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Autore: Will P    15/08/2011    5 recensioni
"Probabilmente non ci fa una gran bella figura come detective a non aver capito di trovarsi in un bar gay."
Genere: Commedia, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Danny Williams, Steve McGarrett
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: No, non sono miei, ed è una cosa che mi devasta nell'animo.
Note: Clichè! Mistaken for gay! Danny è un piacere da far lamentare e potrei mandarlo avanti per delle ore.


Bar Seven

«Dimmi ancora perché sono con te in questa macchina alle,» occhiata all’orologio «all’una meno dieci, ora in cui la gente normale è a casa a dormire o guardare televendite di pentole con l’insonnia o fare qualcosa che di sicuro non è lavorare. Dimmelo Steven, ti prego, e cerca di dare un senso alle tue parole.»

Steve gli lancia un’occhiata impressionata. «È un bel po’ di nonsense anche per te, quello.»

Danny incrocia le braccia al petto e lo fulmina. Sa benissimo che quando è stanco tende a blaterare un po’ più liberamente del solito, ma non si farà distrarre. Mancano dieci minuti all’una ed ha tutto il diritto di essere stanco e lamentarsi come e quanto vuole e soprattutto di avere delle risposte, dannazione.

«Kaiwi è un cliente fisso del Seven, e trovare qualcuno in quel posto prima di mezzanotte è una scommessa persa in partenza.»

«Ma perché ora, è quello che mi chiedo. Perché non andare con l’amichevole luce del giorno e chiedere informazioni in giro in attesa di, che ne so, oh, ecco!, un mandato d’arresto per questo tizio?»

Steve si volta verso di lui, con quel sorrisetto che crede tanto affascinante e Danny invece vorrebbe solo prendere a sprangate, e ha anche il coraggio di alzare un sopracciglio. «Avevi qualcosa di meglio da fare?»

«Io? Di meglio? No, certo, cosa potrebbe fare una persona nel cuore della notte di più importante? Non lo so,» distende le braccia e alza le mani e urla «dormire, per esempio?»

Steve ride gioviale, quel robot pazzoide a batterie all’uranio, cambia marcia e preme l’acceleratore lasciando Danny ad aggrapparsi alla maniglia dello sportello e rimuginare sul perché sia salito su quella macchina quando è arrivata strombazzando sotto casa sua. Probabilmente il pensiero di Steve a piede libero per le strade di Honolulu gli avrebbe fatto venire gli incubi e non sarebbe riuscito a dormire comunque, ecco perché.

E poi ha un po’ voglia anche lui di prendere questo spacciatore del cavolo il prima possibile, okay, e farsi dire dove trovare quel figlio di puttana che con la scusa di gestire il traffico di coca sull’isola ha pensato che non sarebbe male metter su anche un piccolo giro di prostituzione, e pazienza se qualche ragazza ci resta secca. L’ultima vittima aveva quattordici anni, Cristo.

«Quanto ci stai mettendo?»

Quell’occhiata, quella che dice oh Danno, quanto sono contento quando la pensiamo allo stesso modo – che è una sua pura illusione per il semplice fatto che Danny ha ancora un istinto di sopravvivenza e Steve, chiaramente, no – lo irrita enormemente, ma per fortuna sono arrivati.



Steve parcheggia con la sua solita maestria mentre Danny si sporge a guardare la piccola folla premuta all’entrata del locale. «Bar Seven,» dice tra sé e sé, scendendo dall’auto, poi ridacchia «Che fine hanno fatto gli altri sei?»

«Ai miei tempi si chiamava Venus,» dice Steve, con il tono piacevolmente sorpreso di ogni volta che Danny si fa sfuggire un commento positivo o almeno neutro sulla sua isola.

«Ai tuoi tempi? Cosa, McGarrett? Hai un passato da rave di cui non so niente, huh?»

Steve allunga il passo, ma Danny resta incollato al suo fianco a ridere. «Questo posto era famoso, quando andavo al liceo. Giravano storie allucinanti, pareva ci fosse una sparatoria ogni sera.»

«Oh, era il tuo locale preferito.» Danny riesce a vederselo, baby Steve in cargo e giubbotto della squadra di football che fa il suo ingresso trionfale nel locale con un coltello tra i denti.

«Era un night,» dice Steve, roteando gli occhi.

«Quindi era il tuo locale preferito.»

«Avevo sedici anni quando me ne sono andato, tu che dici?»

Ouch. Ogni tanto si scorda la storia della famiglia McGarrett, ma con la sua boccaccia non riesce mai a parare il danno in tempo. Ora potrebbe scusarsi, o dargli una virile pacca sulla spalla, o fare nobilmente finta di niente, ma – sbircia il suo compagno mentre quello scruta la folla – non sembra arrabbiato. Ha la faccia da sono un SEAL e sono in missione, fuori dai piedi e okay, va bene, con quella sa cosa fare.

Ma prima c’è il problema del riuscire ad entrare. È quasi l’una di notte ma sembra che Honolulu si sia svegliata adesso: ci sono dozzine di persone accalcate all’entrata, alcune già bottiglia alla mano, ragazzi e ragazze del luogo in pantaloncini strappati e vestiti succinti fino a tenute che hanno francamente dell’indecoroso.

«Dico solo,» attacca, mentre si infilano tra un gruppo di ragazzine ridacchianti e quelli che devono essere i sopravvissuti di una festa di compleanno, a giudicare dagli scoppi di coretti ubriachi «Che se a Grace venisse mai in mente di vestirsi così,» ed indica confusamente i tanga a vista e i top di paillettes da cui sono circondati «Sarei costretto ad arrestare tutti gli schifosi che si azzardano anche solo a passarle accanto. E poi a cercare un buon convento.»

Steve ride, una risata calda che gli fa capire che lo trova ridicolo, e si ritrova a sorridere anche lui mentre mostrano i distintivi alle guardie all’ingresso ed entrano nel locale.

Sono investiti subito dall’odore di chiuso e dalla musica, qualcosa di elettronico e pieno di bassi che riesce ad avere comunque un sottofondo di hawaiianità inconfondibile. La sala è ampia, dal tetto basso, l’arredamento nuovo moderno tipico di chi puntava allo chic e si è ritrovato a braccetto col kitsch; ci sono schermi al plasma lungo le pareti, e luci soffuse rosa e verdi e azzurre che illuminano ognuna un bar diverso, tutti sparsi per il locale. Dopo la confusione all’esterno l’interno sembra mezzo vuoto, con la pista semideserta e un po’ di gente ai tavoli, ma tra le persone in fila e quelle che continuano ad arrivare senza sosta non è difficile capire che in pochi minuti non ci sarà nemmeno spazio per camminare. Questo spiega la quantità di guardie che gironzolano da un bar all’altro, almeno.

«Be’,» urla Danny, con un cenno del capo verso l’angolo del locale dove troneggia un palco da pole dance. «Sofisticato.»

«Io prendo la security,» urla Steve di rimando, già in modalità missione mentre si guarda intorno, catalogando tutto nella sua memoria robotica. «Tu pensa ai bar.»

Danny risponde facendo un mezzo saluto militare e Steve alza un sopracciglio, anche se si vede che si sta sforzando di non sorridere, prima di muoversi. Tempo di mettersi al lavoro.

La ragazza che lavora al primo bancone – un pugno in un occhio di luce fucsia che rimbalza sulle bottiglie lucide e le linee affusolate dei mobili, una cosa che manderebbe Grace in estasi – è gentile e disponibile, ma non ricorda di aver mai visto il loro spacciatore e Danny la lascia tornare ai suoi clienti, che iniziavano ad affollarsi alle sue spalle.

Il secondo bar è tutt’altra cosa rispetto al primo, e ad essere sinceri gli ricorda in qualche modo il suo appartamento – semplice, un po’ squallido, con bicchieri spaiati e soprammobili imbarazzanti piazzati un po’ ovunque. Nonostante tutto c’è un discreto capannello anche lì davanti e Danny deve aspettare qualche minuto prima che il barista noti lui o il distintivo che sta scuotendo in mano. Il ragazzo lo guarda sorpreso, spillando una birra dietro l’altra, le passa con un cenno distratto agli ultimi clienti del momento e si avvicina, asciugandosi le mani sul grembiule.

«Detective Williams,» dice, e riaggancia il distintivo alla cintura per prendere la foto del loro uomo. «Stiamo cercando questo tizio, Kaiwi Mahoe. L’hai mai visto qui in giro?»

Il ragazzo si acciglia e prende la foto per guardarla meglio. «Sì, bazzica spesso qui intorno. Ogni tanto viene da me, ogni tanto cambia bar… cos’ha fatto, è pericoloso?»

«No, dobbiamo solo fargli delle domande,» e se nel processo dovesse perdere uno o due denti sarebbe una semplice coincidenza, sissignore «C’è qualcuno che lo conosce bene? Qualcuno che sa i suoi orari?»

«Be’,» dice il barista, appoggiando la foto sul bancone e sporgendosi in tono cospiratorio. A Danny viene da ridere ma si avvicina anche lui, perché la musica nel locale sta facendo degli strani alti e bassi e al momento il volume è decisamente sul troppo alto. «Non arriva mai prima dell’una, spesso anche più tardi. Si prende una birra e poi va in giro, chiacchiera, e ogni tanto si porta fuori qualche ragazza. O qualche ragazzo.»

«Amici?»

«No, è sempre uno diverso. Sembra un tipo popolare.»

«Okay, senti, vedi qualcuno che lo possa conoscere? Qualcuno che ti ricordi essere uscito con lui?»

Il ragazzo – ragazzino, veramente, con quegli occhioni grandi e i capelli troppo lunghi tutti scompigliati – si guarda un po’ intorno poi scuote il capo. «No, mi dispiace.»

«Ehi, piccolo, non ti preoccupare.» Si fruga in tasca, tirando fuori un bigliettino. «Se ti ricordi qualcosa o se questo Kaiwi si rifà vivo chiama questo numero, per favore, ci aiuteresti davvero.»

Quello gli si avvicina con uno sguardo strano. «Certo, agente,» dice, con un sorriso, poi si morde un labbro e procede a togliergli il biglietto da visita di mano, lentamente, sfiorandogli le dita con le proprie in un gesto che ha molto poco di casuale. Dopodiché se lo mette in tasca e torna a guardarlo sbattendo le ciglia.

Deve essersi perso un passaggio.

Si guarda intorno perplesso e si rende conto che i gruppi di ragazze in vestiti troppo corti e ragazzi in vestiti troppo attillati non si stanno mescolando. Sono molto compatti, anzi. Molto compatti, specialmente negli angoli bui. Probabilmente non ci fa una gran bella figura come detective a non aver capito di trovarsi in un bar gay.

Intanto, distratto dalla realizzazione, non si è mosso e il ragazzino ha continuato a sporgersi sul bancone risalendo con quella manina fino al suo gomito. «E se volessi parlare direttamente con lei, come potrei fare?»

Danny sbuffa incredulo, perché seriamente. È uno scherzo? «Guarda,» attacca, poi deve ricacciare giù una risata isterica e decidere cosa dire per fargli capire che potrebbe essere suo padre senza offenderlo e senza uscirne lui stesso con l’orgoglio calpestato. Non è proprio una cosa di cui vantarsi, ma in vita sua non ha mai dovuto respingere tutte queste proposte (e non perché di solito le accettasse). Soprattutto non da uomini. La situazione non potrebbe essere più surreale di così.

«Danno!» sente allora dietro di sé – perché naturalmente doveva portarsi sfiga da solo – e rotea gli occhi in attesa della pacca sulla spalla o del colpetto al braccio o della folata di vento provocata da una corsa a perdifiato dietro il cattivo di turno, pistola spianata e luce maniacale negli occhi, che sa essere in arrivo.

Quello che non si aspetta sono le dita che si curvano possessive sul suo fianco e sentire il petto di Steve contro la propria schiena, solido, caldo, mentre Steve si piega su di lui e gli dice, piano, quasi sfiorando la curva del suo orecchio con le labbra, «Abbiamo una pista.»

Okay, questo è… no.

Danny si volta – no, prova a voltarsi, ma è incastrato contro il bancone ed è costretto ad appoggiare la guancia alla spalla di Steve perché lo psicopatico è ridicolmente alto e vicino e sinceramente preferirebbe non parlare con il suo collo, perché a questa distanza sembra così lungo e tenero e gli piacerebbe veramente tanto morderlo. Che è un pensiero che non dovrebbe avere né ora né mai, ma specialmente non ora.

Solo che non può parlare con lui, perché Steve non lo sta guardando. Sta guardando negli occhi il barista, ed ha lo sguardo che dice con la limpidezza di un’insegna al neon sei fortunato che ho qualcun altro da arrestare o saresti già a far compagnia agli squali. Il tutto mentre si preme contro Danny come se il suo più grande sogno nella vita fosse quello di fargli da coperta umana, ancora così vicino che può sentire il suo fiato scivolargli sul collo, ancora con le dita che bruciano sul suo fianco come se non ci fosse il cotone della camicia in mezzo, e Danny, Danny ha seri problemi a pensare in questo frangente.

«Steven,» dice, ed è uscito piuttosto bene, nessun tremolio, nessun acuto, si sente molto fiero di sé… quindi è il segnale per Steve di voltarsi e puntare su di lui quello sguardo impossibile e Cristo, non l’aveva mai visto da così vicino. Dovrebbero, ecco, dovrebbero impedirgli di guardare la gente in quel modo. Perché è, uh… cosa doveva dire?

Registra vagamente il ragazzo lì davanti balbettare delle scuse concise e filarsela – giusto, furbo, approfitta della belva che è distratta – come vagamente realizza che sarebbe il suo momento di dire qualcosa, invece di starsene lì a fissare le labbra di Steve, che sono socchiuse e lucide e ha già detto vicine?, perché lo sono, davvero tanto.

Poi Steve sbatte le palpebre, in maniera quasi comica, sgrana gli occhi come se si accorgesse solo in quel momento di avere lui tra le mani, letteralmente, e fa un passo indietro che non è tanto un passo quanto la cosa più simile ad una caduta di culo che un SEAL possa permettersi. E inizia a parlare.

Danny lo sta fissando come se- anzi no, cancella, con la certezza che sia pazzo e sta per chiedergli gentilmente che cosa fosse quello (solo con più parole, e molto più gesticolare) quando, all’improvviso, trovano il loro spacciatore.

Perché si piazza tra di loro per ordinare una birra.

No, davvero.

Questo naturalmente non vuol dire che non riescano a rompere una finestra e devastare il bagno in un inseguimento, perché Steve McGarrett ha degli standard da mantenere. Danny si trova a domandarsi quali moduli vadano compilati per i water distrutti in servizio, e ormai non perde nemmeno tempo a ricordarsi che, nel Jersey, non avrebbe mai avuto bisogno di sapere cose del genere.

Dopo non ha tempo per tornare sulla questione perché sono troppo impegnati a portare lo spacciatore al quartier generale e ad interrogarlo, cercare partite di droga come se fossero dei dannati segugi, scovare le prove per ricondurle tutte allo stesso figlio di puttana, trovarlo, arrestarlo e finalmente andare tutti a casa a morire, e in tutto ciò Steve non dice nulla. Danny sa che ci sarebbe qualcosa da dire – anche se non sa bene cosa – e non è mai stato il tipo da farsi sfuggire l’occasione per aprire bocca, ma per stavolta decide che può anche lasciar correre.

Sono stanchi, dopotutto, e Steve è pazzo. Forse credeva che… non ne ha idea, che il tipo del bar stesse per accoltellarlo in mezzo al locale o qualcosa del genere. Forse è un’arcana tecnica d’interrogatorio SEAL. Sarà magnanimo e farà finta di niente, perché dopotutto non vuole far pesare a Steve il suo essere psicologicamente disturbato, se la cosa, per una volta, non è direttamente lesiva per la sua persona.

Il fatto che continui a pensarci per una settimana, giorno e notte (soprattutto la notte, oddio, oddio), è solo segno che è molto più stanco di quanto avesse creduto in un primo momento.




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A titolo informativo, il Bar Seven esiste ed è un locale prevalentemente ma non esclusivamente gay fuori dal circuito turistico di Honolulu. L'ho amato subito perchè tra i commenti c'erano cose come "Hey maybe you will catch an occasional gun shooting" e "cops are everywhere" *ride* Purtroppo non ho trovato foto, ma c'è la pagina facebook.

Will

   
 
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