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Autore: Akrois    08/08/2011    5 recensioni
Dicevano che erano arrivati gli zingari in città. Con i carri, le tende, i cani, i bambini e tutto il resto. L’aveva detto Abraham, quello che gestiva la macelleria. Aveva detto che un gruppo di zingari era venuto a comprare della carne e avevano pagato con soldi, soldi veri! E l’aveva detto con il tono di chi si aspettava di essere pagato con soldi falsi o con bottoni.[...]
[...]
- Ma altre rose non sarebbero state questa.
- Cos’ha di speciale?
- È la prima- rispose sistemandosela fra i capelli – è l’unica prima rosa. Non ce ne sarà mai un’altra. La prima e l’unica, l’unica prima.
[...]
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Finn Hudson, Kurt Hummel
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Sallysort of-

 

Mia madre mi disse - Non devi giocare 
con gli zingari nel bosco. 
Ma il bosco era scuro l'erba già verde 
lì venne Sally con un tamburello

Sally- De Andrè

 

 

Dicevano che erano arrivati gli zingari in città. Con i carri, le tende, i cani, i bambini e tutto il resto. L’aveva detto Abraham, quello che gestiva la macelleria. Aveva detto che un gruppo di zingari era venuto a comprare della carne e avevano pagato con soldi, soldi veri! E l’aveva detto con il tono di chi si aspettava di essere pagato con soldi falsi o con bottoni.

Comunque, quegli zingari non facevano nulla di male, alla fine dei conti. Avevano assicurato al sindaco che se ne sarebbero andati dopo la fine dell’inverno, perché a viaggiare, d’inverno, faceva freddo e Lima era piacevolmente calda, come se ci fosse una sorta di eterna primavera.

Ogni tanto, quando il tempo era soleggiato e mite, si mettevano in un angolo di una piazza e suonavano. Nient’altro. Suonavano per un’ora, due, tre, quattro, senza stancarsi mai.

La gente arrivava, si fermava, batteva le mani e regalava un paio di monete, buttate in un cappello a falde larghe con la stessa noncuranza con cui si butterebbero i sassi in un fiume.

Fu in una piazza che lo vide la prima volta. Stava andando dalla ferramenta a comprare dei cacciaviti (non capiva perché ma i suoi cacciaviti sparivano ogni volta che si voltava) e aveva sentito quella musica. Non l’avrebbe ammesso neanche sotto tortura, ma gli piaceva la musica degli zingari. Era così movimentata, frenetica, pazza, esagerata. Oppure lenta, melanconica, romantica. Mescolavano strumenti e note in maniera magistrale e magari nessuno di loro sapeva leggere uno spartito ma che la Madonna gli fosse testimone, tutti loro suonavano come se Dio avesse messo la musica stessa nelle loro mani.

Si fece largo nel gruppo di spettatori, riuscendo finalmente a vedere i suonatori e lui.

Lui non l’aveva mai visto. Portava dei vestiti dai colori sgargianti che lo facevano sembrare un pappagallo di quelli che teneva in bottega il signor Paul e volteggiava qua e là suonando un tamburello. Ballava, insomma. Sorrideva al pubblico e aveva due occhi azzurri, limpidi e brillanti che sembravano sorridere mille volte più delle sue labbra.

Rimase lì, immobile, in mezzo alla gente, a guardarlo ballare per ore e ore, dimenticandosi completamente della ferramenta, del cacciavite, di sua madre che si sarebbe arrabbiata se non finiva il suo lavoro, del signor Longman che si sarebbe arrabbiato se non gli consegnava quel dannato tavolo finito entro il giorno dopo e dei soldi che a casa non bastavano mai.

- Lo spettacolo è finito.- disse una vocetta delicata, da elfo, che s’insinuò nei suoi pensieri come l’acqua di un ruscello fra le rocce.

- Cosa?- domandò cadendo palesemente dalle nuvole. Il ragazzo sorrise, poggiandosi una mano su un fianco – Lo spettacolo è finito. Non vedi che è buio? Anche noi dobbiamo riposare.

- Ah, sì, beh, è giusto- balbettò torcendosi le dita, senza riuscire a raccogliere abbastanza coraggio da riuscire ad alzare lo sguardo e guardare negli occhi la ninfa, l’elfo, l’angelo, qualsiasi cosa fosse – sì, allora vado.

- Aspetta. - si voltò di scatto, arrossendo, quasi come se gli avesse chiesto di baciarlo, amarlo, portarlo via, sposarlo e vivere per sempre felici e contenti in una casa con due gatti e un canarino – Non dimentichi qualcosa?- disse spingendogli il cappello contro il petto.

Arrossì ancora di più – Oh, sì, giusto, scusami, scusami davvero ero tipo, perso, sì, perso nei miei pensieri, assolutamente perso, ecco io- si cacciò una mano in tasca e ne estrasse tutti i soldi che aveva. Ma la mano tremava e la presa era poco ferma e i soldi gli caddero dal palmo, riversandosi a terra. Rimasero immobili a fissare le monetine che rotolavano qua e là – Oh, mio Dio!- guaì chinandosi per raccoglierle – Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace così tanto- balbettò afferrando freneticamente le monetine. Il ragazzo si chinò – Ti aiuto.- disse ridacchiando.

- Perché ridi?- domandò osservandolo con la coda dell’occhio.

- Perché sei buffo.- rispose il ragazzo – C’è ne sono altre?- domandò guardandosi attorno.

- No, le ho tutte.

Il ragazzo restò a guardare le mani piene di monete dell’altro – Sei sicuro di voler dare così tanto denaro?Guarda che quello che metti in questo cappello non tornerà mai più da te.

- Perché?

- Questo è un cappello magico!- esclamò agitando il cappello vuoto nell’aria. Poi rise – No, scherzo, è un normale cappello, anche piuttosto sporco. Solo che, ecco, non vorrei che tu facessi cose di cui potresti pentirti.

- Non mi pentirò.- assicurò buttando le monete nel cappello. Il ragazzo lo guardò e sorrise e lui sentì che sì, non si sarebbe mai pentito.

- Posso chiederti una cosa?

- Cosa?

- Come ti chiami?

Il ragazzo s’infilò il cappello in testa – Troppo presto mio buon amico, troppo presto. Ragazzi!- gridò voltandosi verso i suonatori, che stavano chiacchierando poggiati a un muretto – Andiamo, che è tardi!

E lui era rimasto lì, immobile e deluso come un bambino che Natale non solo scopre di non aver ricevuto regali, ma anche che gli hanno rubato l’albero.

Il ragazzo si stava allontanando con i suonatori. Si voltò, sorrise e si tolse il cappello dalla testa. Neanche una monetina rotolò sulle sue spalle – Non c’è trucco e non c’è inganno!- esclamò esibendosi in un grande inchino.

Lui rise e applaudì.

 

 

 

 

 

 

Il giorno dopo aveva litigato con il signor Longman, ma alla fine era riuscito a consegnare quel dannatissimo tavolo e si sentiva piuttosto fiero di se stesso. Se ne stava seduto sul bordo di una fontana, una rosa stretta fra le dita, lo sguardo fisso sul crocchio di persone che gli impediva di vedere il ragazzo ballare, ma quel giorno non gli importava un gran che.

Al tramonto, fu lui a venire alla fontana, il passo leggiadro e rapido, il tamburello ancora in mano – Non sei venuto a vedere lo spettacolo.- disse puntandogli contro il tamburello, quasi offeso – Com’è, già non ti piace più?

Sorrise leggermente imbarazzato – No, no, assolutamente- disse alzando una mano – solo che preferisco parlarti da solo, invece che strizzarmi in mezzo alla folla. Ecco, guarda, ti ho portato una cosa- gli porse la rosa, ancora bagnata dell’acqua della fontana- l’ho tenuta con il gambo in acqua fino adesso, quindi è ancora bella fresca.

Il ragazzo guardò a rosa – Ecco io- disse allungando una mano per prenderla – grazie. - sussurrò portandosela al viso, respirando a pieni polmoni l’odore dolce e forte di quel fiore.

- Mi merito di sapere il tuo nome, ora?- domandò con un leggero tremolio della voce, chiedendosi se non stesse andando troppo oltre. Magari poteva offenderlo e perdere per sempre l’occasione di sapere quel nome tanto agognato.

Il ragazzo si sistemò la rosa dietro l’orecchio, lo guardò, sorrise e disse - No. -

Lui aprì e chiuse la bocca un paio di volte, prima di ritrovarsi le labbra dello zingaro sulla guancia, un bacio piccolo, leggero e caldo che lo portò sull’orlo dello svenimento – Ma questo te lo sei meritato.

Saltellò via, accompagnato dal suono del tamburello – Ti aspetto domani e ti voglio in prima fila, capito?

Lui sorrise e annuì.

 

 

 

Il giorno dopo aveva ancora la camicia e i pantaloni sporchi che usava in falegnameria. Aveva mollato a metà il letto dello sceriffo Grosby per andare a vedere gli zingari e non ne era affatto pentito.

E come poteva pentirsene? Quel ragazzo ballava così bene, quel giorno, da far ingelosire gli Angeli.

Aveva una rosa fra i capelli e una fustaccia rossa attorno ai fianchi. Alla fustaccia erano state cucite decine di minuscoli campanellini argentei, che tintinnavano deliziosamente a ogni suo movimento, accompagnandosi alla perfezione con il suono del tuo tamburello.

- Oggi eri in prima fila. - disse il ragazzo sedendosi sul bordo della fontana accanto a lui – Ti è piaciuto lo spettacolo?

Si voltò osservandolo con’aria trasognata – Immensamente. - sussurrò con un sorriso ebete stampato sul viso. Il ragazzo sorrise – Hai visto la rosa?- disse sfilandosi il fiore dai capelli – Ho fatto ricoprire di cera quella che mi hai dato ieri. È venuta bene, vero?

Osservò a lungo il fiore – Sì. Ma perché l’hai fatto?

- Così non appassirà mai. - disse lui scoccando al fiore uno sguardo tenero di cui si sentì profondamente geloso.

- Se fosse appassita te ne avrei regalate delle altre.

- Ma altre rose non sarebbero state questa.

- Cos’ha di speciale?

- È la prima- rispose sistemandosela fra i capelli – è l’unica prima rosa. Non ce ne sarà mai un’altra. La prima e l’unica, l’unica prima.

- L’hai messa storta.

- Cosa?

- È storta- allungò le mani, sistemando il fiore fra i capelli dell’altro – Ora va meglio.

Fu solo in quel momento che si accorse che tra il suo viso e quello del giovane gitano c’era una distanza risibile e che il fiato caldo del ragazzo colpiva direttamente le sue labbra. Cercò di voltare la testa, ma le mani bianche dell’altro gli bloccarono il viso e quegli occhi azzurri si piantarono nei suoi – Kurt - sussurrò con un filo di voce – io mi chiamo Kurt.

- Io- balbettò avvertendo la faccia scaldarsi sempre di più – mi chiamo Finn.

Kurt sorrise – Piacere di conoscerti, Finn.

 

 

 

Il giorno dopo Kurt aveva ancora la rosa fra i capelli, ma la stola era azzurra. Non ballava. Stava fermo davanti ai suonatori, muovendo appena la testa a ritmo con quella ballata lenta e delicata, dal suono quasi evanescente.  Alzò il capo e lo guardò. Sorrise e aprì la bocca.

Una nota. Una sola, lunga, alta, vibrante nota, che si levò nell’aria fino al cielo.

E poi cantò.

Finn si rese conto che stava piangendo solo alla fine della canzone. Erano parole che non capiva, che non aveva mai sentito, che non avrebbe mai sentito una seconda volta, ma erano dolci, tristi e toccavano il cuore.

- Perché piangi?- domandò Kurt.

- Mi sono commosso.

- Per la canzone?

- Per la canzone.

 

 

 

Ancora un giorno. Kurt stava in piedi poggiato a un muro, pantaloni neri e camicia azzurra, insolitamente sobrio. Gli sorrise – Oggi niente spettacolo- disse – voglio che tu venga a cena da me.

- A cena da te?- Finn lo guardò stupito – Oggi?

- Oggi.

Finn si guardò attorno – Ne sei sicuro? Cioè, non saprei, magari quelli del campo non mi vogliono.

- La mia gente accetta tutti. È la tua che non accetta mai nessuno.

Kurt sembrava offeso e a Finn non resse il cuore di vederlo a quel modo – Va bene.

Il campo era ornato da ghirlande di fiori di carta colorati. C’era un fuoco enorme acceso al centro di un circolo di cuscini buttati qua e là. Le donne volteggiavano attorno al fuoco con le gonne lunghe ei vassoi pieni di cibarie da arrostire. Alcuni uomini accordavano degli strumenti.

- Ti piace?

Finn si guardò attorno meravigliato – È bello.

- E presto sarà pure meglio. - si voltò e agitò una mano – Papà, vieni un minuto qui!

Un uomo si avvicinò ai due. Era vestito in maniera quasi classica, mille volte più sobrio di Kurt – Dimmi.

- Ti presento Finn, è un mio amico.

- Un tuo amico?- l’uomo lo guardò quasi sospettosamente – Da dove vieni, ragazzo?

- Da Lima, signore- disse Finn stringendo fra le dita il cappello – sono un falegname.

- Falegname, eh?- l’uomo sorrise – Anche a me piace costruire qualcosa, quando posso. Se ti va posso farti vedere qualche oggetto.

Finn annuì.

 

Poco dopo erano seduti davanti al fuoco e mangiavano a mani nude la carne arrostita – Tu non sembri uno zingaro.- disse Finn tutto d’un tratto, mentre attorno a loro infuriavano i canti e le danze.

- Cosa?

- Cioè, sei piccolo, hai la pelle chiarissima. Gli altri sono tutti molto scuri.

- Mia madre era una gagé, come te. - disse il ragazzo spiluccando delle verdure – S’innamorò di mio padre e decise di seguirlo nel suo girovagare. Rimase incinta di me dopo poco tempo. Ma- abbassò il capo – purtroppo era sempre una gagé. Questa vita non le si adattava. Morì presto di polmonite.

- Mi dispiace per tua mamma- disse reprimendo l’impulso di abbracciarlo – e per te. Capisco come deve essere stato. Sai, ho perso mio padre quand’ero molto piccolo- sospirò osservando il fuoco – era partito come soldato durante la guerra di secessione. Semplicemente lui- scosse la testa – non è più tornato.

Kurt non si fece problemi e l’abbracciò. Profumava di buono ed era caldo e Finn pensò che poteva benissimo mettersi a piangere lì, in quel momento preciso, davanti a tutta quella gente.

 

 

 

Il mattino dopo Finn era soltanto stanco. Lavorò con poca voglia al letto dello sceriffo, dando gi ultimi ritocchi alle tremende decorazioni floreali per cui la moglie dello sceriffo scalpitava tanto.

Qualcuno bussò alla porta della falegnameria – Disturbo?

Finn alzò lo sguardo e si ritrovò davanti Kurt, vestito sgargiante come un pappagallo – Non c’eri oggi.

- Dovevo lavorare. - disse con un sorriso – Ma prego, entra pure. Siediti, se trovi del posto.

Kurt si arrampicò sopra un tavolo, dedicandosi poi a fare un mucchietto di trucioli con molta concentrazione per i venti minuti a seguire.

Fu quando Finn poggiò lo scalpello che smise di ammucchiare trucioli – A cosa devo la tua visita?

- Niente, pensavo che potevamo uscire, oggi - disse dondolando i piedi nel vuoto – dopo lo spettacolo, ma se hai ancora da lavorare possiamo anche fare un’altra volta, insomma, non è obbligatorio uscire oggi.

- No- disse Finn sorridendo – oggi va benissimo.

- Allora seguimi.

 

Il bosco era scuro e l’erba era umida. Kurt si lasciò cadere sotto un albero e sorrise, facendo cenno all’altro di sedersi accanto a lui.

- Vieni qua spesso?- domandò Finn passando una mano fra l’erba.

- Più volte di quante mi piacerebbe ammettere.

Rimasero fermi a lungo, immersi nella luce verdina che passava fra le fronde degli alberi. Ogni tanto si sentiva il suono di qualche carrozza che correva sulla strada vicina, i cocchieri che incitavano i cavalli e sgridavano qualche passante incauto.

- È bello qui- disse Finn sistemandosi con la schiena contro l’albero – è calmo.

- Già.- Kurt poggiò il capo sul suo petto – Ma fra poco verrà l’inverno e non potremo venire qui.

- Perché?

- Perché farà freddo.

- Porteremo degli abiti pesanti.

- E se farà ancora più freddo?

- Accenderemo un fuoco.- Finn gli carezzò distrattamente i capelli, lo sguardo perso verso l’alto.

- E se farà ancora più freddo?

- Staremo stretti e ci scalderemo a vicenda.

Kurt alzò il viso e le loro labbra s’incontrarono. Fu un momento. Solo un momento, che nella mente di Finn si allungò fino a coprire intere ore, rallentandosi fino allo stremo.

- Perché?- domandò con la gola secca, lo sguardo ancora perso fra le fronde.

- Perché hai detto una cosa bella. Quello era un premio.

- Posso avere un altro premio?

- Solo se dici un’altra cosa bella.

- Kurt.

- Che c’entra il mio nome, adesso?

- La cosa bella sei tu, Kurt.

Kurt sorrise dolcemente, poggiandogli una mano sulla guancia – Credo che ti meriti un altro premio.

 

 

Altro giorno, altre carrozze, altri passanti incauti, un tramonto che portava l’odore dell’inverno e delle foglie che cadevano.

Finn passava lentamente le dita fra i capelli di Kurt – La verità è che non ho mai baciato nessuno.

- Nessuno nessuno?- domandò Kurt, le dita che vagavano sul petto di Finn, disegnando piccole opere astratte.

- Non ho mai avuto la curiosità di baciare una donna. E, beh, non puoi metterti a baciare i maschi in giro per Lima, anche se vorresti. Come minimo finiresti in prigione. Voi potete baciare i maschi?

- Diciamo che non è una cosa disapprovata, ma non è che t’incitino a farlo.

- Io ti piaccio?- la buttò lì, quasi come una considerazione sulle nuvole o sui raggi di sole sempre più pallidi e sempre meno caldi.

- Finn Hudson - sbottò Kurt guardandolo storto – io non bacio i gagé così, perché mi va. Tu mi piaci. - poggiò il viso sul suo petto e sospirò – Tu sei buono. Sei speciale.

Finn sorrise al vento e lo strinse a sé.

 

 

 

A Natale Kurt si presentò nella falegnameria vestito di rosso – Lavori anche oggi?

- Nessuno lavora al posto mio. - disse Finn sorridendo – A cosa devo la visita?

Kurt gli si avvicinò e lo baciò sulle labbra – Buon Natale, Finn.

- Ti amo.

Kurt lo guardò stupito. Finn rimase fermo. Le parole erano fluite fuori delle sue labbra normalmente, quasi come non fossero altro che respiro. Diventò abbastanza rosso da non stonare accanto al vestito di Kurt e non riuscì neanche a trovare il coraggio di fare anche solo una singola mossa – Io, ecco-

- Ancora buon Natale, Finn.- sussurrò Kurt prima di saltellare fuori del negozio.

Finn rimase a fissare la porta.

 

 

- Ho paura.- Kurt era in piedi davanti a lui. Affondava nella neve fino alle caviglie e sembrava evidentemente intirizzito – Ho paura.

- Di cosa?- domandò Finn sistemandosi contro l’albero – Di cosa hai paura, Kurt?

- Della neve.- disse il ragazzo guardando a terra – La neve si è portata via la mia mamma. Porterà via anche me, prima o poi, ne sono sicuro.

Finn gli si avvicinò e l’abbracciò forte, sollevandolo da terra – Non finché ci sono io.

Kurt sorrise – Sei caldo.

 

La neve si scioglieva, la terra era molle sotto le loro scarpe e sui rami spuntavano i primi boccioli.

- Non hai più paura, non è vero?- domandò Finn stringendogli le braccia attorno alle spalle – La neve è andata via e tu sei ancora qui. Nessuno ti porterà via.

Kurt gli prese una mano e la baciò – La primavera, Finn - sussurrò – la primavera mi porterà via.

 

 

 

Quando Finn non lo vide ballare in piazza pensò che era solo perché avevano deciso di riposarsi. O magari erano andati in un'altra piazza oppure avevano scelto altri orari oppure avevano fatto festa fino a tardi e tutti dormivano oppure Kurt era rimasto con suo padre a guardarlo scolpire una di quelle piccole statuette a forma di animale. Finn non aveva fatto altro che assillare Burt chiedendogli d’insegnare anche a lui come si faceva a fare bestioline così dettagliate, ma l’uomo si era sempre rifiutato.

Tirò un calcio a un sasso e tornò a casa.

 

 

Tre giorni dopo era davanti al campo su cui si erano accampati tutto l’inverno. L’erba era gialla, riarsa e piegata su se stessa e sembrava chiedesse pietà.

Sarebbe rimasto lì senza capire ciò che stava succedendo per giorni e giorni se non fosse stato per un piccolo angelo biondo di otto anni con la busta del pane sotto braccio – Se ne sono andati tutti- disse guardandolo con certi occhioni azzurri e luminosi che faceva male al cuore vederli – durante la notte, qualche giorno fa, signore.

Lasciò un dollaro al bambino e corse verso la strada, bloccando la prima diligenza che trovò.

Si fermò alla città più vicina e lì cercò Kurt, ma non c’era. Quindi prese la prima diligenza che trovò e andò alla città vicina e li cercò Kurt, ma non lo trovò.

Quindi prese la prima diligenza che trovò e andò alla città vicina e lì cercò Kurt, ma non lo trovò.

Quindi prese la prima diligenza che trovò e andò alla città vicina e lì cercò Kurt, ma non lo trovò.

Andò avanti così tutta l’estate, con sua madre che gli mandava lettere angosciate a cui lui rispondeva una volta sì e dodici no, i vestiti che diventavano più larghi e le tasche che diventavano più vuote sotto il sole cocente.

 

 

 

Tornò a Lima d’inverno. Qualcuno lo guardò in faccia, altri lo ignorarono, alcuni lo salutarono.

Lui andò fino alla piazza. Kurt era seduto a gambe incrociate sul muretto della fontana, la rosa ancora fra i capelli spettinati, i vestiti rovinati, il volto smagrito.

Finn arrancò fino alla fontana e cadde in ginocchio davanti a lui – Volevo venire con te- disse con la voce rotta – e ti ho cercato.

Kurt si chinò verso di lui, stringendolo disperatamente fra le braccia – Volevo restare con te- disse fra le lacrime – e ti ho aspettato.

- Ci siamo cercati senza mai trovarci. - balbettò Finn ridendo, le lacrime che gli solcavano il volto.

- Siamo degli stupidi.

- Assolutamente.

- Ti amo. - Finn sgranò gli occhi e Kurt si stupì di quanto naturalmente quelle parole fossero uscite dalle sue labbra. Era stato come espirare.

Finn pianse più forte e affondò il viso nelle pieghe della sua camicia. La neve cominciò a scendere lentamente.

 

Quando Carole arrivò in piazza dovette farsi largo tra il crocchio di gente per riuscire a vederli.

Coperti dalla neve, abbracciati, sorridenti, freddi come ghiaccio. Avvicinò una mano al volto del figlio, togliendogli la neve dal viso. L’altro ragazzo lo conosceva, veniva spesso nella falegnameria. E Finn aveva detto che voleva cercarlo e che non voleva stare senza di lui.

Si asciugò una lacrima e pensò che sarebbe stata una buona cosa farli seppellire vicini. Perlomeno non si sarebbero sentiti soli, là sottoterra.

 

 

 

 

 

A.Corner___

Parto di un giorno d’ispirazione. Forse la mia ultima fic dell’estate. E sì mie care, purtroppo dovrò lasciar perdere la scrittura. Tra test d’ammissione all’università, vacanze e mini-naja è già tanto se trovo il tempo per sbattere la testa contro un muro.

Passando oltre. Non sono una grande esperta delle tradizioni gitane e non sono neanche sicura che nell’America del 1890 ci fossero  tutte ‘ste comunità gitane in giro per l’America. Qualcosa ho trovato, ma lasciamo perdere, ‘kay? Facciamo finta che le mie parole sono somme e supreme e che non scrivo castro nate storicamente inesatte.

Visto che a questo giro non ho spiegato un tubo di nulla se non l’essenziale, spieghiamo due cose:

Finn e Kurt hanno entrambi venticinque anni. L’anno è il 1980. Non ho altro da spiegare.

Ah, gagé è la parola che indica i non-zingari.

Fine.

Buonanotte gente.

   
 
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