angelo in rosso quanto l’amavo. E ogni volta
che guardavo l’orologio era un colpo al cuore: vedere i minuti che passavano
inesorabili e sentire allo stesso tempo più freddo più freddo più freddo,
sentire allo stesso tempo lo spegnersi d’ogni sentimento d’amore di fronte alla
vergogna, alla rassegnazione.
E fu solo in un momento fermo
che le chiesi, non so se timidamente o scherzosamente:
-Ti andrebbe di fare un giro
in spiaggia io e te, soli?
In tutta risposta mi rise in
faccia, sconvolgendomi. Ma non mi sarei ritirato così, non quella sera. Cercai
d’impedire alla freccia appena scagliata di cadere miseramente facendole
raggiungere il suo bersaglio il cuore di lei, cercai di farle attraversare
quella barriera, raccolsi tutte le forze e ribadii la mia richiesta. Non sapevo
come avrebbe reagito. Se ne sarebbe andata? Mi avrebbe odiato? Non sapevo e non
potevo saperlo. Non sapevo e non mi sarei mai aspettato quel “sì” che uscì come
fievole risposta della sue labbra morbide.
E così ci allontanammo dal
gruppo silenziosi, senza dire niente a nessuno, scappando quasi amanti, quasi a
cercare di nascondere quella piccola fuga.
E poi, poi ci sdraiammo in
spiaggia, vicini, avvolti in quel gelido vento estivo. Sopra di noi un cielo freddo
ma splendidamente stellato; lontano, le luci della notte cercavano di
disturbare la perfezione di quel momento; nessun rumore traversava l’aria se
non il nostro respiro, le nostre parole pronunciate fievoli… Non mi ricordo i
nostri discorsi, non mi ricordo quanto detto, ma mi ricordo i gesti, mi ricordo
gli sguardi, mi ricordo le risa, mi ricordo la follia che animava quel momento
che trascinava avanti quel piccolo attimo di vita.
Ed era tutto così perfetto!
L’abito rosso, le stelle, il mare e il vento gelido. Già, pure il vento
sembrava, con lei, semplicemente, perfetto.
Eravamo lì, affogati nel gelo
di quella notte estiva, a fissarci. La guardavo incessantemente, guardavo
quegli occhi così diversi, li guardavo correre lungo il mio volto, li vedevo affogare
nei miei sogni così vicini, li vedevo guardare quella mia bocca tremante e poi
fissare nuovamente il vuoto nelle mie pupille. Li guardavo e avrei voluto
affogarci, avrei voluto perdermi per sempre in quella magia, in quell’infinito
mare aperto di vite ipotetiche e desideri inconsci. Li guardavo e ci affogavo,
li guardavo e la desideravo, li guardavo e mi rendevo conto che l’amavo.
Poi la baciai.
Che dirne? Un bacio lungo,
interminabile forse, conteso tra l’ardore dei nostri corpi ed il gelo dell’aria
attorno. Tremavo, ma non so se di freddo o d’emozione. A volte chiudevo gli
occhi, cercando quantomeno d’immortalare quel momento, se non di fermare il
tempo, abbandonandomi per sempre all’euforia, all’estasi. Poi li riaprivo,
allontanandomi un poco da quella stretta perfetta, fissandola un poco, amandola
un poco, adorando quel piccolo riso di complicità che le inondava il volto, e
subito dopo ritornavo a baciarla, ad affogare in quel suo volto così splendido.
Quanto è stato? Anni, giorni
ore? No, solo pochi, infiniti, sublimi minuti. Pochi minuti d’amore, pochi
minuti di perfezione, pochi minuti di gioia. Pochi minuti d’abbandono, pochi
minuti vissuti senza la consapevolezza che tutto quel sogno sarebbe finito solo
pochi altri incantevoli minuti dopo, che ci saremmo lasciati per sempre.
E così almeno il giorno dopo
l’ho potuta amare. Almeno per poche ore ho potuto darle qualche piccolo
frammento di quel che provavo, qualche piccola lacrima di quella fiamma che
ancora ardeva dentro di me. Almeno per poche ore c’è stato un noi. Almeno per
poche ore ho potuto provare l’ebbrezza dell’abbandono totale ad una persona,
quell’abbandono amoroso noncurante d’ogni piccolo frammento di vita attorno,
noncurante di quelle persone che correvano affianco crucciate dalle loro
fragili vite, noncurante perché perfetto, perfetto nella sua fragile pienezza.
Poi, dopo quelle fuggenti ore
avvolte nella pienezza di quel magico noi, venne il momento di lasciarci.
E fu un ultimo bacio, avvolto
nel caldo, avvolto nella sabbia che il vento ci portava attorno, avvolto negli
sguardi noncuranti dei passanti, avvolto in quell’inizio d’estate che mi era sembrato
così perfetto ad aprirmi inconsciamente gli occhi. Come abbandonai quelle
labbra, alzando ancora una volta lo sguardo a cercare d’incrociare il tuo così
familiare, si fece tutto improvvisamente fatalmente chiaro. Capii solo allora
che tutte le nostre parole, tutti i nostri “arrivederci”, tutte le nostre
promesse pronunciate piano, si rivelarono almeno inconsciamente per quello che
erano veramente, si rivelarono false bugie, si rivelarono solo fievoli suoni
abbandonati al vento e fuggiti con lui.
Ma non lo ammisi, non lo
volli credere. Forse lei lo sapeva già, forse anch’io inconsciamente l’avevo
sempre saputo, forse anche quel noi che avevamo provato a creare aveva sempre
saputo nella sua fragilità di essere già condannato a volare via colpito dalle
onde dalla furia del mare.
Scelsi d’ingannarmi ancora un
poco, almeno fino a quando non avrei lasciato del tutto quella città
sconosciuta che era stata mia nemica e al tempo stesso irrinunciabile
consigliera, complice, aiutante.
Fu solo sul treno, mentre il
ricordo di quegli splendidi giorni si offuscava travolto dal correre del vagone
del paesaggio fuggente fuori del finestrino, che provai a pensarle lasciando
tacere per un momento l’ardore di quella fiamma che mi aveva animato in
quell’ultimo giorno.
Mi mancava? Forse. Mi
sembrava di sentire un vuoto dentro, mi sembrava di avere perso su quella
spiaggia un pezzo di me, un frammento di cuore. Mi sembrava di volere, di
dovere, fermare quel treno. Mi sembrava di dovere correre indietro lungo il
binario fino a raggiungerla per poterla amare un altro poco, per poter affogare
per qualche altro attimo nella perfezione di quell’amore. E l’avrei fermato
quel treno.
Già, l’avrei fermato. L’avrei
voluto fermare. L’avrei dovuto fermare.
Ma non lo feci. Non lo feci
perché non potevo? O non lo feci perché inconsciamente non volevo? Non lo so.
So solo che no, non l’ho fermato quel treno. So solo che no, non sono corso
fino a casa sua per darle un altro frammento d’amore. So solo che l’ho persa
per sempre quando il treno si è fermato così lontano. E solo ora so che non è
stata altro che una delle tante storie estive che viviamo ogni giorno ogni anno
con donne che no, non rivedremo mai più, che forse mai abbiamo visto, di cui
forse non ci siamo mai innamorati.
E questa è una di quelle
storie che finisce così, lei chissà dove, io appena sceso da un treno, a
versare una lacrima lenta e sola sulla banchina assolata d’una persa stazione,
a versare in quella lacrima, perdendolo, ogni piccolo rimasuglio di quel noi
che avevamo creato e distrutto nel rapido, inesorabile, sbattere di una
palpebra.