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Autore: John Fitzgerald Kennedy    04/08/2011    2 recensioni
Una Giungla.
Un Giaguaro.
Io.
Un Incubo.
Genere: Avventura, Azione, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Alzai lo sguardo.
Sopra di me non riuscivo neanche a vedere il cielo, tanto era fitta la vegetazione sopra la mia testa.
Avanzavo a fatica da ore nella selva più intricata che abbia mai potuto immaginare, facendomi strada con un vecchio machete arrugginito. Il mio campo visivo era ristretto a non più di 4 o 5 metri, mi sentivo terribilmente solo in mezzo ad una natura rigogliosa, abitata da una miriade di animali di ogni specie. I loro versi riempivano l’aria umida e pesante della giungla. Talvolta vedevo gruppetti di animali che si spingevano fin sulla rozza traccia che segnava il mio cammino, insignificante breccia in quell’immensa muraglia di vegetazione che sembrava avvolgermi di più ad ogni passo. C’erano perlopiù gruppi di alberi, distanti qualche metro l’uno dall’altro, ”uniti” da un fittissimo sottobosco di felci ed altre piante basse e da un’intricata rete di liane. Proprio quest’ultime mi facevano sentire come la malcapitata mosca di turno finita disgraziatamente per impigliarsi nella ragnatela, aspettando angosciosamente solo l’arrivo del padrone di casa. 
Improvvisamente un ruggito possente ruppe l’aria, interrompendo le mie folli quanto solitarie elucubrazioni, perdendosi con un rimbombo cupo per la giungla.
“È arrivato il padrone di casa …” non potei fare a meno di pensare.
Passato il primo momento di stordimento, mi guardai velocemente attorno, poi mi avvicinai rapidamente ad un gruppo di alberi alti almeno una ventina di metri, o almeno li valutai tali.
Infilai il machete nella fodera e cominciai ad inerpicarmi sui tronchi, cercando a fatica qualche solido appiglio.
Mi issai finché lo ritenni necessario, ad un’altezza di 6 o 7 metri dal terreno e mi accucciai alla meglio su un paio di rami vicini, traendo dalla fondina con fare nervoso una pistola di grosso calibro, che controllai accuratamente, pulendone per scrupolo gli interstizi con un lembo della manica.
Avevo appena inserito il caricatore con un sonoro tlak quando il ruggito si fece di nuovo sentire, stavolta più vicino, e se possibile ancora più cupo.
“Il padrone di casa viene ad intrattenere gli ospiti …”, sillabai, mordendomi le labbra.
Mi passai nervosamente la punta della lingua sul labbro inferiore, scrutando la vegetazione sotto di me in ogni direzione.
Gli altri abitanti della giungla si erano improvvisamente ammutoliti.
Non ricordo quanto tempo rimasi in quella posizione, forse non più di un paio di minuti, ma a me sembrò un’eternità.
Ad un certo punto sussultai quando vidi scappare via un capibara, un grosso roditore tipico dell’America del Sud, in modo tanto goffo che mi fece quasi ridere.
Poi udii distintamente un gruppo di uccelli stormire rumorosamente, unito ad un gran batter d’ali.
Fu allora che lo vidi.
Un grosso giaguaro sbucò dal muro della vegetazione, con un passo lento, cadenzato e leggerissimo.
Aveva un manto di un giallo intenso, macchiettato di nero.
Il muso sembrava squadrato, il pelo vicino alle forti mascelle era sporco di sangue, segno che aveva già fatto una vittima.
Ma non sembrava per niente sazio.
Giunse infine sulla mia traccia, annusando quasi in modo distratto per terra.
Sapeva benissimo che ero vicino.
Tolsi cautamente la sicura alla pistola.
La lunga coda affusolata del giaguaro si agitava per aria con fare nervoso.
Puntai la pistola verso l’animale, a non più di un paio di metri dalla base dell’albero che mi serviva da rifugio.
Accadde tutto in pochi istanti: mi sporsi dai rami per sparare, quando all’improvviso il ramo su cui ero accucciato cedette di schianto sotto il mio peso, facendomi fare un rovinoso volo, attraverso le fitte fronde del gruppo di alberi, che mi ferivano le gambe, le braccia e la schiena.
Toccai terra con i piedi, provocandomi un dolore lancinante alle caviglie, e crollai a terra goffamente.
Il giaguaro intanto, passato il primo stupore per la mia caduta, si stava avvicinando a me, pronto a balzarmi addosso e a finirmi.
Fu un miracolo se non persi conoscenza.
Avevo la vista annebbiata, non c’era arto che non mi facesse male, ma mi guardai disperatamente intorno in cerca della pistola, che avevo perso nella caduta.
La vidi, troppo distante da raggiungere allungando il braccio.
Facendo appello a tutte le energie rimaste, mi trascinai penosamente vero l’arma.
Il giaguaro si accucciò, pronto a saltare e a mordermi al collo con le sue possenti mascelle.
Afferrai la pistola e mi voltai.
Quello che vidi mi fa rabbrividire ancora adesso.
Per un lunghissimo istante, vidi il grosso corpo flessuoso del felino in aria, con le fauci spalancate e gli artigli che spuntavano nitidamente dalle zampe.
Puntai l’arma e sparai ripetutamente, i lampi mi accecavano, il rimbombo mi stordiva. 
Sentii un grosso peso rovinarmi addosso.
Poi il buio.
 
Alzai lo sguardo.
Anche in quel caso non vedevo il cielo, ma perché c’era il soffitto della mia camera.
Mi alzai a sedere, in un misto di incredulità e commozione.
Mio fratello russava rumorosamente nel suo letto.
Mi guardai istintivamente le braccia.
Non un graffio, non una ferita, solo il segno di una bruciatura che mi ero fatto qualche giorno prima con il camino.
Mi voltai verso la finestra, sentivo la pioggia cadere copiosamente, ma era così buio che non riuscivo a distinguere alcunché.
Lanciai uno sguardo all’orologio che avevo al polso.
Le 3.
Guardai nuovamente il soffitto azzurro della stanza, poi sorrisi ed appoggiai la testa sul cuscino.
  
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