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Autore: LondonRiver16    12/08/2011    9 recensioni
In quel momento la voce lo colse impreparato. Di solito si accorgeva subito quando un estraneo entrava nel suo appartamento, perché tali individui erano sempre spinti da desideri violenti che li spingevano a fare più rumore di quanto credessero, ma proprio qui stava il punto: non si trattava di un estraneo.
- Avevi detto che avresti smesso – esordì la voce in tono di rimprovero.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way | Coppie: Frank/Gerard
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Disclaimer: i personaggi di questa storia non mi appartengono, la storia è interamente fittizia ed è stata scritta senza alcun scopo di lucro.

è la prima one-shot che scrivo. Spero che possiate dirmi cosa ne pensate.

È la storia di un salvataggio, di quelli che nella realtà non si incontrano.

 

Give me a chance to feel alive

Frank camminava sul lato in ombra del marciapiede, evitando i coni di luce dei lampioni con l’accuratezza di un felino e voltandosi indietro ogni due o tre passi per lanciare uno sguardo irrequieto ai pochi metri appena percorsi. Ogni volta ne ricavava un piccolo sollievo, poiché tutto ciò che gli si presentava davanti era un boulevard deserto, ma al contempo lo stomaco gli si contorceva al pensiero che senza alcun dubbio aveva perso un cliente.

Fanculo. Ne trovo mille come te, mille.

Esattamente non sapeva se ciò fosse un aspetto della faccenda di cui rallegrarsi o che a malapena bastava a consolarsi per il mancato guadagno di quella serata. Come il signor Jenkins – questo il nome che quell’uomo di mezza età aveva scelto di offrirgli per l’intera durata dell’ingaggio -, c’erano decine e decine di altri uomini che non sembravano conoscere il significato del vocabolo “regola”, o perlomeno parevano dimenticarlo nel momento in cui l’eccitazione si sostituiva a quel poco di vergogna che riusciva a trattenerli per i primi cinque minuti e la parola “puttana” gli offuscava il cervello.

Frank si tirò su i jeans e si accomodò il giubbotto di pelle, poi aumentò il passo nel timore di aver rallentato mentre cercava di darsi una sistemata. Perché, poi, per chi? Non avrebbe accontentato nessun altro economista in crisi d’astinenza né nessun altro politico dalla sessualità confusa, non quella sera.

Si sarebbe concesso il resto della notte per riposarsi, riprendersi dagli eccessi che era stato obbligato a concedere al signor Jenkins e cancellare quel nome e quel numero dalla rubrica degli affezionatissimi, per quante rate dell’affitto fosse riuscito a pagare grazie alle sue voglie.

Raggiunto il dodicesimo e ultimo vano della via all’angolo con Thyln Street, ci si infilò dentro e cercò di darsi una mossa nel frugarsi nella tasca interna della giacca, anche se al contempo continuava a darsi del ridicolo perché continuava a temere che la furia dell’insoddisfatto signor Jenkins lo avesse seguito fin sulla porta di casa.

Fu con un sospiro di sollievo che si chiuse alle spalle la porta che conduceva nel buco claustrofobico e nauseante che qualche buontempone di architetto aveva avuto l’ardire di chiamare atrio del condominio, e quando cominciò a salire gli scalini di fòrmica si concesse di trascinarsi con passi più lenti.

Non aveva nulla da raggiungere in fretta, dato che in cima a quei gradini non c’era nulla che potesse chiamare casa, ma almeno ora non aveva nulla da temere. Era una situazione di stallo, insignificante ma consolante nella sua brevità, e gli avrebbe consentito di respirare fino al mattino dopo.

Quando le sue suole consunte toccarono il settimo piano, si sentiva talmente spossato che considerò l’idea di dormire sul giro scale, e non dubitava che avrebbe ceduto alla tentazione se non avesse conosciuto i pensieri che ossigenavano le menti dei suoi vicini di pianerottolo.

Un’altra chiave, un altro giro, un’altra tonalità. Curioso come le uniche due chiavi che possedeva in realtà non gli aprissero nessuna porta su nessuna opportunità, sì, era divertente quasi quanto ripensare a ciò che aveva fatto per conquistare quella che oramai aveva smesso di chiamare libertà e aveva riconosciuto come merda. La sua vita di merda.

La seconda porta della sua vita si serrò dietro di lui. Frank si passò una mano fra i capelli neri che gli sfioravano il collo e lambivano le spalle, sbuffò e gettò le chiavi nel cestello di plastica che attendeva vuoto sul mobile d’entrata che conteneva un altro paio di scarpe, qualche accenno di biancheria e più pacchetti di sigarette di quelli che in realtà poteva permettersi.

Gettò la borsa di plastica contenente vestiti e accessori di cui si era fornito per soddisfare i clienti più esigenti nel vano scuro del bagno, decidendo che per una pulita avrebbero potuto aspettare la mattina successiva, li fece seguire dal giubbotto e svoltò a destra per entrare nel cucinino dove due o tre volte al giorno consumava i suoi pasti, se si escludevano i periodi di magra, quando vedere il piatto una volta al giorno era un privilegio.

Affibbiò una manata all’interruttore della luce, accompagnandola con un grugnito, e si accucciò appoggiando un braccio su una delle due sedie presenti per aprire il frigo di ottanta centimetri e infilarci una mano alla ricerca del fondo di una birra, dato che non poteva sperare in nulla di più forte.

Ricordò che alcuni dei suoi frequentatori gli offrivano qualcosa, prima di pretendere i suoi servizi, e con una smorfia pensò a quanto volentieri avrebbe accettato in quel momento un goccio del lusso sfrenato di cui molti di loro si circondavano per compensare altri aspetti della loro vita.

Si fermò persino a coccolare l’idea di tornare da quel gran bastardo di Jenkins, poi sentì una fitta di avvertimento alla coscia e tornò a concentrarsi sul vetro ghiacciato della bottiglia che aveva recuperato dal frigo, dimenticando i sogni dell’alcol.

Fanculo, stronzo. Non mi rivedi più.

In quel momento la voce lo colse impreparato. Di solito si accorgeva subito quando un estraneo entrava nel suo appartamento, perché tali individui erano sempre spinti da desideri violenti che li spingevano a fare più rumore di quanto credessero, ma proprio qui stava il punto: non si trattava di un estraneo.

- Avevi detto che avresti smesso – esordì la voce in tono di rimprovero.

Era profonda e roca come al solito, ciononostante Frank ebbe il tempo di voltarsi con un sussulto prima che il suo cervello ne registrasse la tonalità e il suo cuore la riconoscesse con uno slancio di gratitudine.

La bottiglia mezza vuota di birra stantia appoggiata al torace, Frank si fermò a scrutare la figura stagliata sulla soglia dell’angolo cottura nel quale si era appena infilato per tentare di affogare in qualcosa i risvolti scomodi di una serata simile a molte delle precedenti.

Era un ragazzo di ventiquattro anni e più alto di lui di quindici centimetri, indossava jeans di un nero slavato che terminavano su un paio di scarpe da ginnastica scure e una maglia dalle maniche lunghe a righe blu e nere che in qualche misteriosa maniera si intonava ai riflessi di capelli che non si sarebbe saputo se definire curati o incolti. Il suo viso era naturalmente pallido, le labbra contratte in una smorfia severa e gli occhi – verdi, eppure brillanti come acqua di torrente – puntati su di lui, ad ammonirlo.

Per quanto il suo cuore martellasse, Frank rispose allo sguardo del ragazzo con un’occhiata stanca che fece passare per indifferente.

- Forse la notizia ti farà passare la notte in bianco, ma sappi che anch’io ho bisogno di mangiare.

Al suono aspro di quelle parole, le dita del ragazzo sulla soglia si strinsero spasmodicamente attorno allo stipite, tanto che il candore esangue delle nocche divenne impossibile da ignorare. – Si può sapere che cosa ti impedisce di chiedere il mio aiuto, invece di continuare a prostituirti?

- Vediamo… - replicò Frank, alzando gli occhi al cielo e picchiettandosi il mento con il collo della bottiglia per simulare un profondo atto di riflessione, poi si atteggiò come colto da un’illuminazione – Oh, già, come ho fatto a dimenticare! – Di nuovo serio, continuò: - Le parole “moglie” e “figlia” non ti dicono niente, Gerard?

Lui fece qualche passo avanti, portandosi di fronte a lui, e sospirò allungandogli una delicatissima carezza sulla guancia. – Quando ti deciderai a seppellire l’orgoglio in cantina, almeno quando l’ospite sono io?

Non riuscendo ad andare oltre l’amarezza dell’argomento per godere del contatto della sua pelle con la propria, Frank replicò con una smorfia acida, lo sguardo a terra: - Forse quando mi metterò in testa che anche per te non sono altro che una puttana, e che in cambio dei miei servizi dovrei davvero accettare i tuoi sold-…

Il ceffone lo colpì senza preavviso, imporporandogli la guancia e risuonando come uno sparo nel buio nel cucinino muto, se si dimenticava il ronzio sinistro delle due lampadine che pendevano dal soffitto. Una mano impegnata a tenere dritta la bottiglia della birra e l’altra posata sulla guancia come un bambino tradito, Frank non fece in tempo a rialzare gli occhi in cerca di una spiegazione che Gerard gli aveva già afferrato le spalle per scuoterlo.

La sua voce risuonò arida, sofferente, ora che la provocazione di Frank aveva risvegliato il suo personalissimo orgoglio.

- Non ripetere mai più una cosa del genere – lo ammonì, tentando invano di non far tremare la voce mentre gli occhi di Frank si specchiavano nei suoi e ne sconfiggevano l’impassibilità, arrivando a riscoprirne ogni dolcissima debolezza. - Non… non osare mai più dire che sei la mia puttana o quant’è vero Dio, io…

Per un attimo Frank fu sicuro che lo avrebbe schiaffeggiato di nuovo, ma fu un attimo, un secondo prima che si rendesse conto di quanto rapidamente potessero inumidirsi un paio di occhi verdi. – Gerard…

- Potrai esserlo per tutti gli altri, ma non per me. Non sei la mia puttana – continuò l’altro, recuperando almeno in parte la fermezza. – Non dirlo mai più.

- Scusa – bisbigliò a quel punto Frank, poggiando la birra sul ripiano del frigo alla sua sinistra.

Stava ancora cercando qualcosa da aggiungere per farsi perdonare quando Gerard chiuse gli occhi, gli mise le mani attorno alla vita e accostò il viso a quello del ragazzo quel poco che permise alle loro labbra di fondersi e alle loro lingue di tornare a incontrarsi dopo tanto tempo.

Tornando dopo secoli a sentirsi complice e non vittima di un atto di desiderio, Frank spinse il bacino contro quello del ragazzo e gli afferrò il braccio per incitarlo a stringerlo più forte a sé, mentre l’altro lo baciava con tanta veemenza da spingergli la testa all’indietro.

Gerard gli morse il labbro inferiore finché non lo sentì lamentarsi languidamente, poi lo afferrò per un polso e lo guidò fuori dallo scomodo cucinino in una corsa spezzata e impaziente. Lasciatisi alle spalle la zona giorno, raggiunsero il letto da una piazza e mezza, illuminato più che a sufficienza da una luna piena che Frank riuscì a intravedere fra le pieghe dei pesanti tendaggi violacei che nascondevano la loro passione al cielo cittadino.

Ignorando il disordine sul pavimento – vestiti senza più una forma, carte di snack che promettevano un gusto spaziale e zero controindicazioni estetiche, un cuscino caduto dal letto durante l’ultimo incubo-, Gerard incitò Frank a sedersi e quindi sdraiarsi sul materasso per poi chinarsi a baciargli il collo.

Il pensiero di rifiutare quelle attenzioni non avrebbe mai potuto essere più lontano dalla mente di Frank. Gerard e ciò che si portava appresso durante quelle visite solo per poter riversarlo su di lui (affetto? Amore? Puro desiderio carnale? Non aveva importanza in quel determinato momento) erano una boccata d’ossigeno tanto preziosa quanto rara, soprattutto dopo il di lui matrimonio.

Era inutile tentare di convincersi del contrario, Gerard non era un cliente. Gerard era la ricompensa che, anche se non richiesta esplicitamente e talvolta addirittura insultata, sapeva sempre quando presentarsi.

Gerard che sapeva come baciarlo. Gerard le cui mani significavano carezze e non strattoni, la cui voce significava protezione e non comando. Gerard le cui dita stavano ora scivolando lungo la sua schiena, pressate fra la sua maglia e la coperta, Gerard che sapeva dove toccarlo e non doveva chiedergli di fingere eccitazione mentre sussurrava il suo nome, Gerard che gli toglieva la magliett-…

- No! – esclamò all’improvviso Frank, strappandogli di mani il tessuto della maglietta e rotolando per scansarlo.

Giunto al limitare del letto si mise seduto, il cuore in tumulto, le dita ancora strette spasmodicamente attorno ai lembi inferiori della propria maglia. Per pochi secondi sostenne lo sguardo stranito (tradito?) del ragazzo, poi fu costretto a seppellirlo fra i granelli di polvere che regnavano sulla moquette color cenere.

- Che ti succede, così d’improvviso? – domandò allora Gerard, rimettendosi in piedi. – Mi è sembrato ne avessi voglia almeno quanto me.

- Be’, ti sei sbagliato, non mi va – si affrettò a replicare Frank, maledicendosi per non essere riuscito a simulare un tono più sicuro e meno stridulo.

Distratto e ancora intimorito da ciò che aveva evitato per un soffio, il più giovane non si rese conto che le sue dita erano ancora impegnate a stropicciare le estremità della maglietta che indossava, con tanta ostinazione e tanto nervosismo che Gerard non impiegò più di qualche secondo per comprendere che la reazione del ragazzo al suo tocco aveva a che fare proprio con quel drappo.

L’espressione interrogativa sul volto di Gerard non durò più di mezzo secondo, per poi venire rapidamente sostituita da un misto di rabbia e austerità.

- Che cosa stai cercando di nascondermi? – domandò allora.

- Nulla – rispose Frank nel più debole dei soffi, ma si dimostrò veloce a voltarsi verso la parete quando l’altro mosse un paio di passi nella sua direzione. – Ti prego… no.

Conoscendo bene quando potesse essere deleteria l’ostinazione del ragazzo, Gerard gli si accucciò accanto e tentò di strappargli dalle mani il tessuto a cui sembrava tanto affezionato, ma non ottenne altri risultati che un piagnucolio di protesta e sguardi che solo per un attimo si arrischiavano a incrociare i suoi occhi per poi sgusciare via di nuovo, come atterriti.

A un certo punto Gerard lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, sospirando come di fronte ai capricci di un bambino: - Frank, per favore, dimmi cosa c’è che non va.

- Niente di niente – si ostinò l’altro.

La mano di Gerard ebbe uno spasmo e fendette l’aria, lui strinse i denti ma non poté impedirsi di alzare la voce: - Cristo santo, come puoi non capire che non posso aiutarti se non mi dici dove sta il problema? Cosa diavolo hai sotto quella maglietta?!

- Niente di niente!

Gerard scattò in piedi, ignorando l’occhiata supplichevole di Frank. – L’hai voluto tu.

Rifiutandogli il vantaggio di un qualsiasi preavviso, prese Frank per le spalle e lo costrinse con la schiena sul letto, poi gli raccolse le braccia sopra alla testa e gli ancorò i polsi al materasso con la sola mano destra, immobilizzandolo ancor prima che il ragazzo avesse il tempo di riprendersi dalla sorpresa. Mentre recuperava il fiato, si sedette sulle sue ginocchia per tenergli ferme anche le gambe e impedirgli così qualsiasi atto di ribellione.

Frank fremette sotto al suo peso e alla forza dei suoi muscoli con un gemito, ma Gerard non cedette e con la mano sinistra agguantò l’orlo della sua maglietta.

- No, Gerard, non…!

Senza prestargli ascolto, il ragazzo alzò la stoffa e guardò il torace che l’altro aveva tentato in ogni modo di nascondergli, diversamente dal solito.

Inizialmente non gli parve di notare nulla di strano e riuscì solo a ricordarsi del fuoco che dentro di lui aspettava ancora di essere sfruttato appieno o spento nel più rude e insoddisfacente dei modi, ma bastò poco perché i suoi occhi cominciassero a notare le imperfezioni che punteggiavano quella pelle candida. Segni che non c’erano mai stati prima.

- Ma che cosa...?

Frank, che fino a quel momento aveva tenuto gli occhi allarmati fissi nei suoi, in attesa, girò il viso da un lato e cominciò a singhiozzare, lasciando che le lacrime bagnassero le lenzuola.

Gerard passò una mano sul suo torace sussultante, gli occhi sbarrati di fronte alle tante cicatrici a forma di cerchio, tutte del diametro di mezzo centimetro circa, che sfiguravano la pelle di Frank immediatamente sotto il collo candido, a destra. Non poté fare a meno di notare e rimanere basito anche di fronte alle strisce rossastre sul ventre, poco sopra l’ombelico, e nel comprendere quale fosse l’origine di quei marchi allentò d’istinto la pressione che stava esercitando sull’intero corpo di Frank.

Seppure in lacrime, il ragazzo ne approfittò subito per scrollarselo di dosso e rannicchiarsi in posizione fetale, le braccia sopra alla testa e l’intero corpo scosso dall’inconsolabilità di singulti sempre più frequenti.

L’incredulità di Gerard fu di breve durata. Non era difficile credere ai propri occhi e a quello che l’esperienza gli suggeriva fosse accaduto al corpo più attraente su cui aveva mai posato gli occhi.

Si sedette a gambe incrociate accanto a Frank e gli mise una mano sulla spalla.

- Chi ti ha procurato quei lividi e quelle cicatrici?

Per qualche secondo ancora, Frank si limitò a piangere, e Gerard si costrinse a rispettarlo e a pazientare. Poi la sua voce giunse tremante, soffocata dal materasso nel tono ma non nell’angoscia: - Tu n-non… non avresti d-dovuto vederlo… i-io non volevo che lo v-vedessi…

- Frank, non è questa la cosa importante. Tu devi solo dirmi chi è stato.

- N-non avresti d-dovuto… - ripeté il ragazzo.

Sospirando, Gerard decise di cambiare tattica. Spostò la mano sulla testa del ragazzo e l’accarezzò più volte.

- E perché non avrei dovuto vederlo, sentiamo.

Frank rimase talmente sbigottito da tale richiesta che si scoprì il volto e piantò gli occhi rossi e traboccanti di lacrime in quelli di Gerard, forse per controllare che non lo stesse prendendo in giro, ma quando si accorse che non era così la collera parve prendere il posto dello sconforto, tanto che il ragazzo si mise seduto e allontanò con stizza la mano dell’altro e il suo tocco gentile.

- Perché me ne vergogno, ecco perché! – esclamò, stravolto dal pianto. – Io stesso non sono altro che una vergogna! Per me stesso, per la mia famiglia, per il mondo! Puttana, puttana… è questo che sento mormorare quando scendo le scale di casa mia, quando vado a comprare qualcosa da mangiare! Perché è quello che sono! Una vergognosa puttana che non sa reagire nè sottostare alle regole del mestiere senza piangersi addosso come un moccioso!

Una volta tornato il silenzio, quando dello sfogo di Frank non rimase altro che l’eco riflesso nel suo respiro affannoso e le sue guance imporporate dalla foga di sputare fuori tutta la sofferenza che invano aveva tentato di ingoiare, Gerard incrociò i suoi occhi verdi e sorrise, lasciandolo di nuovo senza fiato.

- Sai… - sussurrò, spaziando lo sguardo dalle profondità limpide di quegli occhi verdi alle labbra socchiuse e madide di lacrime e allungando un braccio fino a sfiorargli una guancia calda con l’indice. – Sei così bello, anche quando piangi e alzi la voce. E non sei una puttana. Non vivresti in questo posto e non faresti ciò che fai per mantenerti se il mondo non ti ci avesse costretto – Notando il luccichio negli occhi di Frank, il suo sorriso si accentuò: - In poche parole, tu sei una persona meravigliosa, in tutti sensi. E tutto questo, tutta quanta questa merda, non è colpa tua.

Frank cercò di asciugarsi gli occhi con foga: - Gerard…

- Giuro che ti picchio se osi pensare ancora una volta che sia colpa tua.

Si fece più vicino, e inginocchiandosi lo abbracciò, stringendolo fino a far aderire un lato del suo viso al proprio petto. Stretto in quello che sentiva essere un rifugio sicuro, Frank fu libero di dare sfogo alle restanti lacrime, cullato dalla voce rincuorante del maggiore.

- Sistemerò il bastardo che ti ha fatto tutto questo – promise Gerard. – E tu non lo rivedrai mai più. Non rivedrai mai più né lui né qualsiasi altro di quei maiali schifosi. Tu domani mattina vieni via con me.

Lo fece adagiare sul materasso, gli procurò un cuscino da mettersi sotto la testa e si sdraiò accanto a lui, asciugandogli gli ultimi residui di pianto con il dorso della mano per fare posto a un brillante sguardo di stupore e speranza.

- T-ti stai facendo gioco di me? – chiese Frank, sconcertato.

Gerard scosse la testa. – Tu da domani cominci a vivere.

Gli posò un bacio leggero sulle labbra, poi lo attorniò con un braccio per offrirgli protezione e aspettò di udire la delicata cadenza del suo respiro da addormentato per abbandonarsi a sua volta a un sonno senza sogni.

 

   
 
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