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Autore: harinezumi    02/08/2011    3 recensioni
Avrebbe dovuto immaginarlo che sarebbe finita così.
Ma non era stata del tutto colpa sua. Proprio mentre si apprestava a cominciare a prepararsi, da alcune felpe dentro l’armadio in cui frugava alla ricerca della cravatta era caduta una rivista porno, che qualcuno – non lui di certo– doveva aver infilato al sicuro tra cose che sapeva che non avrebbe mai messo.
Non che ad Arthur dispiacesse averla trovata.
{perchè nutro un insano amore nei confronti di questa famiglia.
Genere: Commedia, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Canada/Matthew Williams, Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland, Polonia/Feliks Łukasiewicz
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: It’s complicated
Rating: Verde
Genere: Generale, Commedia
Parole: 3997 (troppe)
Personaggi: Francia (Francis Bonnefoy), Inghilterra (Arthur Kirkland), America (Alfred F. Jones), Canada (Matthew Williams), Polonia (Feliks Łukasiewicz)
Avvertimenti: AU, One-shot, Shonen-ai
Disclaimer: tutti i personaggi di Hetalia appartengono ad Hidekazu Himaruya
Note dell’autrice: nulla di che, eccetto il fatto che amo le lingue di ciascun personaggio e le ho sottolineate in corsivo, perciò fate finta che tutti tra loro parlino una meravigliosa lingua universale inesistente u.u

Un bel giorno non avevo nulla da fare e ho partorito quest’idiozia; il fatto che abbia continuato a rimaneggiarla perché a mio dire mi era venuta niente male credo l’abbia peggiorata parecchio…
In ogni caso vorrei davvero che mi deste dei pareri su com’è uscita e su come magari migliorarmi :) grazie!

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It’s complicated

 


Avrebbe dovuto immaginarlo che sarebbe finita così.
Ma non era stata del tutto colpa sua. Proprio mentre si apprestava a cominciare a prepararsi, da alcune felpe dentro l’armadio in cui frugava alla ricerca della cravatta era caduta una rivista porno, che qualcuno – non lui di certo– doveva aver infilato al sicuro tra cose che sapeva che non avrebbe mai messo.
Non che ad Arthur dispiacesse averla trovata. Perciò, da quel momento in poi, se l’era presa grandemente comoda, specie quando l’aveva aperta e vi aveva trovato alcune delle sue modelle preferite a posare; diciamo pure che aveva lasciato che un’ora buona trascorresse da quando aveva trovato quella rivista, senza troppi rimorsi, spiaggiato comodamente sul suo letto. Il problema si presentò quando, chiuso finalmente il giornale, guardò l’ora e sbiancò.
Erano le sette e mezza. Le fottutissime, dannatissime, sette e mezza. Con il traffico che c’era a Londra, avrebbero dovuto come minimo partire da mezz’ora per arrivare in tempo.
Snocciolando tutto il suo repertorio di imprecazioni, rigorosamente a bassa voce (da un metro di distanza si sarebbe potuta sentire soltanto una cosa come: “blastitfuckyoudamnassholebastardandgotothebloodyhell”, cioè insulti rigorosamente rivolti a nessuno), si spogliò in un istante dagli abiti “casalinghi” e afferrò i pantaloni del completo che giaceva indisturbato sopra ad una sedia dove stava posato da ore, indossandoli in fretta.
Neanche aveva infilato la seconda gamba che sentì uno strappo piuttosto forte, e con un gemito li levò, osservando pallido il buco di diversi centimetri che aveva fatto sul davanti, giusto sul cavallo.
«Fuck me…» sibilò, gettandoli per terra in un moto di disperazione e infilandosi almeno la camicia, che abbottonò in fretta (saltando delle asole), mettendo la giacca (inizialmente al contrario) e la cravatta in pochi secondi. Si guardò un paio di secondi allo specchio dentro all’armadio, notando con disperazione che i suoi capelli se ne stavano praticamente sparati in aria anche dopo che li aveva asciugati con cura uscito dalla doccia. Alzò le folte sopracciglia, che nonostante la stazza per lui non costituivano un problema più grande dei capelli. Forse se lo meritava davvero il soprannome di “bruco biondo”, anche se era ben lungi dall’ammetterlo.
«Alfred! Dannazione, spero che tu sia pronto! Stiamo facendo terribilmente tardi!»  gridò uscendo dalla sua stanza in corridoio, aggiustandosi il nodo della cravatta e cercando di appiattirsi i capelli con un paio di manate, senza curarsi di essere ancora in mutande. «Alfred!» esclamò, disperato, quando non sentì risposta provenire da nessuna parte.
La porta del bagno, comunque, era ancora chiusa dall’ultima volta che aveva controllato (sì, prima di trovare la rivista porno), e gli venne un bruttissimo sospetto. Era grave che suo figlio di quindici anni se ne stesse chiuso in bagno più di un’ora per prepararsi? Probabilmente sì, ma non aveva il tempo di preoccuparsi di questo.
Spazientito, aprì la porta senza pensarci, dopo aver bussato, aspettato invano una risposta e aver semplicemente sentito della musica arrivare dal bagno, anche piuttosto forte. Avrebbe sicuramente dovuto riprovare a chiamare, perché lo spettacolo che si trovò davanti lo fece impallidire.
Anche Alfred era in mutande, a petto nudo, e stava cantando in falsetto Bad Romance di Lady Gaga (canzone che ovviamente Arthur non identificò) allo specchio, munito di bagnoschiuma come microfono, con la radio ad un volume spropositatamente alto. Si era persino ingellato ulteriormente sulla testa il ciuffo biondo che aveva per natura.
Appena lo vide, si fermò improvvisamente abbassando la boccetta di sapone e spense la musica, e un silenzio di tomba calò tra di loro, mentre Arthur dentro di sé si sentiva iperventilare.
«C-che diav…»
«No, papà, non è come pensi! I-io…» cominciò Alfred, improvvisamente del tutto rosso in viso.
«Non m’interessa!» esclamò Arthur allora, esasperato, decidendo che avrebbe ignorato la cosa per l’incolumità di tutti loro. «Tu! Perché accidenti non sei vestito?!» Si avvicinò a lui, afferrando il bagnoschiuma dalle sue mani e gettandolo dentro la vasca vuota dietro di sé, senza pensarci. «Dove diavolo è il tuo completo?»
«Dove l’ha messo papà, sul letto. Ah! La camicia l’ho scordata in lavatrice…»
«Lavatrice?!»
«L’ho macchiata di pizza, l’ho lavata» rispose Alfred con uno sbuffo e aria superiore, mentre Arthur recuperava gli occhiali che aveva dimenticato sul bordo della vasca e glieli metteva, ignorando la sua smorfia indispettita. «Non ho due anni…»
«What the…! Alfred! L’aveva scelta… blaterava che eravamo tutti coordinati…» gemette però il padre, prendendolo per mano e trascinandolo all’istante fuori dal bagno. «Sai usare la lavatrice?!»
«No! Matty ha detto che andava bene regolarla a settanta gradi… ma dato che sono troppo intelligente per starlo a sentire, l’ho messa al massimo per sicurezza!»
«E tu hai anche chiesto a Matty?! Oh my… Alfred» esclamò Arthur, bloccandosi all’ingresso della stanza del figlio, cercando di prendere in mano la situazione. «Ora tu fila a metterti i pantaloni, prendi una delle camice di papà, bianca, controlli che ti stia… e lo fai in dieci minuti, capito?»
«Ma… papà, tu sei in mutande…» osservò il figlio, abbassando lo sguardo confuso e guardandogli le gambe nude come se fossero appena apparse sotto il suo naso.
«S-sparisci!» sbottò Arthur, avvampando e spingendolo dentro la sua stanza, nonostante Alfred fosse già a quell’età un armadio decisamente più alto di lui.
Tornò in camera, ringraziando la sua buona stella di avere il cestino da cucito sotto il letto e cominciando a rammendarsi i pantaloni, bucandosi le dita più volte con l’ago per la fretta, nonostante fosse piuttosto bravo a cucire.
Con un sospiro di sollievo, riuscì a rattoppare lo strappo in pochi minuti, ma solo quando stava per infilare i pantaloni si rese conto di averli aggiustati con del filo rosso. Impallidì, cercando di non cadere nel panico, indossandoli comunque dopo un paio di secondi di sconforto e constatando che fortunatamente la cosa non si notava se indossava la giacca, essendo un po’ lunga per lui e lo strappo abbastanza in alto sul cavallo.
Aveva appena realizzato quella straordinaria notizia, che sentì il telefono in salotto suonare, e si affrettò ad finire di infilare i mocassini per correre a rispondere. Ovviamente, non fece nemmeno in tempo ad alzare la cornetta che la segreteria scattò.
«Sono le otto meno un quarto, Arthur… ahuit heures moins le quart!» cinguettò una voce con accento spiccatamente francese, in tono gentile quanto falso. «Spero vivamente che nessuno abbia risposto al telefono perché siete già partiti! Se invece per caso siete ancora a casa e non siete pronti entro cinque minuti… giuro che stanotte quando torniamo vi faccio dormire fuori, possibilmente nella cuccia del cane, tutti e tre! E in quanto a te, spero che ricordi che ho ancora il frustino della luna di miele e non ho paura di usar…»
Un lungo, tranquillizzante, “bip” interruppe il messaggio della segreteria, facendo rabbrividire Arthur di sollievo. Si stava appena congratulando con sé stesso per essere riuscito a sfuggire alla furia del suo in quel momento decisamente non-mansueto-marito non rispondendo al telefono, che si ricordò di essere comunque nei guai. Se non li avesse visti apparire alla sua mostra entro pochi minuti gli avrebbe come minimo spezzato le gambe.
«Alfred!» gridò. «A rapporto!»
Uno svogliato ragazzino lo raggiunse dal corridoio, imbronciato e senza il nodo alla cravatta; per il resto, sembrava essersi vestito quantomeno decentemente.
«Oh, andiamo, Alfred, ti ho insegnato come si fa…» gemette Arthur, cominciando a fargli il nodo alla cravatta con gesti così veloci che per poco non lo strangolò nello stringerlo. «Dovresti imparare dal tuo gemello, siete così uguali eppure lui è così beneducato… Oh, God, Matty!» Giustamente, gli mancava soltanto di dimenticarsi nella maniera più totale di controllare che uno dei suoi due figli si preparasse. «Matty, vieni, dobbiamo and…» cominciò a gridare, ma venne interrotto da un contrito schiarirsi di voce.
«Ehm, papa» mormorò timidamente il ragazzino, spuntando dalla cucina, la parte opposta alla quale aveva sperato di vederlo arrivare Arthur. Aveva tutti i capelli biondi impiastricciati di quello che sembrava sciroppo, persino il suo ciuffo arricciato, e indossava sopra il suo completo un grembiule chiaramente non suo, dato che c’era stampata una frase decisamente ambigua in un francese svolazzante.
Arthur non ebbe la forza di prendersela. Lo guardò soltanto, allibito.
«Je suis désolé papa…» balbettò Matthew, con un accento decisamente simile a quello del padre. «Erano finiti i pancake, volevo soltanto fare uno spuntino prima di partire… m-mi sono messo il grembiule per non s-sporcarmi… m-ma qualcuno ha messo lo sciroppo d’acero sopra il frigo con il tappo aperto…»
Suo padre lanciò un’occhiata furente ad Alfred, che alzò le spalle indietreggiando e facendo debitamente finta di niente. Era possibile che fosse stato lui a cercare di fare uno scherzo a Matthew, ma non era certo colpa sua se quello scemo era andato a cascarci proprio quella sera e si era rovesciato un sacco di robaccia appiccicosa addosso.
«Vai… vai a lavarti i capelli. È l’unico modo. Alfred, aiutalo!» mormorò Arthur dopo una piccola pausa, senza forze, lasciandosi cadere sul divano mentre i gemelli scomparivano all’istante dalla sua vista. «E non rovinate per nessun motivo i vestiti!» gli urlò dietro, tanto per essere sicuro che si contenessero.
Francis non poteva, non poteva biasimarlo per averci provato.

***

Entrarono in fretta alla galleria d’arte, Arthur cercando con lo sguardo e un certo terrore il francese intorno a sé fin da subito, che fortunatamente non si notava da nessuna parte.
Un’ora di ritardo. Avevano un’ora di ritardo. Sufficiente a scavare la fossa a tutti loro, considerando tutto il tempo che Francis aveva impiegato per inaugurare finalmente un’intera mostra con i suoi dipinti, per di più in centro a Londra e non in periferia. L’intera galleria era prenotata interamente per lui e c’era davvero parecchia gente, tra cui probabilmente anche diversi critici di un certo livello.
«Alfred, Matthew…» li chiamò stancamente Arthur accanto a sé, prendendo senza pensarci il primo drink che gli passò davanti sul vassoio di un cameriere. Bere era l’unico modo che conosceva per sfuggire all’agitazione che gli faceva letteralmente mancare il fiato al momento, nonostante all’esterno sembrasse quasi annoiato. «Fate i bravi. Tu, Alfred, stai direttamente zitto, anzi… io vado a cercare vostro padre».
«M-mon papa…» balbettò Matthew, alzando la mano e arrossendo.
«Mh? Ah, se lo incontrate prima voi, fate finta di essere arrivati perfettamente in orario, mi raccomando» aggiunse Arthur senza lasciarlo finire, con un sospiro, portando alle labbra il drink.
«Vraiment? Ammirevole» gli sussurrò una voce suadente all’orecchio, per la precisione a pochi centimetri dal suo orecchio. Il che gli fece anche sputare quello che aveva appena bevuto di nuovo nel calice, tossendo.
Si voltò verso Francis, arrossendo all’istante, mentre si chiedeva ancora quello che era palese, ovvero se l’avesse sentito o meno parlare.
«Bonsoir, mon cher» lo salutò quello con un sorriso smagliante e tranquillo, lanciando un’occhiata anche ai propri figli alle sue spalle.
Era decisamente impeccabile. La rosa infilata nel taschino e la cravatta rossa gli davano un aspetto decisamente sensuale, e il fatto che si fosse legato i capelli biondi di solito leggermente lunghi sulle spalle non aiutò Arthur ad assumere un’espressione meno inebetita; vedere quella barba tenuta appena accennata sul mento finalmente curata e senza le macchie di colore che l’avevano abitata fino alla fine dei preparativi per la mostra e quel sorriso dolcemente accennato sulle sue labbra, gli aveva fatto venire un istantaneo bisogno di fare sesso con lui, senza mezzi termini. Era maledettamente sexy anche quando il suo intento era terrorizzarlo, ed era un’orribile verità.
Comunque, Francis lo degnò appena di uno sguardo, e continuò senza lasciare che gli rispondesse al saluto, approfittandone del fatto che Arthur lo fissava con un’espressione beota in volto. «Uhm, Matthieu, hai una macchia di sciroppo d’acero sulla spalla. Alfie, la tua cravatta è storta e… hai la mia camicia? Quanto a te, Arthur…» mormorò appena con assoluta calma, ritornando su di lui e abbassando direttamente gli occhi sotto alla sua cintura. «Perché hai rammendato i pantaloni con un filo rosso?»
I tre rimasero interdetti, senza sapere che rispondere; solo Alfred, dopo un po’, si guardò la cravatta, scoppiando in una risata abbastanza rumorosa che attirò parecchi sguardi su di lui. «Ma guarda, papà! L’hai messa storta davvero!»
«Già, Alfie» rise Francis, sorpassando Arthur come se non esistesse, pacato in maniera surreale. «Vedi, laggiù c’è la toilette… perché tu e Matthieu non andate a sistemarvi?»
I ragazzini si dileguarono senza dire una parola, perché il sorriso che Francis gli aveva lanciato era inquietante e l’atmosfera decisamente pesante; in più, persino Arthur si era ghiacciato sul posto, non beveva nemmeno. Certo, quando si ricordò di avere dell’alcol in mano, lo scolò tutto ad un fiato, assumendo la sua migliore espressione di contrito pentimento mentre Francis si voltava verso di lui.
«Siete in un ritardo mostruoso e imperdonabile» osservò quello, senza battere ciglio.
«… lo so».
«Almeno c’è un plausibile motivo?»
«… è complicato».
«Mi hanno già presentato. Ma ho preteso di rimandare il mio discorso al pubblico perché vi volevo presenti… dato che non siete arrivati all’ora prevista. Ho dovuto aprire la mostra. Dimmi, tu non ti saresti sentito leggermente idiota al posto mio?»
«… sì».
«Hai intenzione di farmi quella faccia finché non ti perdono?»
«… sì».
Francis sospirò, avvicinandosi per baciargli la fronte e distogliendo lo sguardo, chiamando con uno schiocco di dita un cameriere e procurando altro champagne ad entrambi. «Sai una cosa? Non m’interessa. È una serata speciale, non voglio litigare» mormorò alla fine, fingendo di non notare che Arthur aveva di nuovo bevuto tutto in un sorso non appena aveva avuto il secondo calice in mano, con l’espressione di un condannato a morte.
«S-sei sicuro?» balbettò quando lo sentì, alzando gli occhi sui suoi, sorpreso.
«Oui, abbastanza. So che hai già visto tutti questi lavori, ma… facciamo un giro, vuoi?»
Arthur annuì, sollevato, lasciandosi persino guidare da una mano dell’altro su un fianco, dando uno sguardo alla sala e notando dipinti che ormai conosceva a memoria; in realtà era impossibile che Francis non glieli mostrasse appena finiti, tutto sporco di colore nonostante il grembiule e con aria vagamente isterica e preoccupata, sempre incerto sulla riuscita di un suo lavoro o meno. Sorrise, riflettendo sul fatto che quasi tutta la sicurezza che l’altro aveva sulla propria arte derivava da un suo “mi piace”.
«Perché non sei arrabbiato?» domandò alla fine, senza riuscire a resistere, guardandolo di sottecchi mentre stavano davanti all’ennesima natura morta di rose.
Francis ricambiò il suo sguardo, sfoderando un sorriso sfavillante quanto preoccupante; non una ruga di rabbia gli era comparsa sul volto da quando si erano incontrati, però continuava ad emanare un’aria inquietante. «Perché avevo già previsto che non saresti riuscito ad arrivare qui per le otto. E mi sono già vendicato».
Arthur sapeva che avrebbe dovuto preoccuparsi di quell’affermazione, ma l’impatto con la rivelazione fu soltanto ulteriore curiosità, mentre lo fissava confuso, senza capire. L’altro non parlò, si limitò a trascinarlo accanto al piccolo palco che stava al centro della sala, con tanto di microfono, dopo appena un piccolo giro della galleria. Lì, seduto sul piccolo gradino che lo rialzava, stava l’agente di Francis.
Tutti lo ritenevano un tipo eccentrico e poco idoneo per gli affari, in più si aveva il forte sospetto che fosse Toris, il suo assistente, a svolgere effettivamente tutto il lavoro. Ad Arthur, poi, non piacevano particolarmente né l’uno né l’altro, e aveva sempre criticato la scelta di Francis di affidarsi ad un agente così poco serio e credibile. Ovviamente quella sera gli sfoderò comunque il migliore dei suoi sorrisi (ovvero alzò lievemente un lembo delle labbra), dato che si sentiva ancora in colpa e non voleva essere scortese.
«Francis! Perché non mi hai avvertito che è arrivato?» esclamò il biondino, rimanendo comunque comodo sul suo gradino a gambe accavallate, guardandoli con un sorriso ebete anche se il suo tono avrebbe dovuto essere irritato. «Cioè, avremmo cominciato subito!»
«Scusa Feliks… puoi presentarmi, adesso, no?» sorrise Francis, lasciando il fianco di Arthur per salire sul palco.
«Tipo, cioè penso sia meglio non aspettare ancora» commentò Feliks, ricambiando smagliante il sorriso e alzandosi in piedi. Arthur notò con un brivido che portava una cravatta rosa confetto anche se inizialmente il suo completo gli era sembrato sobrio (una rarità nel suo caso; lo aveva visto persino vestito da donna quando ogni tanto passava per lo studio di Francis).
Comunque, l’inglese preferì rimanere inchiodato giù dal palco, anche perché dopo quell’ultima frase enigmatica che gli aveva rivolto Francis aveva smesso di prestargli attenzioni.
Feliks chiamò al microfono gli invitati a raccogliersi intorno al piccolo palco, ovviamente con un numero spropositato di “cioè” e “tipo”, tanto che alla fine del suo breve discorso di presentazione Arthur aveva i brividi. Si concentrò sulla figura di Francis tanto per non pensarci, anche se pensò bene di non dare a vedere quanto fosse assorto dalla sua figura.
Si ritrovò comunque a sorridere appena quando prese la parola, così sicuro di sé ed elegante come al solito, come se non avesse mai fatto altro nella vita. Eppure, Arthur sapeva che soffriva vagamente di panico da palcoscenico e ripeteva i suoi discorsi milioni di volte per non sbagliare; la sua era semplicemente tutta scena, tutta scena ben costruita.
«Vi ringrazio di essere venuti questa sera» esordì Francis, con un piccolo inchino del capo. «Il tema della mostra è la Francia, da dove provengo io, come ben sapete, ma vi potrete trovare anche segni evidenti dell’amore che nutro per la mia famiglia londinese». E qui, fece una piccola pausa, lanciando un’occhiata talmente carica d’affetto ad Arthur che quello si costrinse ad abbassare lo sguardo per non rischiare che il volto gli andasse a fuoco davanti a lui. «Quando sono arrivato qui, non avevo un soldo e, come mi disse un ragazzo inglese che conobbi poco dopo, “avevo la testa imbottita da una ridicola fede nell’amore”. Ebbene voglio che lui sappia che è ancora così. Tutto l’amore della mia vita, però, si è concentrato soltanto su di lui… e sulla famiglia che abbiamo potuto creare insieme».
Francis fece un’altra pausa, ma stavolta Arthur si rese conto, tornando a puntare gli occhi sui suoi, che non era ad effetto. Desiderava che lui riflettesse su quello che aveva appena detto, e purtroppo Arthur si ritrovò a farlo, deglutendo e desiderando scomparire sotto terra in quell’istante. Perché ogni cosa che Francis faceva o diceva doveva trasformarsi in una dichiarazione d’amore nei suoi confronti? Forse per compensare tutte le volte che lui non aveva ricambiato.
«Credo tuttavia che, anche se la pensavamo diversamente, lui avesse fede in me e che credesse in quello a cui credevo, perché mi diede le sterline necessarie per cominciare a dipingere, e una casa dove vivere con lui… non lo fece per pietà, ma perché, sue testuali parole, i miei quadri gli davano l’impressione di poter comprendere quello che mi passava per la testa, e forse non era tanto male». Francis sorrise. Ora fissava in fondo alla sala, ma Arthur sentiva ancora i suoi occhi addosso. «Pensava sarebbe stato stupendo se anche le altre persone avessero potuto capire qualcosa di bello come l’amore. È soltanto grazie a lui se a tutti voi oggi ho potuto mostrare tutto ciò. E a lui dedico il pezzo più importante della mia intera opera».
Si separò dal microfono, incurante del fatto che Arthur lo guardava agitato e imbarazzato, sentendosi gli occhi di tutti addosso, non più solo i suoi; eppure, la sua attenzione venne presto attratta dal quadro coperto appeso al muro a cui Francis stava per togliere il telo che vi stava appoggiato. Notò che era parecchio grande, uno dei più grandi che l’altro avesse mai dipinto.
Fu appena lo intravide sotto il velo che veniva tolto che Arthur capì come l’altro si era voluto vendicare, e sbiancò all’istante. Non dovette nemmeno chiedere dell’alcol, qualcuno (probabilmente Feliks, quell’idiota) gli mise in mano un altro calice colmo, mentre era incapace di distogliere lo sguardo da quel quadro.
Ritratto. Era un suo ritratto. Un suo ritratto completamente nudo. Il fatto che, come aveva cominciato a mormorare la gente intorno a lui applaudendo anche leggermente, ogni dettaglio fosse rappresentato con un realismo quasi toccante nonostante l’atmosfera eterea, la testa reclinata sul cuscino, la posizione del corpo leggermente rannicchiata, le sue dannatissime regioni vitali completamente in mostra, non lo lusingava affatto, semmai gli dava l’orribile, bruciante, consapevolezza di una cosa: era stato disegnato e progettato dal vivo, mentre dormiva.
Quando si voltò, come in trance, a guardare al fianco del quadro, vide che non c’era nessuno. Il bastardo francese si era completamente dileguato, così come era arrivato. Stare imbambolato a fissare meglio il dipinto, oltre a farlo vergognare profondamente di essere mai nato, non riuscì a risollevarlo un granché, dato che l’idiota aveva cambiato pochissimi particolari del suo corpo, ed era una fortuna che nessuno lo stesse ancora additando.
A maggior ragione, appena si fu ripreso, si eclissò a sua volta, poggiandosi alla prima parete che trovò libera e cercando di riprendere fiato (ingurgitare lo champagne aiutò parecchio).
La cosa peggiore di tutte, che gli fece salire le lacrime agli occhi per la rabbia (perché no, lui non poteva essersi commosso), era che, come ogni volta, era riuscito a comprendere subito i sentimenti di Francis attraverso la sua arte; la sua umiliazione, per l’altro, era semplicemente un mezzo per fargli capire il modo in cui lo vedeva. Angelico, dolce, luminoso ed etereo, tutte cose che solo un idiota come Francis avrebbe potuto vedere in lui.
Tutte cose che non avevano senso, considerando che Arthur si riteneva la persona più imperfetta del pianeta, e non comprendeva il motivo per cui Francis pensasse di lui tutt’altro. Una cosa era certa: per quanto in quel momento lo amasse come non mai (sentimento fastidiosamente palesato dal fatto che il motivo per cui il cuore stava cercando di uscirgli dal petto non era agitazione), l’avrebbe ammazzato a mani nude a vista.
«Q-quel… pezzo di…» sibilò, senza fiato, facendo saettare gli occhi da una parte all’alta della sala, in cerca dello sciagurato.
Purtroppo, l’unica cosa che riuscì a notare furono i suoi figli che, usciti dal bagno, si avvicinavano chiacchierando allegramente al dipinto sul palco.

***

Francis prende in mano la matita e comincia a delineare i contorni del suo viso.
Ogni volta pensa di conoscerlo a memoria e ogni volta, disegnandolo quando l’altro è distratto, principalmente, si rende conto che nella realtà l’aspetto di Arthur riesce sempre a colpirlo comunque nella sua rude bellezza. Quella mattina, svegliandosi, ha trovato accanto a sé una vera e propria visione, e ovviamente non riesce a starsene fermo senza ritrarla; tanto più che è una vera fortuna riuscire a sorprendere l’altro mentre dorme in certe posizioni, totalmente nudo poi.
Sposta infastidito le manette di cui hanno ampiamente usufruito quella notte, dato che i ragazzi si sono volatilizzati per tutta la settimana in campeggio, gettandole a terra e sistemandosi meglio sul letto a gambe incrociate, stando bene attento a non muoversi più dello stretto necessario. Arthur non ha il sonno pesante; sbava e parla quando dorme (di solito blatera qualcosa sui pirati), ma può anche annusare aria di fregatura e svegliarsi in pochi secondi. È anche sorprendentemente più violento del solito in quei momenti.
Francis cerca di non premere nemmeno troppo la matita sul foglio, sussultando spaventato quando l’altro si passa una mano sulla faccia e per un attimo torna il tipo imbronciato che è sempre.
«Francis, I’ll kill you…» biascica, prima di tornare immobile nella stessa posizione di prima, i lineamenti del volto nuovamente distesi.
Il francese sorride. Se c’è qualcosa che ama di Arthur quando dorme (a parte il fatto di poterlo circuire senza subire danni fisici notevoli), è la sua espressione beata. Lui probabilmente non se ne rende conto –ha una bassissima opinione di sé  stesso nonostante quello che blatera sempre sul suo orgoglio–, ma il suo viso è talmente tenero e pacato da assomigliare a quello di un bambino. O a quello di un angelo.

Francis sorride. Dubita che Arthur capirà la sua arte fino in fondo, questa volta.
Dopotutto, c’è soltanto una determinata quantità d’amore che un piccolo inglese testardo può concepire.



  
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