The Beauty Mark
Part. VI
Quando arrivo all'attico
degli Waldorf è passato qualche giorno, sento la barba del giorno prima
sfregare tagliente sul palmo della mano, mentre aspetto che l'ascensore mi
porti al piano. Sono certo che Louis ha lasciato NYC e, ora che so tutto,
voglio parlarle ancora. Fosse anche l’ultima volta.
Tra le ortensie
dell'atrio scorgo il viso di Blair assopito dal sonno. Il capo è appoggiato a
uno dei cuscini argentati del divano e le braccia sono conserte sotto il seno.
Sembra così bella e indifesa che un'espressione beata si dipinge sul mio viso
per riflesso. Faccio un passo e il sorriso mi si scioglie: Humphrey è seduto
sulla sponda opposta. Con la mano a ventaglio sorregge un libro, la copertina
recita “Too Much Happiness”1, mentre l'altra è posata sul collo di
uno dei piedi di Blair. Con sgomento mi accorgo di come sono appoggiati
casualmente sulle ginocchia di lui e deglutisco sentendomi inutilmente geloso.
Non riesco a trattenere né la sensazione di possessività che provo nei
confronti di Blair né lo sdegno per Dan. Faccio un altro minaccioso passo e
Humphrey avverte la mia presenza.
Apro la bocca per
sibilare uno sprezzante “Vattene”, ma lui mi zittisce prima che possa dirlo.
Con mio grande disappunto si porta un dito alla bocca: “Ssssh”,
chiude il libro con un solo colpo e, il rumore delle pagine che si scontrano,
fa eco nel salone silenzioso. Poi sposta i piedi di Blair, coperti da una
sottile calza traforata, accoccolandoli da un lato. Lo fa con dedizione, il suo
è un gesto delicato che, ai miei occhi, risulta fin troppo premuroso. Si alza
dal divano, con lo sguardo colpevole e le mani incrociate dietro la schiena.
Balbetta delle scuse che faccio finta di ascoltare: da quando Serena è a LA la loro
bizzarra liaison è sulla bocca di tutti e frulla anche nella mia mente
sospettosa, ma non ho il tempo di occuparmi concretamente di un così
insignificante avversario.
“Ci sono io con lei,
puoi andare” lo liquido fingendo diplomazia. Me lo lascio alle spalle facendo
qualche passo verso Blair ancora addormentata, pensando che Dan capisca
l’antifona e che se ne vada subito. Humphrey, invece, si trattiene ancora: “Le
stavo leggendo un libro…” mi informa. Poi, non
sentendo risposta, aggiunge “… ma poi si è addormentata”. Sorride leggermente
tra se e sé, compiaciuto, ma da me riceve solo uno sguardo arrogante e uno
sbuffo di disinteresse.
Lo vedo andare via, poi
esita e si volta di nuovo: “Blair in questi giorni è stata bene”.
Rimango qualche secondo
a pensare quanto la sua pedante, e assolutamente non richiesta, preoccupazione
per la felicità di Blair mi dia allo stomaco. Odio il modo in cui Dan riesce
sempre a insinuare che io abbia una cattiva influenza su di lei, che sia io -
in qualche modo - la fonte del suo dolore.
Il mio sguardo va solo
per un attimo a Blair addormentata, poi mi rivolto verso di lui deciso a
troncare qualsiasi sua illusione: “Ha sorriso?” gli chiedo in tono di sfida,
sicuro di me. Il buio di Blair era troppo pesto questa volta, ne ero convinto.
“Quasi” tenta, dopo
qualche secondo di esitazione.
“Come pensavo…” rispondo in tono presuntuoso “E ora se non ti dispiace…” lo congedo definitivamente, slacciandomi il
blazer e sedendomi sul divano. Sento le porte dell’ascensore chiudersi e mi
sento libero di sporgermi verso di lei.
Blair è fredda e priva
di sensi. Mi fa quasi paura e mi sembra ancora più lontana, come se non fosse
con me. Non voglio che dorma ancora: mi sembra solo un inutile trucco che la
sottrae alla luce e alla vita. Al suo risveglio il dolore sarà ancora lì. Le
accarezzo una guancia delicatamente con il dorso della mano, chiamando il suo
nome, ma non resisto alla tentazione di massaggiarle il collo, di far scorrere
le dita sul suo petto e sul suo ventre. Mentre l’accarezzo sento un senso di
imbarazzo e di tenerezza, misto a tristezza e a malinconia per quella pancia
così piatta in cui prima si nascondeva qualcosa, o meglio qualcuno. Poi si
sveglia: i suoi occhi sono semi aperti e opachi. Alza un braccio per sfiorarmi
il viso con la mano, le sue dita accarezzano dolcemente il mio profilo. Forse
sente la barba pungerle i polpastrelli e sembra felice di vedermi.
“So tutto” le
dico brevemente continuando a guardare imbambolato il suo bel viso.
Blair apre gli occhi per
davvero, le sue pupille si stringono e sembra mettermi più a fuoco. Devo averla
turbata a morte perché si tira su con la schiena velocemente e allontana le
dita dal mio mento come se l’avessi ustionata.
“Che cosa sai…?” mi chiede senza guardami.
“Il vostro segreto, tuo
e di Louis” dico pacato.
Blair mi guarda aprendo
un po’ la bocca come se fosse sorpresa, sbatte le ciglia piano e, con un
esitante movimento della mano, si ravviva i capelli. Tira un lungo sospiro
prima di esprimersi e le parole le escono a fatica: “Louis l’ha saputo il
giorno dell’incidente, non gliel’ho detto io” fa una pausa e poi mi chiarisce:
“E’ un nostro segreto, mio e tuo” concedendomi anche un
sorriso spezzato, mentre i suoi occhi perdono vivacità. Sembra sciogliersi in
quella confessione.
“Non capisco” sussurro
trasalendo. Non mi ero dato il permesso di riflettere troppo. Per proteggermi
non mi ero lasciato andare a congetture fantasiose, avevo preso in mano le
indagini di Andrew Tyler per ciò che erano. Fatti e certezze.
Blair attende senza dire
altro, sa che avrei capito, mi sarebbe bastato solo un altro secondo.
“Come puoi essere sicura
che fosse mio?” sbotto nel silenzio, distogliendo subito gli occhi dal suo
viso.
Blair comincia a
raccontare debolmente: “Ho fatto il test all’inizio dell’estate, prima di
partire per Monaco, solo qualche ora prima che Louis venisse a prendermi…”
“Questo non prova nulla…!” la interrompo a denti stretti e con voce
tagliente.
“Louis era a Manhattan
solo da sei settimane, non avevamo ancora…”
lascia la frase lievitare nel vuoto. In quel breve attimo, che mi serve per
realizzare il tutto, ricordo la sera in cui Blair era venuta verso di me e
spinto in una stanza del Plaza. La porta, solo
accostata, mi aveva fatto provare un brivido di eccitazione e l’avevo vista
avvicinarsi con lo sguardo basso. Indossava un abito scuro e sinuoso, con
un’esplosione di luce sul petto e uno spruzzo di boccioli e petali rosa. Ignaro
di tutto mi ero lasciato afferrare per la giacca: il diamante torbido che
indossava non le aveva impedito di baciarmi, boccheggiando come se le mancasse
ossigeno. Impossibile allontanarla, o cercare di impedire alle mie mani di
toccarla o di slacciarla il vestito sulla schiena. Il suo profumo mi aveva
stordito facendomi quasi uscire di senno.
“Sei partita sapendo che
aspettavi nostro figlio?” la accuso, urlando quell’assurdità
che mi fa stringere il bordo del blazer. Le vene della mano si gonfiano e il
tessuto pregiato si stropiccia all’istante.
“Ho pensato fosse un
falso positivo, volevo che lo fosse, lo volevo così disperatamente…”
ammette senza nessuna vergogna.
“Cosa pensavi? Che
sarebbe sparito?” continuo a gridare “Complimenti ci sei riuscita, hai ottenuto
ciò che volevi” così dicendo, mi alzo e vado verso l’ascensore senza voltarmi
indietro e senza sapere più chi sono. Non ho una famiglia, non
l’avrò mai. Quelle stesse mie parole tuonano nella mente come un infausto
destino al quale non mi posso sottrarre. Blair aveva detto che sarebbe stata
per sempre la mia famiglia, un ricordo dolce, una promessa a cui avevo creduto
e alla quale mi ero affidato, come un bambino ingenuo.
Lei mi insegue subito
mettendosi davanti a me e impedendomi di passare. Si porta la mano sinistra,
sprovvista del mio anello, sopra la bocca spalancata per l’agitazione: “Ero
sola! Non sapevo cosa fare! La principessa Sophie mi
stava con il fiato sul collo, avevo in mente di andare in una clinica privata
per accertarmene, ma avevo paura di scoprire la verità, di finire sulla bocca
dell’intera corte… non volevo mettere
nessuno in imbarazzo, sarebbe stato uno scandalo… e
poi l’ho perso prima che potessi essere sicura…”
dice tutto ad un fiato gesticolando appena. Poi si ferma e, in quel silenzio
tombale, sembra capire che sono solo inutili scuse e che non ho intenzione di
accettarle.
“Non saresti mai dovuta
partire” soffio categorico, enfatizzando la parola “mai” con un gesto secco.
Vedo Blair al limite
della disperazione: “Appena sarei stata sicura di essere incinta sarei tornata…” dice tra i singhiozzi “Sono tornata” conferma in
tono fermo, per dare valore a ciò che aveva fatto.
Io non riesco ad
ascoltare una parola di più: Blair è tornata, ma è come se non lo fosse.
Sarebbe tornata da me solo per mio figlio, era questo che stava dicendo. Non la
vedo più, né lei né il suo amore per me. Il suo corpo esile, fasciato di un
tessuto color fumo, sparisce dalla mia vista e sento un immediato senso di
benessere. E’ così liberatorio guardare altrove e non mi è difficile superarla
di nuovo, avviandomi a grandi passi verso l’ascensore. Lei però non riesce a
lasciarmi andare, mi prende per la manica della giacca e la sua voce flebile,
ma accusatoria - che le viene dal profondo - mi arriva alle orecchie: “Tu mi
avevi mandata via”.
Mi volto ferito da
quell’affronto, la bocca mi si piega in un’espressione di cocente delusione:
“Ho solo scambiato la mia felicità per la tua, non potevo immaginare che
sarebbe costata la vita di mio figlio”.
Rimango fermo qualche
istante, stordito quanto lei dalle mie parole. Blair sbatte le ciglia
velocemente e le lacrime scendono copiose. Si zittisce e la pressione del suo
pugno sulla mia manica si allenta sconsolato. Sono libero di andarmene, così mi
volto di nuovo e le porte scorrevoli dell’ascensore si chiudono alle mie
spalle.
Note:
1 . “Too Much Happiness” è un libro
di Alice Munro che ho
trovato nella lista dei preferiti da Dan sul sito della CW.
*
Grazie a tutti i
lettori, anche a quelli silenziosi. Il prossimo capitolo sarà quello
conclusivo, spero davvero di non deludervi. Mi raccomando di farmi sapere cosa
ne pensate dell’aggiornamento, mi fa sempre piacere ricevere un commento, anche
critico, non siate timidi (: