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Autore: suzako    02/08/2011    4 recensioni
La Germania vince la guerra. (Erik/Charles, WWII, AU)
Genere: Drammatico, Guerra, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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1 Settembre 1939: la Germania invade la Polonia, dando inizio guerra.

2 Settembre 1939: Gran Bretagna e Francia dichiarano guerra alla Germania.

10 Maggio 1940: Winston Churchill diventa Primo Ministro.

14 Giugno 1940: Parigi cade

10 Luglio 1040: Inizia la Battaglia d’Inghilterra. La Luftwavve bombarda Londra per 47 notti consecutive.

8 Settembre 1941: Inizia l’assedio di Leningrado.

26 Novembre 1941: Pear Harbor, Hawaii, viene bombardato dagli aerei giapponesi.

8 Dicembre 1941: Gli USA dichiarano guerra al Giappone.

11 Dicembre 1941: Roosevelt, 32° presidente degli USA, muore in seguito all’aggravarsi improvviso della sua poliomielite. Il vicepresidente Harry S Truman ne assume la funzioni.

3 Gennaio 1942: Il presidente Truman dichiara che gli Stati Uniti non prenderanno parte alle operazioni di guerra in Europa.

23 Novembre 1942: La Germania abbandona l’offensiva nei confronti della Russia.

 24 Marzo 1943: Wiston Churchill si ritira dalla carica di Primo Ministro. I motivi e le circostanze rimangono avvolti nel mistero.

12 Luglio 1943: Gli Stati Uniti sganciano “la” bomba su Hiroshima, Nagasaki e Tokyo. Resa del Giappone. Inizio delle trattazioni di pace con la Germania.

15 Settembre 1943: Gli Alleati vengono annientati durante l’Offensiva delle Ardenne.

1 Novembre 1943: L’Inghilterra viene invasa dalle truppe tedesche.

29 Novembre 1943: URSS e Terzo Reich firmano un accordo di pace, dividendosi i territori europei.

24 Dicembre 1943: Viene instaurato un governo nazista in Inghilterra.

31 Gennaio 1943: La Germania vince la guerra.
 

 

Blood and Honour

 

Capitolo 1

 

“Waking Alone”

 
 

Luglio 1940
Westchester, Inghilterra
 

I bombardamenti andavano avanti da giorni.
Non c’era pace nelle città, dove le sirene degli allarmi anti attacco suonavano incessantemente tutte le notti, costringendo la popolazione a rifugiarsi nelle metropolitane e nelle cantine come ratti, pronti a qualsiasi cosa pur di sopravvivere.

Ma non sempre ce la facevano. La gente moriva, tutte le notti.

Anche Londra stava morendo, distrutta pezzo per pezzo dal fuoco tedesco.

Solo nelle campagne si ritrovava una relativa e illusoria pace. I bambini erano stati mandati lì, da soli, perché potessero salvarsi.

Ma perché poi?

I bambini erano completamente inutili nel grande schema delle cose, nella guerra. Non potevano combattere, e non potevano aiutare in alcun modo l’industria: erano un peso che il paese non poteva permettersi, quindi perché tutti ci tenevano tanto a difenderli? Come se ci fosse stato qualcosa per cui valesse la pena sopravvivere.

No, la verità era che gli adulti li odiavano. Li volevano vivi, sì, ma solo per egoismo, e per vederli soffrire. Qualcuno doveva ricordare quella guerra, e le morti, e le bombe, e le grida e chi poteva farlo meglio di un bambino? Sarebbe stato condannati a vivere e ricordare per sempre, mentre gli adulti giacevano soddisfatti nelle loro bare, e le iscrizioni sulle loro tombe sarebbero state di ammonimento, e di disprezzo.

Noi siamo morti

Perché non potevate combattere

Adesso tocca a voi

Buon divertimento.

Era solo un altro modo per liberarsi di loro. Alla fine, si dice che la morte risolva ogni cosa, no?

Su questo rifletteva Charles Xavier, dall’alto dei suoi dodici anni, seduto per terra sul pavimento della cucina. Era notte, e faceva freddo, e sentiva quei rumori che fanno tutte le case grandi, vuote ed isolate nel bel mezzo della notte quando c’è un bambino sveglio, e anche il bambino è vuoto, ed isolato.

Charles si strinse un po’ di più le ginocchia contro il petto, affondando la testa nella flanella del pigiama. Ancora poche ore e sarebbe arrivata l’alba, e con lei Mrs. Ackleton con il resto della servitù, e anche se pulivano casa senza dire una parola almeno non sarebbe stato solo fino all’arrivo del suo tutore.

Rimase così fermo a lungo, e forse si addormentò, ma ad un certo punto un rumore ben distinto gli fece alzare la testa di scatto. Si guardò intorno, strabuzzando gli occhi nella penombra della stanza.

Era sicuro di non aver sentito qualcosa, ma qualcuno.

Si alzò in piedi senza far rumore, ma ciò che vide contro la luce artificiale del frigorifero gli fece scappare un grido di sorpresa.

<< Oh, Tesoro, cosa stai facendo? >>

Charles deglutì nervosamente, incapace di distogliere lo sguardo sua madre, che se ne stava lì con una bottiglia di latte in mano, vestita del suo abito rosso, come se fosse la cosa più naturale del mondo.

Non rispose.

<< Che aspetti, torna a dormire? Su, vai >>

Fu in quel momento che si accorse del tremore nella sua voce, della velocità con cui concludeva le frasi. Aveva paura, almeno quanto lui. Forse di più.

Charles strinse la lebbra e si concentrò profondamente.

Mia madre è morta. Chi sei tu?

La donna indietreggiò con con un sussulto, incapace di togliergli gli occhi di dosso, terrorizzata. Charles fece un passo in avanti.

Dimmi chi sei, o ti costringerò a farlo.

Lentamente la sua pelle incominciò a crepitare, mentre un soffice fremito la percorreva, come di piume. La pelle di sua madre diventò blu, gli occhi gialli come quelli di un gatto, i capelli rosso fiamma.

E davanti ai suoi occhi adesso si trovava una bambina, la più incredibile che avesse mai visto, e lo guardava con curiosità e timore, senza dire niente.

Charles sorrise. Spontaneamente, come non gli succedeva da molto tempo, e anche quella bambina gli sorrise allora, timidamente, quasi incerta.

<< Lo sapevo >> questa volta parlò, incapace di contenere la sua emozione << Lo sapevo che dovevano esserci altri come me! Come ti chiami? >>

<< Raven. Raven Darkholme >>

<< Raven. Io  sono Charles Xavier >>

E le tese una mano. Raven lo guardò tentativamente.

Charles rise e le prese la sua, e la strinse, e gli occhi gialli della sua amica erano enormi e stupiti.

<< Come sei arrivata qui? Dove sono i tuoi genitori? >>

Raven abbassò lo sguardo e smise di sorridere. Charles si rese subito conto del suo errore, ma non lasciò andare la sua mano.

<< Scusami. Non volevo offenderti. Magari più tardi mi racconterai tutto, ma ora hai fame? Vuoi mangiare? Resterai qui, vero? Non ti farò mancare niente, stai tranquilla. E non dovrai più nasconderti o scappare, penserò a tutto io. Ti proteggerò! >>

In un attimo, Raven gli si aggrappò al collo abbracciandolo così stretta che per un attimo gli mancò l’aria. Charles le strinse le mani attorno alla schiena, stringendo più forte che poteva, sentendo la strana consistenza della sua pelle sotto le mani, ruvida e liscia allo stesso tempo. Era più fredda della sua. Ed era reale. Charles ancora non poteva crederci, ma in quel momento seppe che entrambi avevano trovato una casa.

 

Novembre 1946
Oxford, Inghilterra

 

Erano le 7.43 minuti e Charles era in ritardo.

Teoricamente, le lezioni non avrebbero dovuto iniziare prima delle otto in punto.

In realtà chiunque arrivasse dopo le 7.50 veniva ampiamente rimproverato di fronte a tutta la classe e dopo le 8.00 semplicemente non si veniva neanche ammessi in aula.

Di certo non sarebbe stata la prima volta.

Era ormai al suo terzo anno ad Oxford e ancora non aveva trovato una strategia per per svegliarsi in tempo, e detto sinceramente, lui era un genio, quindi evidentemente non c’era speranza. Verso la fine di Ottobre aveva deciso che presto avrebbe comunque avuto il suo diploma, ergo era troppo tardi, ergo non valeva la pena sprecare tempo ed energie ulteriori sulla questione.

Ergo quella mattina sarebbe rimasto chiuso fuori.

Come infatti accadde.

Rimase di fronte alla porta per qualche secondo a riprendere fiato, prima di allontanarsi con un sospiro frustrato. Un’altra mattina sprecata. Raven era al lavoro, sarebbe stata una buona occasione per mettersi a lavorare sulla sua tesi.

O tornare a casa e dormire.

Stava per decidere sul da farsi, decisamente più inclinato verso la seconda opzione, quando si accorse di non essere stato il solo fuori dalla porta, quella mattina.

<< Sean! Sean Cassidy, giusto? >>

Il ragazzo alzò gli occhi e rispose con un eloquente << uh? >>

<< Sono Charles, Charles Xavier. Segui anche tu il corso di Fisica Teorica del Professor Lawrence, vero? >>

Il ragazzo aggrottò leggermente le sopracciglia e lo guardò fissamente per qualche secondo, come se stesse processando la gran quantità d’informazioni che gli erano state inviate.

<< Sì. Sì è così, perché? >>

Charles si passo una mano tra i capelli, passandosi casualmente le dita sulla tempia.

Forse è una spia? Mi hanno beccato. Lo sapevo. Adesso mi chiederà di svuotare le tasche e io sarò fottuto.

<< Nessun motivo. Sono arrivato anche io in ritardo >> offrì Charles con un sorriso che voleva essere rassicurante.

Funzionò. Finalmente anche l’altro sembrò rilassarsi e piegò le labbra in un mezzo sorriso che sembrava più un ghigno.

<< Non una grave perdita, se posso permettermi >>

<< Permesso accordato >> scherzò Charles.

Sean rise, e con una scrollata di spalle disse << Beh, a questo punto tanto vale andare a prendersi una birra, no? >>

Charles scoppiò a ridere, sorpreso.

<< Ma sono le otto del mattino! >>

<< Mi piace incominciare bene la giornata >>

<< Se ci scoprono… >>

<< Diremo che volevamo brindare al nostro Führer  e allo splendore del Terzo Reich, in questa gloriosa mattina. Forza, andiamo >>
 

 

*
 

Erano le dieci e mezza passate quella sera, quando Charles finalmente tornò a casa. Le chiavi erano particolarmente scivolose e la maniglia sembrava aver cambiato locazione. Posò una mano sul legno liscio e massiccio per tenersi in equilibrio: il legno aveva dei pensieri? Chissà se avrebbe potuto leggere il legno. Sarebbe stato un Legnepate, che però suonava un po’ troppo come lagnarsi. Ma quindi le due parole avevano una radice semantica in comune, il che voleva dire…

La porta si aprì improvvisamente e Charles cadde a terra disteso. Alzò gli occhi, e riconobbe subito le ginocchia di sua sorella, e dal modo in cui stavano perfettamente tese e allineate capì che doveva essere nervosa.

<< Charles. >>

A Charles piacevano un sacco gli eufemismi.

<< Ciao Raven. Bella vista >> salutò con un ghigno.

Raven lo fissò perplessa per qualche secondo prima di afferrare il concetto e arrossire furiosamente. Fece un brusco passo indietro stringendosi i lembi dell’ampia gonna a palloncino, come per assicurarsi che fosse ancora lì.

<< Sei un idiota! >> sibilò irritata.

<< Hai appena interrotto un’importante scoperta scientifica >>

<< Non ho la benché minima idea di cosa tu stia parlando >>

<< Neanche io. Mi aiuti ad alzarmi? >>

Con un sospiro, la ragazza afferrò la mano che le veniva porta e senza troppo sforzo tirò Charles sui due piedi. Non durò molto, perché nel momento esatto in cui le suole delle sue scarpe toccarono terra, lui le crollò addosso.

<< Charles! >>

<< Raven! >>

<< Sei ubriaco >>

<< Hai intenzione di dirmi qualcosa che non so? >>

<< Il nuovo film di Leni Riefenstahl dura esattamente sessantatré minuti e undici secondi >>

<< Grazie, me ne ricorderò >>

<< Sempre un piacere >>

Pausa

<< Charles, credo che tu stia facendo cose decisamente poco appropriate alla mia spalla >>

Raven cercò di scrollare via il fratello, spingendolo tentativamente per le spalle, ma con poco successo. Charles Xavier sembrava perfettamente contento con la sua testa affondata nella spalla di Raven, le labbra pressate nell’incavo del suo collo.

Raven non sapeva se baciarlo o prenderlo a pugni.

<< Mmh… Amy>>

A ripensarci un paio di calci nelle costole sarebbero stati ancora meglio.
 

 

*

 

Raven non era una stupida.

Certo, non era un genio della scienza e non era entrata ad Oxford all’età di quindici anni, non sapeva parlare correttamente cinque lingue, non era talmente brillante da riuscire a prendere il massimo dei voti in un esame di una materia completamente sconosciuta perché aveva sbagliato aulae nemmeno poteva leggere nella mente della persone.

Studiava da cameriera, non perché non fosse in grado di applicare normalmente ad un’università, ma perché non sarebbe stata debitrice di Charles più di quanto non fosse. Parlava solo inglese e tedesco come praticamente chiunque su quell’isola (ma il suo russo era in costante miglioramento, non che potesse andare in giro a vantarsene), e metà della sua vita l’aveva passata in mezzo alla strada.

Diciamo che se la sapeva cavare.

Anche tralasciando il dettaglio di essere una mutaforma.

No, Raven non era una sciocca. E soprattutto, non era una codarda.

Raven era stanca di nascondersi. Voleva combattere.

Ma nell’Inghilterra nazista degli anni quaranta, quello non era semplicemente un desiderio, ma una necessità, perlomeno per tutti quelli come lei.

Tutti, tranne Charles.

<< Che stai facendo? >>

Raven accese la luce della cucina scoprendo Charles, in pigiama e vestaglia, appeso alla portiera del frigorifero, una luce fredda che gli illuminava metà del volto, rendendo il blu dei suoi occhi asettico, quasi innaturale.

<< Uh. Avevo fame >>

Lo vide strascicare i piedi fino al tavolo, barattolo di marmellata e pane e in mano. Li posò sul tavolo e rimase a fissarli intensamente.

<< Raven >> mormorò con voce roca.

<< Dimmi >> rispose lei, mite.

<< Non ho preso il coltello >>

Raven sentì le mani prudergli. Lo avrebbe sgozzato,altro che.

Aprì un cassetto, prese il primo coltello mezzo arrugginito che gli capitò sotto mano, e lo sbatté sul tavolo con forza eccessiva. Charles sussultò al rumore, evidentemente nel bel mezzo di un violento post-sbornia.

<< Sono quasi le due, e domani hai lezione. Che ci fai ancora sveglio? >>

<< Te l’ho detto. Ho fame >>

<< Già >> concluse seccamente Raven, e si girò, pronta ad alzarsi.

<< Scusami per oggi >>

Charles aveva parlato inaspettatamente, con tono sommesso e senza guardarla in faccia. Ma erano comunque delle scuse, e sincere.

<< Vorrei solo che tu mi dicessi cos’è successo, invece di trattarmi come un’estranea. A parte quando ti fa comodo, ovviamente >>

Charles si morse nervosamente il labbro, come ponderando la verità delle sue parole. Raven si godette il momento di trionfo, sapendo che non sarebbe durato a lungo. Suo fratello sapeva esattamente cosa dire e quando dirlo, e non mancava mai di farlo.

<< Sono arrivato in ritardo a lezione, non mi hanno fatto entrare, e sono andato ad ubriacarmi con Cassidy. Tutto qui >>

Raven non offrì risposta.

Con un sospiro, Charles si passò una mano fra i capelli e andò avanti.

<< Lo so che non è questo il punto, Raven. Lo so che ci sono cose di cui dovremmo parlare, ma penso che tu non possa biasimarmi se non mi ritengo particolarmente entusiasta all’idea. Odio quando litighiamo >> mormorò Charles, sorridendo al barattolo di marmellata d’arancia.

E tu sai esattamente quando litigheremo, avrebbe voluto rispondere Raven, ma si bloccò.

<< Charles. Guardami in faccia >>

Il ragazzo alzò gli occhi di scatto, ma li riabbassò subito.

Raven da sotto il tavolo afferrò i lembi della propria vestaglia in una morsa. Calma. Doveva stare calma. Non voleva arrabbiarsi con Charles, non questa sera.

Oh, al diavolo.

<< Ti faccio schifo, non è così? Non sono abbastanza umana e conforme per i tuoi gusti, non è vero? Perché è quello che vuoi adesso, no? Essere come tutti gli altri >> sibilò a denti stretti, incapace di contenere la rabbia << non sai fare altro che nasconderti, e giocare al bravo ragazzo e al bravo fratello e al bravo nazista, sei talmente bravo che mi disgusti! >>

<< Raven, abbassa la voce, ti prego >>

<< Abbassa la voce? Abbassa la voce? >> la ragazza lo guardava incredula.

<< Non è affatto come dici tu, e lo sai… >>

<< No, non lo so! Ti dirò la verità, Charles, sei talmente un bravo attore che hai ingannato anche me. Non so più cosa pensi, quando fingi e quando è reale. Non so più chi sei. Io non so più chi sei >>

Charles si alzò subito e andò verso di lei, poggiando tentativamente una mano sulla sua spalla.

<< Sono sempre io. Non è cambiato niente in me. Tu sei mia sorella, nulla potrà cambiarlo. Le circostanze sono diventate spiacevoli, lo ammetto, ma puoi darmene la colpa? Abbiamo perso la guerra, e dobbiamo affrontare le cose così come stanno. Tutto quello che faccio, Raven, è per la tua tranquillità. Io voglio che tu stia bene, voglio che tu sia felice >>

Raven si coprì il volto con le mani. Le tremava il respiro.

<< Non sarò mai felice finché dovrò nascondermi >>

<< Lo so >>

<< No, tu non lo sai! Tu sembri umano, almeno. E io? Sembro un mostro. Nessuno mi amerà mai o mi vorrà bene per come sono realmente, tutti si affezionano alla ragazzina bionda e sorridente, ma non sono io Charles, non sono io! Tu sei l’unico, sei l’unico eppure… >> scoppiò in lacrime, incapace di andare oltre. Charles la strinse, senza dire nulla per molto tempo, aspettandosi che i suoi singhiozzi si calmassero.

<< Mi dispiace, Raven. Mi dispiace >>

Non riuscì a dirle altro.

La mattina dopo, Charles aprì gli occhi alle sette in punto, senza sapere perché.
Non aveva neanche puntato la sveglia. 

C’era un’aria fredda, un vento gelido che sembrava provenire da lontano. Si alzò tentativamente dal letto, cercando di ricostruire gli eventi della notte prima, e camminò fino alla cucina.
La marmellata era sul tavolo, ancora aperta, mentre del pane rimanevano solo briciole.

Raven. Dov’era Raven?

<< Raven? >> incominciò a chiamarla a gran voce, improvvisamente preoccupato. Era sciocco, sua sorella era probabilmente ancora addormentata, e si sarebbe arrabbiata terribilmente se lui l’avesse svegliata prima.

Arrivò di fronte alla porta della camera a grandi passi, e la spalancò.

Era vuota.

Il letto rifatto, non mancava nulla dalle mensole. L’armadio era pieno.

Alle sue spalle, la porta sbatté, spinta dalla corrente.

Con un brivido, Charles tornò verso il corridoio.

La porta di casa era aperta. Raven se ne era andata.

Solo in quel momento notò un pezzo di carta piegato e lasciato per terra. Si chinò a raccoglierlo, e quando lo aprì riconobbe subito la scrittura familiare di sua sorella. Erano solo due parole.

Mi dispiace.





 

 

 

Waking Alone
At the hour when we are
Trembling with tenderness
Lips that would kiss
Form prayers to a broken stone. 

(T. S. Eliot, The Hollow Men)


 

  
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