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Autore: LaMicheCoria    16/08/2011    4 recensioni
Semplicemente, se così si poteva dire, Francis non avrebbe dovuto incatenarlo ad una storia che non avrebbe avuto futuro: era logico, lampante, palese, che non ci sarebbe stato futuro. Anche a disegnarlo, la pioggia di Londra avrebbe fatto sbavare l’inchiostro, fino a rendere le curve gentili delle labbra del parigino solo uno scarabocchio orribile e grottesco.
[Dimmi dimmi, mio Signore, dimmi se tornerà, quell’uomo che sento meno mio ed un altro mi sorride già. Scaccialo dalla mia mente, non indurmi nel peccato: un brivido sento quando mi guarda e una rosa egli m’ha dato] [UsUk // FrUk] [Ispirata alla canzone "Pescatore" di Pierangelo Bertoli]
Genere: Introspettivo, Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: Rosa Rossa Malaspina
Autore:  Nemeryal
Fandom: Axis Power Hetalia
Rating: Giallo

Genere: Slice of Life, Triste, Introspettivo
Avvertimenti: OneShot, Missing Moments, Shonen-Ai , AU
Personaggi: Arthur Kirkland/Inghilterra, Alfred F. Jones/ America,Francis Bonnefoy/Francia

Pairing: UsUk // FrUk
Musica: Pescatore – Pierangelo Bertoli
Trama: Semplicemente, se così si poteva dire, Francis non avrebbe dovuto incatenarlo ad una storia che non avrebbe avuto futuro: era logico, lampante, palese, che non ci sarebbe stato futuro. Anche a disegnarlo, la pioggia di Londra avrebbe fatto sbavare l’inchiostro, fino a rendere le curve gentili delle labbra del parigino solo uno scarabocchio orribile e grottesco.
[Dimmi dimmi, mio Signori, dimmi se tornerà, quell’uomo che sento meno mio ed un altro mi sorride già. Scaccialo dalla mia mente, non indurmi nel peccato: un brivido sento quando mi guarda e una rosa egli m’ha dato]

Dedica: a Silentsky
Note: Vi ho già detto che vi amo? No? Bene, vi amo. Vi amo tutti. Con tutte le vostre recensioni mi avete fatto piangere per la gioia. Non sapete, davvero, non sapete quanto vi voglia bene. Grazie, grazie a tutti voi.
Ho scritto questa fan fiction senza pensare, trascinata solo dalle parole della canzone, bella, commovente e terribile. Erano mesi che volevo scriverla e oggi ho chiuso gli occhi, ho fatto partire la riproduzione e si è scritta da sola. Forse è per questo che in molte parti sembra tanto un flusso di coscienza, un rimestare di sentimenti contrastanti. Era questo che vuole creare, spero solo di esserci riuscita. Spero anche di aver creato un Arthur decente. Se è OOC dite e io inserirò l’Avviso :3 Che poi, potrei scrivere una Long Fic "prequel"  a riguardo. Boh !

Della canzone esistono due versioni:

  • Questa     Cantata dal solo Bertoli [e che io preferisco]
  •  Questa  Cantata da Bertoli e dalla Mannoia [che non mi fa impazzire, ma mi sembrava perfetta per la fiction]

E ora corro a rispondere alle vostre splendide recensioni :3

 

 

Rosa Rossa Malaspina

 

 

 

 

-Lui chi è?-
Oh, Francis non dovrebbe essere lì, non dovrebbe esserci affatto, e se c’è, se non può proprio essere da nessun’altra parte, che almeno abbia la compiacenza di starsene zitto. Al mal di testa di Arthur –vero o palesemente inventato che sia- non fa bene vederlo vagabondare nudo per la stanza, con le ciocche bionde attaccate alle tempie e al collo per il sudore. E no, decisamente, non per il caldo.
-Lui chi?- chiede Arthur, coprendosi gli occhi col braccio e cercando dentro al palato una traccia di alcool, anche minima, insignificante, ma bastevole a spiegare tutta quella assurda situazione.
-Lui- risponde semplicemente l’altro, inginocchiandosi sul materasso e gattonando verso l’inglese, la cornice staccata dal muro ben stretta tra le dita –Quello che è con te nella foto-
Arthur borbotta qualcosa e si mette seduto, con la schiena scossa dai brividi poggiata contro la testiera del letto. Afferra la foto, anche se sa benissimo quale sia, e la fissa per alcuni istanti, nel vano tentativo di sembrare concentrato nello sforzo di ricordare ogni cosa –dal nome al codice fiscale- del ragazzone biondo che gli ha messo un braccio attorno alle spalle e sorride ebete davanti all’obiettivo.
-Alfred- risponde l’inglese dopo un po’, non riuscendo più a sopportare gli occhi indagatori di Francis –Alfred F. Jones-
-Il tuo ragazzo?-
La gola di Arthur si fa secca d’improvviso, la lingua pesante e la saliva ristagna tra le labbra violacee.
La domanda dell’altro lo ha lasciato del tutto spiazzato e la voce non pare avere la minima intenzione di correre in suo aiuto. Tossisce una, due, tre volte, nella speranza di ritrovare il respiro conficcatosi nei polmoni.
Ecco, quello è un altro motivo per cui Francis non dovrebbe trovarsi lì, nudo, nella sua stanza, sudato, con le labbra schiuse a scoprire appena i denti, come fosse pronto a morderlo sul collo. Di nuovo.
Non solo. È un ulteriore motivo per cui non dovrebbe trovarsi proprio lì, a Londra, in Inghilterra, sull’intero continente britannico. Non sarebbe dovuto venire, non sarebbe dovuto entrare nella biblioteca, non avrebbe dovuto invitarlo a bere un bicchiere, non avrebbe dovuto guardarlo, non avrebbe dovuto seguirlo ogni santo giorno, non avrebbe dovuto chiamarlo ogni santa sera da otto mesi a quella parte, quando la solitudine si faceva tanto opprimente da soffocarlo, fino a piegare i muri, attorcigliare le finestre, appallottolare il cielo.
Non avrebbe dovuto regalargli quella maledetta rosa che ora riposava sul comodino, sfiorarne i petali con quelle stesse dita che lui aveva afferrato in un momento in cui la sua mente era andata in totale black out, e la solitudine, non scelta come la voleva lui, una di quelle che si creava per poter stare in pace, no,  una solitudine fredda in cui l’avevano costretto, rinchiuso, senza che potesse ribellarsi, si era fatta più forte di ogni cosa.
Semplicemente, se così si poteva dire, Francis non avrebbe dovuto incatenarlo ad una storia che non avrebbe avuto futuro: era logico, lampante, palese, che non ci sarebbe stato futuro. Anche a disegnarlo, la pioggia di Londra avrebbe fatto sbavare l’inchiostro, fino a rendere le curve gentili delle labbra del parigino solo uno scarabocchio orribile e grottesco.
-Una…una specie- gracchia Arthur, posando la foto e concentrandosi sul groviglio di coperte che gli copriva il ventre.
Si lascia andare ad un sospiro, perché già lo sa che Francis sta per alzarsi ed andarsene, forse urlando, forse in silenzio, perché non gli ha detto di Alfred, della loro sì-no-forse relazione che nemmeno loro sanno quando è cominciata, ma continua ad andare avanti fra alti e bassi, fra i viaggi dell’uno e gli studi dell’altro.
-Alfred..? E’ un bel nome-
Di nuovo, il francese lo stupisce. Lo stupisce e lo fa imbestialire, perché se se ne andasse almeno la loro storia sarebbe finita lì, in una sola notte, senza conseguenze. Ma se Francis continua a restare, a rimanere fra le lenzuola, a sorridere, mormorare, sospirare, allora Arthur sente che quelle catene si fanno più forti. E più si fanno forti, più la sua determinazione a spezzarle viene meno.
-Dov’è adesso?-
-In Russia- risponde l’inglese a bruciapelo.
-In Russia?-
-Per lavoro- spiega allora –E’ li per qualche assurdo affare fra la sua compagnia ed un magnate dal nome impronunciabile, credo Braginski-
Francis tace e poggia il mento contro il palmo. Nonostante non ci sia alcuna espressione a piegargli le labbra o a corrugargli la fronte, il suo viso non è privo di calore.
-Da quanto è via?-
-Otto mesi-
L’inglese finalmente si gira e certo non si aspetta di trovarsi il volto dell’altro così vicino al suo.
Gli manca il respiro e il cuore accelera i battiti, gli batte contro il petto come a dire Stop it! Stop it! Not again! Not again! ma, come in un sogno, sente il profumo graffiante della rosa che gli si aggrappa addosso e il fiato, privo di qualsivoglia ombra di alcool, oramai è inutile girarci attorno, già si intreccia a quello caldo del francese.
-Se tu fossi mio- sussurra questi –Se tu fossi mio, Arthùr, non ti lascerei mai.
-Ogni giorno, ogni ora, ogni istante, ti sarei vicino, perché non potrei fare a meno di te, della tua voce, del tuo respiro, dei tuoi occhi. Sì, persino delle tue sopracciglia- un riso appena soffocato e l’inglese ha una voglia tremenda di fracassargli le ossa una ad una –Saresti mio, solo e soltanto mio. Je t’aime, mon Arthùr e se fossi mio non ci sarebbe magnate russo a fermarmi, a tenermi lontano da te per dimostrartelo ogni momento-
Che siano solo una marea di cazzate pre-sesso l’inglese lo sa benissimo, e forse glielo ringhia pure in un orecchio mentre gli artiglia le spalle e trattiene un gemito tra le labbra.  Lo sa, lo sa, lo sa, lo sa eccome, ma ha bisogno di crederci comunque, anche senza darlo a vedere a nessuno, nemmeno a se stesso, perché non ce la fa, non ce la fa proprio a sopportare una solitudine durata otto mesi, seguita ad un’altra di sei ed un’altra ancora di dodici. 
Sa che sono solo idiozie e che al primo volo Francis partirà e se ne tornerà a Parigi, ma in quell’istante, in quel solo momento in cui gli sfiora le labbra e gli affonda le dita tra i capelli, Arthur non ce la proprio a non pensare. A non sperare. A non pregare che Alfred rimanga in Russia per mesi, mesi e ancora mesi, perché solo finché Francis parla e gli racconta tutte quelle sciocchezze le pareti della stanza si aprono come i petali di una rosa e lo lasciano davvero respirare.

 

 

***

 

-Damn!-
Arthur, già di per sé, odia la sveglia.
Quando poi la sveglia altri non è che la suoneria del cellulare, allora la cosa si fa oltremodo fastidiosa. Anche perché c’è una sola persona cui abbia messo l’inno americano come avviso di chiamata.
Ed è un istante prima che la consapevolezza lo faccia ribaltare sul materasso, afferrare il cellulare, girarsi di scatto verso Francis –addormentato su un fianco e col viso rivolto dall’altra parte-, e rispondere, la voce più bassa possibile.
-Hi! Indovina un po’?-
-Cosa? Cosa?!- sibila l’inglese con le gambe d’improvviso pesanti –Che c’è? Che hai da chiamarmi alle tre di notte?-
-C’è, Arthie- dice l’americano, con tono tutto sghignazzante –Che sarò lì per l’ora di pranzo-

 

***

 Non sa, Arthur, quanto ha dormito.
Quando apre gli occhi, e le palpebre sono così pesanti che prega, come da un bel po’ di mesi a quella parte, che sia solo colpa di una brutta sbornia, si accorge che il sole è già alto. Basta uno sguardo all’orologio della cucina per constatare che sono le dieci del mattino.
Come ci è finito lì, in cucina, non è difficile da dire o da ricordare: c’è stata la chiamata di Alfred, la felicità, la disperazione, il sollievo, la colpa.
Arthur ha camminato come ubriaco per l’appartamento, lasciando Francis a dormire fra le lenzuola, fino a quando non è capitolato su una delle sedie davanti al tavolo, dove si è preso la testa fra le mani. Senza nemmeno avere la forza di pensare. Perché, infondo, non c’è niente da pensare, ma tutto da agire.
Fare qualcosa, qualsiasi cosa che non sia pensare, che non sia rimanere bloccato con la testa tra le mani e la netta consapevolezza di essere caduto nel baratro, in catene, e senza possibilità di liberarsi.
Da una parte c’è Alfred che arriva, che sta arrivando, e dall’altra Francis che..
Un lampo e Arthur è in camera. Shit, se Alfred entrasse in quel momento e vedesse il francese addormentato, nudo, fra le lenzuola..ma non c’è pericolo.
Francis, semplicemente, non c’è.
E l’inglese un po’ se l’era aspettato, eh. Lo sapeva che la chiamata di Alfred non aveva svegliato soltanto lui, anche perché di solito, quando Francis dorme, emette un rumore strano, a metà tra un rantolo ed una sottospecie di gracidio.
Quindi sì, Arthur lo sapeva che, entrando, non avrebbe trovato nessuno. Anche se un po’ ci ha sperato, anche se un po’ ha davvero creduto alle parole del francese, anche se un po’ ha davvero voluto che Alfred non tornasse mai dal suo viaggio in Russia.
Forse è quello che lo ha svegliato.
Non il sole, non l’ora tarda, ma la porta. La porta che si chiudeva e lo scricchiolare delle scarpe di Francis sulle scale.
Sì, insomma, per Arthur vedere il letto vuoto non è mica una sorpresa. Anzi, in qualche modo dovrebbe essere grato del fatto che finalmente il mangiarane ha levato le tende: non facevano che battibeccare su qualunque cosa, e il loro personalissimo modo di fare la pace non deve, non può in alcun modo spuntargli fuori così, nella testa, e far crollare il castello di carte e convinzioni che si è costruito con tanta fatica.
Che, poi, magari, forse, Francis non è davvero andato via. Magari è solo uscito a fumarsi una sigaretta, anche se non lo hai mai visto fumarne una da..dalle imprecisate settimane in cui va avanti la loro pseudo relazione.
Ecco, l’inglese pensa che dovrebbe stare un po’ più attento a riguardo, non sia mai che ricordarsi l’inizio di una qualsivoglia relazione amorosa possa aiutarlo a continuare la stessa. Chissà, magari funziona ed evita di nuovo di trovarsi in una situazione simile.
Con passo strascicato ed occhi vuoti, Arthur si dirige all’entrata ed apre la porta.
No, Francis non è lì a fumarsi la sigaretta, però ha lasciato qualcosa: una rosa. O meglio, la rosa, quella che gli ha regalato quella maledetta notte e che ora è appiccicata grazie al nastro adesivo contro lo stipite.
 Ha i petali rattrappiti, col rosso che, accartocciandosi, si è macchiato di grumi neri.
Ha perso tutto. Anche il suo profumo.

 

***

-Ah! Che bello essere a casa! Ehi, Arthie..?-
-Dimmi-
-Quella rosa sul letto..è per me?-
-..Già-
-Ma guarda un po’! Il vecchietto s’è fatto tutto romantico! Oh però.. si è seccata-
-…-
-Sarà stato il clima di Londra!-
-..O forse non era destino che vivesse più d’una notte-

 

 

 

 

 

 

 

 

 

{ Dimmi, dimmi mio Signore
dimmi che tornerà
quell'uomo che sento, l'uomo mio
quell'uomo che non saprà
che non saprà di me,
di lui e delle sue promesse vane
di una rosa rossa qui tra le mie dita
di una storia nata già finita
di una storia nata già finita
}

Pescatore, Bertoli&Mannoia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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