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Autore: xNewYorker__    11/08/2011    4 recensioni
«I-io…» ci fu una pausa di silenzio, in cui un po’ di luce illuminò gli strumenti sulla sinistra. «…ti ho amato come non ho mai amato nessun altra donna in tutta la mia vita.» Disse, ricadendo di peso all’indietro. Chiuse gli occhi. Adesso, si, adesso, voleva stare sognando.
Genere: Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Kate Beckett, Richard Castle
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Le lacrime sul volto della donna erano ormai palesi.
Stavano scorrendo da quando aveva iniziato a parlare del capitano Montgomery.
Non le importava dei suoi errori passati, il suo ultimo giudizio era stato dato in base a quello che aveva fatto lo stesso giorno in cui aveva lasciato la Terra.
Le aveva salvato la vita, e questo non l’avrebbe mai dimenticato.
I volti degli altri componenti della squadra Omicidi del dodicesimo distretto erano scuri, e anche quello di Castle lo era.
Non era riuscito a sorridere neppure quando era stato, anche se non esplicitamente, ringraziato.
C’erano stati due secondi di silenzio. Poi un proiettile fendette l’aria come un razzo.
Castle le si gettò addosso, ma fu troppo tardi. Il proiettile le si era appena conficcato in petto, e sembrava una cosa grave. Poteva non aver evitato il cuore.
Lanie scoppiò a piangere iniziando a correre verso l’amica ferita, a terra. Era stesa sull’erba, e sembrava essere lì lì per smettere di respirare.
«Non mi lasciare! Ti prego!» urlò lo scrittore, in preda ad un panico che non l’aveva mai inghiottito in questa maniera. Il cuore gli finì in gola.
Dovette deglutire per forza. Portò la mano destra sotto il capo di Kate, per sorreggerlo, e la sinistra venne poggiata sul suo polso, per controllare le pulsazioni. Allora decise che non avrebbe più perso un attimo. Aveva ripetuto le famose “due parole” almeno cinque volte, e lei gli aveva persino sorriso. Poi il capo ricadde sulla destra, e perse i sensi.
Provò a risvegliarla, ma non ci riuscì.
Gli occhi erano chiusi, ma il cuore continuava ancora, debolmente, a battere. Quel fucile di precisione era stato…preciso. Lui un po’ meno.
I sensi di colpa lo stavano divorando vivo.
Ryan sbatté violentemente il suo iPhone a terra, iniziando ad imprecare. «NON C’E’ CAMPO, MERDA!» Urlò, facendosi sentire per tutto l’isolato e oltre.
La voce di Richard non era per nulla calma, troppo coperta dalla preoccupazione, e rallentata dal nodo in gola.
«Kate…Kate ascoltami. Ascoltami, ti prego! Non puoi lasciarmi, non così, non adesso. Dovev…dovevi…CHIAMATE UN’AMBULANZA!» si decise ad urlare qualcosa di utile, finalmente.
Ryan riprese il telefono che funzionava ancora.
Cavolo, se erano perfetti, quei cosi.
Osservò lo schermo con rabbia per due secondi. Niente. Una Beckett morente, a terra, non sembrava neppure essere ancora viva.
Lanie intanto continuava a piangere, abbracciata da Esposito. Anche lei aveva un cellulare in mano, ma neanche quello sembrava prendere.
La crisi di nervi sembrò non poter essere controllata, quindi Ryan gettò nuovamente il telefono a terra, più forte. Questo si schiantò e finì in mille pezzi, ma non gli importava neppure di averci speso un sacco.
Mentre, qualcuno dei presenti aveva chiamato l’ambulanza, che arrivò a sirene spiegate. Il rumore fece voltare tutti.
Caricarono la detective sulla barella, con Castle al seguito, attaccato lì come se fosse il suo unico modo di sopravvivere. Gli occhi erano gonfi, e quasi non riusciva a tenerli aperti.
 
La sala d’aspetto era stracolma di gente. Chiunque conoscesse Beckett era seduto lì con la testa tra le mani. Il padre, poi, era distrutto. Distrutto, anzi, era dire poco.
Prendeva il muro a pugni, e aveva le mani irritate e ferite. Si voltò imbestialito verso lo scrittore. «TU DOVEVI PROTEGGERLA!» Urlò.
Lui non poté biasimarlo, ma si sentiva già in colpa, senza bisogno che qualcuno infierisse ancora. Ad ogni modo, non rispose.
Si voltò in sua direzione fissando il pavimento, per poi tornare sulla porta della sala operatoria. Quell’attesa lo stava logorando dall’interno. Una parte del cuore sembrò iniziargli a mancare, a poco a poco, come se qualcosa lo divorasse come l’aquila divorava perennemente il fegato di Prometeo.
Sentiva il dolore descritto nelle leggende, e per un attimo si sentì addirittura la camicia, sulla parte sinistra del petto, inzuppata di qualcosa.
Vi portò la mano, allarmato, ma non era nulla. Era solo la sua immaginazione. Iniziò a prendere a calci la porta della sala operatoria, facendo uscire uno dei chirurghi, che lo ammonì.
Decise che sarebbe stato meglio allontanarsi da lì, allora.
Per qualche strano motivo, stare lì gli sembrava come stare vicino a Kate, che vicina, in quel momento, sicuramente non era.
Borbottò qualcosa, come una preghiera, e chiuse gli occhi, sperando di svegliarsi ritrovandosi seduto alla scrivania al distretto, preso pesantemente in giro, come sempre, dalla detective a cui aveva “distrutto la vita” per anni.
Il desiderio di fiondarsi in quella sala provando a sdrammatizzare iniziò ad ardergli in corpo. Non poteva, però. Non durante l’operazione.
Dopo, vedendo nuovamente gli occhi verdi riaprirsi di fronte a lui, l’avrebbe sicuramente fatto, e un sorriso si sarebbe dipinto sulle sue labbra.
Si sedette, distante da tutti gli altri, gettandosi di peso sulla plastica dura dello sgabello basso. Chiuse gli occhi, e appoggiò la testa al muro alle sue spalle.
 
«Grazie, grazie, grazie!» Esclamò, con un sorriso enorme rivolto al chirurgo che l’aveva fatto allontanare. L’avrebbe quasi abbracciato. E sarebbe stata sicuramente una cosa “alla Castle”. Molto stupida, infatti.
Al sentire la notizia il nodo in gola si sciolse, così come la morsa allo stomaco. Il cuore sembrò rigenerarsi, come il famoso fegato di Prometeo divorato dall’aquila. Prese uno dei più profondi respiri della sua vita.
Vide passare di fronte ai suoi occhi azzurri la barella, trasportata in una stanza più tranquilla e controllata.
Al ritorno di un infermiere, lo fermò parandosi davanti a lui.
«Posso andare a trovarla?» Chiese, felice come un bambino il giorno di Natale.
Non si fermò neppure ad ascoltare la risposta. Fu già nella stanza. Entrò evitando di far trasparire euforia. Kate riposava, naturalmente.
Prese una sedia e l’avvicinò al letto. Le prese la mano e si sciolse in un sorriso felice e rilassato.
Non aveva sopportato l’idea di poterla perdere. Non gli restava che aspettare che si svegliasse. Solo aspettare. 
 
Sentì il dito di qualcuno picchiettargli sulla spalla.
Si voltò, aprendo appena gli occhi e sbadigliando. «Alexis.» Disse, più per comprenderlo da solo che per salutare la figlia.
«Pa-papà…» L’espressione sul suo volto…non era normale. «Cosa c’è?» Chiese lui, sereno.
Beckett era salva.
Allora quale poteva essere il motivo della tristezza di Alexis? Ashley? «E’ successo qualcosa con Ashley?» Domandò quindi, per accertarsene.
La figlia fece cenno di “no” con la testa, e lo aiutò ad alzarsi dallo sgabello.
Si fermarono di fronte alla porta della sala operatoria, dove gli altri erano in lacrime e con delle espressioni sconvolte.
Castle non capì. «Cosa c’è?» Fu la domanda rivolta a tutti. Nessuno rispose. La porta si aprì di scatto.
Il cigolio dei cardini non oliati gli ricordò un film dell’orrore, e un brutto presentimento gli bloccò la voce in gola, impedendogli di fare la stessa domanda al chirurgo che gli si presentò di fronte. Lo sguardo funereo gli bastò a capire tutto.
Imprecò, e un fiume di lacrime iniziò a scorrere, arrivando sulle guance e oltre. Scansò l’alto uomo e corse in sala.
Si fermò di fronte a Beckett. Strano: aveva un’espressione serena.
Le prese la mano, proprio come aveva…sognato. Si odiava. Semplicemente…si odiava. Era esasperato.
Si buttò in ginocchio accanto al piano sul quale stava la detective. «I-io…» ci fu una pausa di silenzio, in cui un po’ di luce illuminò gli strumenti sulla sinistra. «…ti ho amato come non ho mai amato nessun altra donna in tutta la mia vita.» Disse, ricadendo di peso all’indietro.
Chiuse gli occhi. Adesso, si, adesso, voleva stare sognando. 
   
 
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