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Autore: LonelyBoy    31/07/2011    5 recensioni
Dan non era mai stato uno che se ne intendeva di baseball; e questo lo aveva capito in un match a cui prese parte malamente quando aveva solo sei anni.
Missing moment che si rifà ad eventi precedenti alla serie; presenti anche accenni su Rufus, Alison, Jenny, Harold e Blair.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Dan Humphrey, Quasi tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Prima dell'inizio
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Commitment, pride and academic deserves
 

Il caldo tendeva ad aumentare di ora in ora. Alle ore diciassette del mese di Aprile, infatti, si registrava una temperatura pari a ventisette gradi. Davvero niente male per un pomeriggio primaverile.
Nei verdi sentieri di Central Park si muoveva, con passo lento e martellante, un branco composto da non più di cinquanta adulti, separati a loro volta in due sottogruppi distinti. Marciavano infatti, con un certo margine di vantaggio rispetto all’altro gruppo, i cosiddetti “proletari” di Brooklyn, del tutto intrattenuti dalle conversazioni sulla loro ripetitiva mondanità nel più grande borough della Grande Mela. Coloro che li seguivano, invece, a non meno di dieci passi di distanza, erano i facoltosi e abbienti residenti dell’UES, UWS, Harlem e Morningside Heights. Non appena giunsero al quinto campo da baseball del North Meadow, tutti quanti furono invitati a sedere sulle lunghe gradinate in legno che permettevano una discreta visione del terreno di gioco. Le gradinate erano tre. Rufus dunque, raccogliendo in braccio la piccola Jenny, si portò sulla seconda che a suo avviso garantiva una visione migliore della partita che si doveva disputare.
Jenny poggiava con la sua faccia paffuta direttamente sulle possenti spalle di suo padre, volgendo lo sguardo alla tribuna superiore. Le sue morbide e corte braccia lisce e rosee giocherellavano con i suoi lucenti capelli, che a stento raggiungevano l’apice delle sue ristrette spalle.
“Che strana gente” pensò la bambina, ammirando per la prima volta nella sua vita coloro che provenivano dalla sponda opposta del fiume, meticolosamente contenuti nei loro abiti fatti su misura. Strana gente, si, ma lei era estremamente estasiata dal quadro che le si parava davanti ai suoi sferici e allettanti occhi argentei.
Smack! Sua madre Alison sbucò dalla sua sinistra stampandole un bacio sulla rosea guancia. Jenny rispose con un sorriso di autentica gioiosità.
«Alison! Ti aspettavamo, com’è andata con quel quadro?» domandò Rufus con sincero interesse.
«Fortunatamente bene. Era davvero pretenzioso il cliente, ma sono riuscito a cavarmela. Allora, quando avrà inizio la partita?»
«Fra non molto. Oh, eccoli che scendono in campo!» esclamò Rufus, richiamando l’attenzione della famiglia. Da benevolo padre qual’era, Rufus non poteva contenere trepidazione nel vedere i suoi figli ottenere dei successi, e, soprattutto, divertirsi. Pertanto muoveva ritmicamente la testa da un lato all’altro della panchina, cercando così di scorgere in lontananza il suo piccolo Daniel.
«Tesoro sei davvero agitato?» aveva chiesto Alison dopo una svelta analisi della sua espressione visiva. Non le ci voleva molto per capire gli stati d’animo di suo marito, dato che, probabilmente, lo conosceva meglio di chiunque altro.
Rufus non rispose, si alzò rapidamente quando i bambini in uniforme bianca e inserti blu entrarono in campo, ciascuno occupando la propria posizione.
«Papi! Guarda che quella è la squadra dei tipi strani!» urlò Jenny agitando il suo piccolo corpicino fra le braccia del padre, che poco prima era balzato in piedi.
«Oh, hai ragione. Il Brooklyn Juniores Team porta quelle magnifiche divise verdi e gialle» affermò Rufus, ricomponendosi con un certo imbarazzo.
«Papi! Sono orribili!»
«Orribili? Lo sono davvero?»
«Certo che si, tesoro. La piccola Jenny ha sempre avuto un innato gusto artistico per queste cose!» affermò Alison, ponendo fine all’argomento. Sua figlia Jenny, quindi, già sveglissima e attenta all’età di appena quattro anni, le fece un sorrisino di rimando.
La partita ebbe inizio e allora Rufus, come il resto della famiglia, notò suo figlio Dan che sedeva in panchina, con le mani sulle gambe e il viso rivolto ai giocatori in campo. Suo padre sapeva che sarebbe stato in panchina, Dan stesso glielo aveva detto tre giorni prima con poco interesse, avendo ritenuto quasi del tutto impossibile di poter giocare da titolare nella Finale dei Team Juniores di New York. Dopotutto, era stato perennemente panchinaro dal primo turno della competizione.
“Tutta questa gente per vedere dei mocciosi di appena sei anni giocare a Baseball” meditòDan, con misto di perplessità e preoccupazione. Già, preoccupazione. Tutta la sua famiglia era lì, che aspettava di veder giocare suo figlio. E lui non lo voleva minimamente, dato che i grandi eventi lo inquietavano più del solito, rendendolo incapace perfino di respirare, di agire al meglio delle sue capacità mentali e fisiche – su queste ultime, poi, aveva molte perplessità. Fortunatamente la sua grande amica Vanessa non era lì, dato che i suoi genitori l’avevano portata fuori per il weekend. Aveva uno strano rapporto con la ragazza, Dan credeva, infatti, che Vanessa dalla loro amicizia volesse trarre qualcosa di più. Molto probabilmente era così e a Dan questo non dispiaceva, dato che nei confronti della bambina aveva sempre provato qualcosa di insolito, ma positivo, che la rendeva diversa dalle altre.
Bam! Una delle palle lanciate da Edmund Brown, battitore del team avversario, aveva assunto una traiettoria parabolica - non desiderata, evidentemente – e finì per schiantarsi sulla parete ante stante la panchina, passando pochi centimetri sopra la stessa del fortunato Dan. Il bambino ebbe un sussulto, i suoi  compagni di squadra, invece, finirono per schernirlo con una risata.
Quello si che era stato un gran colpo per la sua squadra, ma “non per la mia salute”, fece notare Dan a se stesso. Il Brooklyn Juniores Team era adesso balzato in avanti di un punto, portando alla grande esultanza dei sostenitori dei brooklyners.
Il match stava volgendo al termine quando, alla scadenza dell’ottavo inning, Chris Spice, autentico prodigio della squadra “proletaria”, inciampò in piena corsa sullo sterrato sottostante, provocandosi innumerevoli ferite superficiali. I numerosi presenti alla finalissima emisero quasi un boato, preoccupati per l’accaduto. I due vecchi in carriera dello staff medico, che sedevano vicino a Dan, si diressero da Chris per accertamenti. Il piccolo talento alzò un braccio, mostrando al pubblico di essere tutto intero. “Atteggiamento da tipico sportivo in carriera” rifletté Dan, nel suo consueto soliloquio mentale.
«Povero Chris, questa botta non ci voleva» affermò Dan, cercando di sembrare il più sconsolato possibile per incarnare almeno il cosiddetto spirito di squadra.
«Povero te, Humphrey. Sei tu colui che prenderà il suo posto nel finale di gara» dichiarò Steven Grint, suo compagno di squadra in sovrappeso già all’età di sei anni, mentre addentava un panino e con l’indice paffuto indicava l’assenza di altri battitori.
“Oh-mio-Dio, tocca a me! Cioè… com’è possibile?! Dio, Chris, che hai fatto! Anzi, perché diavolo l’hai fatto?!” Le riflessioni, o, perlomeno, i frammenti di esse si accavallarono confusamente nella testa nevrotica del piccolo Dan.
Quando l’allenatore gli rivolse un cenno del capo, seguito ad un gesto di stizza nel vedere il bambino che a malapena di reggeva sulle gambe dal panico, Dan ebbe un sussulto al cuore, deglutendo come non aveva mai fatto prima. A quel punto pensò che, come accadeva spesso nei film, l’infortunato compagno Chris gli andasse incontro incoraggiandolo con parole del tipo “Conto su di te, Dan”. E fu così, o perlomeno in parte; Chris infatti gli si avvicinò zoppicando e sorretto dai due vecchi in carriera. Dan attese le possibili, se non probabili parole del compagno di squadra.
«Vedi di non fare troppi danni, sfigato.» Quelle furono le parole che gli rivolse Chris, allontanandosi. Dan rimase perplesso a fissare il campo. Dopodiché ricevette, da parte del suo allenatore, la spinta decisiva ad allontanarlo dall’ombra della tettoia bassa della panchina, e a mostrarlo, quindi, agli occhi del pubblico.
«Oh, ma quello è Dan! Guarda Jenny, tuo fratello sta scendendo in campo!» gridò Rufus, con evidente tono di orgoglio ed apprezzamento. La piccola Jenny, quindi, si alzò in piedi, spalancò la boccuccia dai denti bianchi e le tonde guance le si colorarono di un caldo rosso che ne indicava l’emozione. Aveva sempre avuto grande stima del proprio fratello maggiore, inoltre era solita vederci in lui un esempio da seguire con estrema attenzione – come le diceva spesso suo padre Rufus – anche se, a volte, era lei che si immedesimava nel ruolo della coscienza di Dan, dall’alto dei suoi quattro anni.
Eppure, almeno secondo il parere dello stesso Dan, non c’era nulla di cui andar fieri in quel preciso momento. “Vedi di fare il possibile, Humphrey. Mancano pochi minuti, tenta di lanciare la palla il più lontano possibile, o perlomeno cerca almeno di colpirla” era stato tutto ciò che l’allenatore gli aveva detto poco prima, tuttavia Dan non aveva ascoltato una sola parola.
«Oh Diavolo, ci voleva anche questa» proferì Dan con basso tono di voce non appena vide il lanciatore avversario. Era un bambino con folti e ricci capelli castani che gli ricadevano sul viso lentigginoso, con la punta del naso all’insù che gli conferiva un’aria rigorosamente da maiale. Ma non era ciò a sorprendere Dan e gli spettatori, quanto la sua statura. Era poco più alto della metà di Dan e, ad occhio e croce, poteva avere non più di cinque anni.
Dunque Dan rivolse un’occhiata al proprio allenatore; lo vide mentre emetteva un profondo sospiro di sollievo. Si, quel bambino aveva cinque anni ed era, senza ombra di dubbio, l’elemento più debole del team avversario. “Sono proprio in una brutta situazione” pensò Dan. Sapeva benissimo, infatti, che se, da battitore qual’era, non avesse toccato una sola palla lanciata da un elemento simile, la sua vergogna e il dissenso di tutti nei suoi confronti sarebbero peggiorati irreparabilmente.
Il piccolo lanciatore si sistemò nella sua posizione ideale, portò il braccio indietro, alzò una gamba e infine scaraventò la palla dritta verso il battitore. Mancata, Dan si era mosso completamente a vuoto. “Ansia da prestazione, ma non è niente. Ho ancora due chance” rifletté il piccolo Humphrey. Seconda battuta, secondo strike; lancio perfettamente conforme al precedente sfiorato di un soffio. Ma sfiorare non era abbastanza; ultima chance. Stesso lancio, ma il bambino avversario stavolta ci mette più grinta e forza, conscio di quanta gioia potesse derivare dal realizzare quel punto. Dan, invece, rimase immobile; terzo strike, eliminato. L’allenatore si portò le mani sul volto, quasi dovesse coprirsi da una vergogna che lui stesso doveva subire. I futuri rampolli della parte superiore di Manhattan che stanziavano nel campo gioirono balzando in aria, mentre i loro genitori applaudirono con quieto contegno.
Dan si era levato il berretto che gli opprimeva la testa cocente e sudata e si era allontanato dritto verso la panchina per recuperare la sua giacca. Non aveva alcuna intenzione di restare lì, a ricevere occhiate di sbigottimento o addirittura disprezzo da parte dei compagni.
«Humphrey, se varchi quella porta scordati di poter tornare» affermò il vecchio allenatore dalla barba incolta. Ma il bambino aprì comunque il vecchio cancello fatto di rete metallica e si allontanò sul sentiero sterrato.
Alison si era alzata rapidamente per raggiungerlo, quando Rufus la prese per un braccio invitandola a rimanere seduta fino al termine della gara, ormai compromessa.
«Non c’è nulla di cui preoccuparsi, Alison. Dan è un ottimo ragazzo, gli ci vorrà poco tempo per smaltire la delusione della partita» affermò Rufus, col tono di chi sa di aver ragione.
«E poi io e papi sappiamo dov’è andato, vero?» concluse sempre puntuale la piccola e sempre gioiosa Jenny.


*
 

A poche centinaia di metri dal campo di gioco, Dan si era apprestato a raggiungere la parte esterna sul lato Est di Central Park. Proprio lì, di fronte ai suoi occhi che sembravano rivelare tutto di quel ragazzo ironico, onesto, di buon cuore e che tendeva a giudicare la gente pur non conoscendola, gli si parò la parte anteriore e monumentale della Constance Billard School o, nel caso che più interessava al ragazzo, del St. Jude.
Era lì che aveva programmato la sua vita, era lì che aveva deciso di fuggire per trovare riparo. Un luogo in cui l’emarginazione sociale - o quanto di più negativo ci potesse essere - non contava secondo il suo modesto parere.
«Impegno, orgoglio e meriti scolastici mi attendono fra le mura di questa scuola, in un futuro non troppo lontano» dichiarò con voce deliziosa e squillante una bambina dai lisci capelli color cioccolato, mantenuti con ordine da un setoso e morbido cerchietto rosso; era in piedi a circa venti metri da lui, mentre esaminava attentamente i successi dei suoi predecessori con sincera malizia nello sguardo.
«Hai ragione, orsacchiotta Blair. Ma, come hai detto tu, in futuro. Adesso c’è il brunch da Lily che ci aspetta» concluse, porgendole una mano, un uomo che senza ombra alcuna di dubbio doveva essere suo padre. I due si allontanarono verso una lucente limousine e poi svanirono lungo la strada.
Impegno, orgoglio e meriti scolastici,già. Dan non sapeva chi fosse quella bambina, ma di certo la pensava come lui.


FINE

  
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