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Autore: JeckBress    30/07/2011    0 recensioni
Avete mai vissuto una di quelle storie in cui, in una fredda notte d'estate, ci si innamora perdutamente d'una ragazza sconosciuta scorta per caso in mezzo ad una vuota folla? Quelle storie in cui si corre dietro a questa ipotetica ragazza, le si parla, la si bacia la si ama? E poi si prova il freddo del distacco da lei, ancora innamorati e solo inconsciamente consapevoli che si sarebbe stati dimenticati la sera stessa, mentre lei si abbandonava a braccia capaci di stringerla più forte?
Bene, questa è solo una di quelle storie, una di quelle magnifiche storie d'amore che nascono già forse consce che tutto si concluderà in un drastico, traumatico, nulla.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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E quella sera, forse distratto, non la notai. Non notai quegli occhi stupendi, quei capelli d’oro, quell’infinita bellezza che suonava strana e ricercata, strana e ricercata proprio come il suo nome: Martha.

Conoscerla non fu che un gioco, uno dei tanti che ci divertiamo spesso a fare usando le altre persone. Che volevo da lei? Non lo so: amare forse, forse una semplice ricerca d’affetto, forse proprio uno di quei giochi, forse solamente sentirmi meno solo, affogato nel piacere dello stare assieme…

 

E quel primo giorno con lei non fu che una fragile corsa contro il tempo, nella consapevolezza che l’avrei abbandonata, che non l’avrei mai più rivista, che anche se l’avessi baciata avrei scordato subito la fragranza delle sue labbra. Così le stetti accanto tutto il giorno, ascoltando le sue parole, riempiendo i suoi silenzi, cercando anche una minima traccia d’amore in quel suo volto così misterioso. Mattina e pomeriggio. Sempre assieme, sempre a provare di far scoppiare anche nel suo cuore quella scintilla che nel mio mi sembrava fosse già esplosa. Forse inconsciamente già sapevo che sarebbe tutto finito miseramente, come ogni storia che nasce in estate sulla sabbia incandescente, sotto la calura del Sole. Già, forse inconsciamente lo sapevo ma no, la mia mente non l’avrebbe accettato, preferiva restare affogata nell’oblio di quella piccola, futile, momentanea ma infinita perfezione.

 

E la sera uscimmo assieme. Io lei gli altri… Ammetto che per me c’erano solo due persone. Ammetto anche che ero deciso: mi sarei buttato. Quella stessa sera. Forse erano gli incitamenti degli amici, forse la consapevolezza del partire il giorno dopo, ma devo dire che stavo bruciando. Ardevo, ardevo di voglia d’amare e di essere –almeno per una sera- amato.

Poi arrivò lei, avvolta in uno splendido e sfolgorante abito rosso che faceva impallidire ogni cosa in fronte alla sua magnificenza. Quando la vidi dimenticai tutto: gli alberi del bosco, i palazzi, forse pure la strada sotto i piedi, sicuramente quell’anima che avevo accanto per farmi coraggio. Eravamo io e Martha, avvolti nel vuoto d’un momento perfetto.

 

Le prime ore serali fuggirono veloci, mentre quella fiamma che avevo dentro lentamente si spegneva. Si spegneva perché no, non riuscivo a chiederle nulla, non riuscivo a parlarle, non riuscivo a mostrare a quell’angelo in rosso quanto l’amavo. E ogni volta che guardavo l’orologio era un colpo al cuore: vedere i minuti che passavano inesorabili e sentire allo stesso tempo più freddo più freddo più freddo, sentire allo stesso tempo lo spegnersi d’ogni sentimento d’amore di fronte alla vergogna, alla rassegnazione.

 

E fu solo in un momento fermo che le chiesi, non so se timidamente o scherzosamente:

-Ti andrebbe di fare un giro in spiaggia io e te, soli?

In tutta risposta mi rise in faccia, sconvolgendomi. Ma non mi sarei ritirato così, non quella sera. Cercai d’impedire alla freccia appena scagliata di cadere miseramente facendole raggiungere il suo bersaglio il cuore di lei, cercai di farle attraversare quella barriera, raccolsi tutte le forze e ribadii la mia richiesta. Non sapevo come avrebbe reagito. Se ne sarebbe andata? Mi avrebbe odiato? Non sapevo e non potevo saperlo. Non sapevo e non mi sarei mai aspettato quel “sì” che uscì come fievole risposta della sue labbra morbide.

 

E così ci allontanammo dal gruppo silenziosi, senza dire niente a nessuno, scappando quasi amanti, quasi a cercare di nascondere quella piccola fuga.

E poi, poi ci sdraiammo in spiaggia, vicini, avvolti in quel gelido vento estivo. Sopra di noi un cielo freddo ma splendidamente stellato; lontano, le luci della notte cercavano di disturbare la perfezione di quel momento; nessun rumore traversava l’aria se non il nostro respiro, le nostre parole pronunciate fievoli… Non mi ricordo i nostri discorsi, non mi ricordo quanto detto, ma mi ricordo i gesti, mi ricordo gli sguardi, mi ricordo le risa, mi ricordo la follia che animava quel momento che trascinava avanti quel piccolo attimo di vita.

Ed era tutto così perfetto! L’abito rosso, le stelle, il mare e il vento gelido. Già, pure il vento sembrava, con lei, semplicemente, perfetto.

 

Eravamo lì, affogati nel gelo di quella notte estiva, a fissarci. La guardavo incessantemente, guardavo quegli occhi così diversi, li guardavo correre lungo il mio volto, li vedevo affogare nei miei sogni così vicini, li vedevo guardare quella mia bocca tremante e poi fissare nuovamente il vuoto nelle mie pupille. Li guardavo e avrei voluto affogarci, avrei voluto perdermi per sempre in quella magia, in quell’infinito mare aperto di vite ipotetiche e desideri inconsci. Li guardavo e ci affogavo, li guardavo e la desideravo, li guardavo e mi rendevo conto che l’amavo.

Poi la baciai.

 

Che dirne? Un bacio lungo, interminabile forse, conteso tra l’ardore dei nostri corpi ed il gelo dell’aria attorno. Tremavo, ma non so se di freddo o d’emozione. A volte chiudevo gli occhi, cercando quantomeno d’immortalare quel momento, se non di fermare il tempo, abbandonandomi per sempre all’euforia, all’estasi. Poi li riaprivo, allontanandomi un poco da quella stretta perfetta, fissandola un poco, amandola un poco, adorando quel piccolo riso di complicità che le inondava il volto, e subito dopo ritornavo a baciarla, ad affogare in quel suo volto così splendido.

Quanto è stato? Anni, giorni ore? No, solo pochi, infiniti, sublimi minuti. Pochi minuti d’amore, pochi minuti di perfezione, pochi minuti di gioia. Pochi minuti d’abbandono, pochi minuti vissuti senza la consapevolezza che tutto quel sogno sarebbe finito solo pochi altri incantevoli minuti dopo, che ci saremmo lasciati per sempre.

 

E così almeno il giorno dopo l’ho potuta amare. Almeno per poche ore ho potuto darle qualche piccolo frammento di quel che provavo, qualche piccola lacrima di quella fiamma che ancora ardeva dentro di me. Almeno per poche ore c’è stato un noi. Almeno per poche ore ho potuto provare l’ebbrezza dell’abbandono totale ad una persona, quell’abbandono amoroso noncurante d’ogni piccolo frammento di vita attorno, noncurante di quelle persone che correvano affianco crucciate dalle loro fragili vite, noncurante perché perfetto, perfetto nella sua fragile pienezza.

 

Poi, dopo quelle fuggenti ore avvolte nella pienezza di quel magico noi, venne il momento di lasciarci.

E fu un ultimo bacio, avvolto nel caldo, avvolto nella sabbia che il vento ci portava attorno, avvolto negli sguardi noncuranti dei passanti, avvolto in quell’inizio d’estate che mi era sembrato così perfetto ad aprirmi inconsciamente gli occhi. Come abbandonai quelle labbra, alzando ancora una volta lo sguardo a cercare d’incrociare il tuo così familiare, si fece tutto improvvisamente fatalmente chiaro. Capii solo allora che tutte le nostre parole, tutti i nostri “arrivederci”, tutte le nostre promesse pronunciate piano, si rivelarono almeno inconsciamente per quello che erano veramente, si rivelarono false bugie, si rivelarono solo fievoli suoni abbandonati al vento e fuggiti con lui.

 

Ma non lo ammisi, non lo volli credere. Forse lei lo sapeva già, forse anch’io inconsciamente l’avevo sempre saputo, forse anche quel noi che avevamo provato a creare aveva sempre saputo nella sua fragilità di essere già condannato a volare via colpito dalle onde dalla furia del mare.

Scelsi d’ingannarmi ancora un poco, almeno fino a quando non avrei lasciato del tutto quella città sconosciuta che era stata mia nemica e al tempo stesso irrinunciabile consigliera, complice, aiutante.

 

Fu solo sul treno, mentre il ricordo di quegli splendidi giorni si offuscava travolto dal correre del vagone del paesaggio fuggente fuori del finestrino, che provai a pensarle lasciando tacere per un momento l’ardore di quella fiamma che mi aveva animato in quell’ultimo giorno.

Mi mancava? Forse. Mi sembrava di sentire un vuoto dentro, mi sembrava di avere perso su quella spiaggia un pezzo di me, un frammento di cuore. Mi sembrava di volere, di dovere, fermare quel treno. Mi sembrava di dovere correre indietro lungo il binario fino a raggiungerla per poterla amare un altro poco, per poter affogare per qualche altro attimo nella perfezione di quell’amore. E l’avrei fermato quel treno.

 

Già, l’avrei fermato. L’avrei voluto fermare. L’avrei dovuto fermare.

Ma non lo feci. Non lo feci perché non potevo? O non lo feci perché inconsciamente non volevo? Non lo so. So solo che no, non l’ho fermato quel treno. So solo che no, non sono corso fino a casa sua per darle un altro frammento d’amore. So solo che l’ho persa per sempre quando il treno si è fermato così lontano. E solo ora so che non è stata altro che una delle tante storie estive che viviamo ogni giorno ogni anno con donne che no, non rivedremo mai più, che forse mai abbiamo visto, di cui forse non ci siamo mai innamorati.

 

E questa è una di quelle storie che finisce così, lei chissà dove, io appena sceso da un treno, a versare una lacrima lenta e sola sulla banchina assolata d’una persa stazione, a versare in quella lacrima, perdendolo, ogni piccolo rimasuglio di quel noi che avevamo creato e distrutto nel rapido, inesorabile, sbattere di una palpebra.

  
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