Anime & Manga > Kuroshitsuji/Black Butler
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Autore: MrEvilside    19/08/2011    4 recensioni
Non c'è niente di più pericoloso di una donna insoddisfatta, e Sebastian lo sa bene.
[ Alla mia donna ]
[ SebLizzie ]
Genere: Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Elizabeth Middleford, Sebastian Michaelis
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Your Despair, My Desire
 
E tu Cielo, dall’alto dei mondi sereni, infinito, immortale
Oh! Tu d’un pianto di stelle lo inondi quest’atomo opaco del male
 
Un tempo, durante l’estate, venire invitata al mare da Ciel era stato il suo sogno; adesso, era poco meno che un’incombenza. Tuttavia aveva dovuto darsi un contegno e acconsentire di buon grado: cosa avrebbe detto sua madre nel venire a sapere che la contessa di Phantomhive non ricercava più con ardore le attenzioni del marito?
Il matrimonio con Ciel avrebbe dovuto rappresentare il coronamento dei suoi sogni. Sposandolo, avrebbe avuto l’opportunità di affiancarlo come moglie e confortarlo nell’abisso di tenebra in cui era sprofondato.
Elizabeth non era una bambina stupida: quando il suo promesso era tornato, dopo mesi dall’infausto incendio e dalla sua scomparsa, accompagnato da un maggiordomo tanto eccentrico, non aveva mancato di scorgere gli occhi di brace di quell’uomo dardeggiare famelici su tutto ciò che riguardava il suo “signorino”, lei compresa, e il totale disinteresse per qualsiasi cosa non fosse il suo obiettivo da parte di Ciel.
All’epoca aveva creduto che sarebbe stata capace di dissipare quell’oscurità.
Adesso era una giovane donna, e aveva smesso di perdere tempo con i sogni. Si era stancata di inseguire un’ombra che non l’aspettava, di cercare occhi che non la guardavano, di stringere la mano fredda di un cadavere.
Di rifuggire le fiamme che volevano ghermirla.
Ciel Phantomhive era morto quindici anni prima sotto i ferri e il fuoco; quel che ne rimaneva erano i tizzoni ardenti e un marchio sulla schiena di uno sconosciuto.
Osservò con una certa invidiosa malinconia i domestici che si rincorrevano sulla riva del mare. Stava seduta sulla spiaggia, avvolta dalle gonne dall’orlo di pizzo bianco della sopravveste di sottile seta rosa, e li guardava giocare. Bardroy, il più anziano dei quattro, aveva ormai quasi cinquant’anni, eppure aveva ancor più energia degli altri per divertirsi.
Anni prima, avrebbe partecipato volentieri ai loro giochi, trascinando Ciel per un braccio.
Perché non ci riusciva più? Perché si sentiva vecchia a venticinque anni? Che fosse morta anche lei sotto il peso dello sforzo di tirar fuori dalla sua tomba il conte di Phantomhive?
«Lad—ahaha…! Lady Elizabeth!» Paula la chiamava tra le risa, con le mani sulle ginocchia e il fiato corto dopo aver corso tanto a lungo sulla sabbia. Quella sera avrebbe avuto dei calli dolorosi sulle piante dei piedi, ma per il momento sorrideva, entusiasta. «Venite, lady Elizabeth! L’acqua è così fresca!»
Elizabeth ostentò una risposta al suo sorriso e fece un elegante cenno di diniego con la mano.
Poi levò lo sguardo sulle onde spumeggianti per non vedere l’espressione di preoccupata delusione che si profilò sul viso di Paula: lei più d’ogni altra persona aveva assistito al suo cambiamento nel corso degli anni, tuttavia non sapeva darsene una spiegazione e si tormentava nel tentativo di farla sorridere ancora, pur non comprendendo perché avesse smesso.
«Un panorama magnificente, non trovate?»
Quel giorno il sole splendeva in un cielo così chiaro e limpido che, da bambina, Elizabeth non avrebbe resistito a correre ridente alla sua luce, e i suoi raggi si riflettevano sulle acque color zaffiro e sulla sabbia bianca che ricopriva quella stretta ansa in cui si trovavano, chiusa ai lati da due strisce di terra, che avevano stretto nel loro grembo un piccolo cerchio di mare per loro soltanto.
«Sebastian» commentò la donna, senza neppure voltarsi a verificare la sua affermazione. Avrebbe riconosciuto ovunque quella voce e la sensazione di avere i suoi occhi addosso. «Credevo fossi occupato con mio marito».
«Il signorino ha convenuto che, egli essendo in vacanza, avrebbe potuto mettere da parte gli affari per qualche tempo, a patto che la Regina non richieda d’improvviso la sua assistenza» rispose il maggiordomo con la consueta, graziosa eloquenza che lo contraddistingueva «perciò mi sono preso la libertà di venire a domandarvi se aveste bisogno di qualcosa».
«Non dovevi, Sebastian» lo ringraziò cortesemente Elizabeth. «Non ho bisogno di nulla».
«… Se non che io me ne vada, non è così?»
Finalmente la donna si volse verso di lui, meravigliata, e incontrò il suo sorriso pericoloso e i suoi occhi scuri, che tante e tante volte aveva visto rifulgere del colore del sangue, nell’ombra e nel silenzio. Non era sorpresa perché Sebastian si era reso conto che lei sapeva; si stupiva perché, infine, aveva deciso di riconoscerglielo e scoprire le proprie carte.
Di smettere di trattarla come la ragazzina spaventata che, prigioniera del suo sguardo, controllava che non ci fossero mostri sotto il letto perché non riusciva a spiegarsi come mai si sentisse costantemente osservata.
«Tu vuoi che io me ne vada. L’hai sempre desiderato» lo contraddisse, senza smettere il tono gentile e il sorriso gradevole.
Frances Midford le aveva insegnato il corretto comportamento di una dama virtuosa e non avrebbe mai rinunciato a quelle lezioni per il divertimento di quel maggiordomo.
«Non ho nulla da obiettare» ammise Sebastian, chinando la testa da un lato – in quella posizione, il suo sorriso sardonico somigliava di più a una smorfia crudele. «Ma voi non vorrete mentire, my lady…?»
«Desideravo che tu te ne andassi, fino a pochi anni fa» cedette Elizabeth.
«Non più?» la incalzò il maggiordomo.
«No». Scosse lentamente il capo e lo scrutò attraverso la cortina di riccioli biondi di cui tempo prima andava tanto orgogliosa, convinta che a Ciel piacesse. «Non più. Ho smesso di volerlo, ormai… Non ha senso, e sono stanca, Sebastian». Una volta pronunciava quel nome, “Sebastian”, con ostentata allegria, mentre gli annodava sul mento una cuffietta rosa accesso, in presenza di Ciel; oppure con cupa inquietudine, le poche volte in cui si era trovata sola con lui.
Adesso lo sospirava. “Sebastian”: come una preghiera, non più come l’invocazione del nome del suo nemico più terribile.
Chiamava aiuto. Domandava il suo aiuto.
«Lo so, my lady». Sebastian si inchinò per prenderle una mano e baciarne il dorso, poggiare le sue labbra gelide e sorridenti, cremisi, sulla pelle candida della giovane. «Voi siete sempre stanca».
«Al contrario, tu non ti stanchi mai» osservò la donna. «Cerchi ancora di scalzarmi dal mio posto».
«È il dovere di un cavallo, my lady, spianare la strada al suo re per proteggerlo».
Fu in quel momento che una fiamma purpurea attraversò le iridi color ambra scuro del maggiordomo, il tempo d’un battito d’ali, il tempo di mostrare la fredda, pacata spietatezza in quel sorriso cordiale.
«Dunque io sarei una pedina nemica?» intuì Elizabeth con fare malinconicamente sarcastico. «Oh, via, ho smesso questo ruolo diversi anni fa».
Sebastian sollevò un indice e lo scosse con dolcezza, come con un bambino che non capisca perché lo si sgridi. «Voi siete convinta che sia così, tuttavia il signorino vi vede come l’ultima figura familiare che ha e si rivolge ancora a voi quando grida la sua disperazione nel buio».
La donna tacque, stupita, e distolse lo sguardo da lui per scrutare il mare. L’acqua aveva il medesimo colore degli occhi di Ciel, chiara e pulita, lontana dai rifiuti delle fabbriche e degli esseri umani, poteva ancora respirare. Ciel respirava? Quel suo occhio, costantemente recluso dietro una benda, respirava qualcos’altro, oltre all’olezzo letale attorno a Sebastian? Quell’occhio l’aveva mai vista?
E l’occhio sano: l’aveva mai fatto?
Al pari della nostalgia per quegli anni in cui confidava che il suo promesso sposo l’amasse, crebbe il risentimento. «Fingeva che io non esistessi, o forse pensava che fossi troppo sciocca per non comprendere» mormorò, torcendosi le dita in grembo. «Forse fu anche colpa mia, che avevo deciso di non dargli mostra delle mie qualità, più adatte a un uomo che a una fanciulla. Tuttavia, persino quando fu necessario che le scoprisse, seguitò a trattarmi come una bambina ingenua. E adesso… neppure mi vede. Non fa altro che inseguire il suo scopo. Mi ha sposato più per dovere che per amore, e lo so bene».
«Il signorino, a questa maniera, vorrebbe difendervi» fece notare il maggiordomo, incuriosito da quell’eccesso di sentimento che finalmente scorgeva in lei, che mai prima d’allora si era permessa una simile mancanza di buone maniere inglesi.
Elizabeth si voltò di scatto verso di lui, con gli occhi accesi di rancore e le labbra contratte. «Vuole difendere il ricordo della bambina con cui giocava. Non ama la donna con cui si è unito in matrimonio» lo corresse.
Le tremava la voce; Sebastian attese che gli desse nuovamente le spalle, poi la lingua, lasciva, inumidì un angolo della sua bocca. «Vostro marito non vi tocca».
La donna chiuse gli occhi e non replicò.
Il maggiordomo si accovacciò sulle ginocchia, senza sfiorare la sabbia che non le scarpe, bene attento a non sporcarsi, e si sporse fino a parlare dritto nel suo orecchio, con le labbra che quasi lo lambivano. «Dev’essere stato umiliante, non è vero? Divenire donna, e rendersi conto che l’unico uomo dal quale vorreste essere guardata non si accorge nemmeno del vostro cambiamento, non prova alcun desiderio nei vostri confronti, non vede in voi altro che un ricordo appassito. Un marito che non ha alcun interesse nel disporre delle vostre grazie. Che tristezza».
Le spalle di Elizabeth ebbero una contrazione impercettibile e null’altro concorse a indicare il suo turbamento. Quando infine rispose, dal suo tono composto non trapelava altro che risentimento e un’estrema amarezza. «Pensa che una volta arrivai a dubitare se per caso non preferisse le tue grazie alle mie». Entrambi sorrisero, Sebastian con sincero divertimento, la donna con materna indulgenza nei confronti della sua ingenuità di ragazzina. «Mi sembrava così strano che tu fossi sempre con lui… Ma non è vero, giusto?»
Non v’era traccia di rabbia, nella sua voce serena. Foss’anche stata la realtà, non se la sarebbe presa a male – il maggiordomo si stupì di quanto la bimba che addobbava di rosa villa Phantomhive fosse maturata.
Come omaggio alla sua crescita, le rese la pura e semplice verità.
Non congegnata a suo vantaggio com’era solito offrirla; realtà, senza ombreggiature ad arte.
«Il signorino non potrebbe provare più ribrezzo nei confronti di nessun’altra creatura, my lady. Posso giurarvelo sul mio onore di maggiordomo».
«Il tuo onore di maggiordomo» meditò Elizabeth, divertita. «È questo il motivo della tua dedizione, non è vero?»
«Oh, lady Elizabeth…» tubò il maggiordomo, osando sfiorare il suo orecchio con la punta della lingua nel parlare. La percepì fremere appena e si ritrasse di pochi millimetri, compiaciuto, per soffiare come un gatto le sue fusa: «Fosse soltanto questo».
«Tu non sei un comune servitore, giusto?»
La donna conosceva la risposta: “sono soltanto un diavolo di maggiordomo”. Una replica di deferente umiltà pronunciata dalla bocca più altezzosa che avesse mai conosciuto. Allo stesso modo, aveva udito quella domanda da tante e tante altre persone.
E tuttavia era differente.
Avevano alle spalle quindici anni d’apparente cordialità reciproca e silenziosa inimicizia.
Sebastian era convinto di capirla meglio di quanto capisse Ciel, Elizabeth d’avere maggior complicità con lui che con il marito.
«No, my lady» ammise il maggiordomo, forse per la prima volta dinanzi a un qualunque umano non fosse il suo contraente. «Non sono “comune”, quantomeno non nel senso che voi attribuite al termine. Sono comune nel luogo dal quale provengo, che non appartiene a questa vostra Terra Superna».
La donna quasi rise. «Come mai tanta sincerità proprio con me, Sebastian?»
«In un certo qual modo, noi ci somigliamo molto» commentò Sebastian, pensoso. «Ognuno alla propria maniera, vorremmo avere Ciel Phantomhive solo e unicamente per noi. Curioso: lo riconosco e accetto soltanto adesso che voi avete rinunciato». Si concesse una leggera risatina. «Siete stata una valente avversaria, non mi avete mai permesso di annoiarmi. Ma al mondo esistono cose che non possono essere evitate».
Le pose le mani sulle spalle, in un atteggiamento d’intimità che solo un parente, un caro amico o il proprio coniuge avrebbero potuto concedersi, e si alzò in piedi con eleganza.
«Perdonatemi, my lady, ma, se non avete motivo di trattenermi, devo andare a occuparmi del mio padrone. Vogliate scusarmi… Tornerò più tardi a sincerarmi che non abbiate bisogno della mia assistenza».
Rimasta sola, Elizabeth si sfiorò cautamente laddove il maggiordomo l’aveva toccata: la pelle bruciava come fosse stata ustionata, malgrado la difesa offerta dagli abiti. L’orecchio le procurava persino una vaga sofferenza.
Un tenero languore che Ciel non le aveva mai donato, nel quale si crogiolò con un sospiro.
 
♠♠
 
Non era raro che Elizabeth si trovasse ad addormentarsi sola e talvolta persino a svegliarsi senza calore familiare accanto a sé. Oramai era più abituata alla solitudine che alla compagnia del coniuge, che trascorreva intere notti nel perseguimento del suo obiettivo: forse la Regina l’aveva contattato di nuovo, forse aveva avuto notizie di quel che cercava con tanta più passione di quanta non ne provasse nello stendersi a letto con lei.
Quella sera, quando udì la porta socchiudersi e una figura scivolare all’interno della baita in riva al mare dov’erano soliti trascorrere le vacanze, non si voltò a verificare chi fosse, convinta si trattasse del suo conte, e attese che l’uomo si spogliasse e si unisse a lei sotto le lenzuola.
«Lady Elizabeth». Incredula, si raddrizzò a sedere sul letto e si coprì il seno con la trapunta, sebbene avesse indosso la camicia da notte. Sebastian si era seduto sul bordo del letto e il suo viso candido era illuminato da una candela che scintillava fievole sotto il suo mento. «Mi dovete perdonare l’ora tarda, my lady, tuttavia, come vi avevo anticipato, sono venuto a domandarvi se per caso aveste bisogno di qualcosa…»
Con il calare del sole, il suo tono si era fatto più insinuante, più suadente, i suoi occhi sfolgoravano di un colore scuro, tendente al rosso vino, e le sue belle labbra scoprivano due canini aguzzi, candidi.
Quando Elizabeth non rispose e al contrario si ritrasse da lui per rispettare la distanza più appropriata secondo le regole, il maggiordomo riprese, senza attendere una sua replica: «Oh, suvvia, my lady, sono certo che voi abbiate bisogno di qualcosa. Che io sparisca per sempre? Che liberi il signorino della mia presenza? Che lui vi ami? Voi siete come un castello di sabbia, lady Elizabeth. Un alito di vento, in questo momento, potrebbe far crollare tutto: scegliete con attenzione, dunque, ciò che desiderate».
Forse un tempo avrebbe chiesto l’amore di Ciel, oppure che Sebastian se ne andasse. Sarebbe stata, tuttavia, una richiesta dettata dal più puro egoismo, perché con il trascorrere degli anni aveva capito che il conte non voleva che il suo servitore lo abbandonasse.
Si aggrappava ai suoi vestiti neri come si stringeva alle gonne rosa di Elizabeth: bisognoso dell’uno per riuscire, dell’altra per non cadere.
Se Ciel Phantomhive fosse caduto, non sarebbe stato in grado di rialzarsi.
Era quel che Sebastian aspettava paziente; la donna non poteva comprendere quale fosse il motivo – le sovvenivano soltanto ragioni strettamente imparentate con il denaro, ma il maggiordomo non le aveva mai dato ragione di credere che fosse interessato alla ricchezza dei Phantomhive, poiché mai ne aveva approfittato – tuttavia aveva intuito che fosse ciò che Sebastian Michaelis desiderava di più. Acquattato nell’ombra, attendeva solo che Ciel mettesse un piede in fallo, per poterlo sprofondare nel pozzo oscuro, senza tele di ragno con le quali arrampicarsi fino in cima.
«Mi raccomandi di fare attenzione a ciò che voglio» mormorò, pensosa «quando ciò che tu vuoi è che io compia la scelta sbagliata».
Il maggiordomo non rispose.
Per un unico istante, permise a Elizabeth di strappare il velo e scorgere il suo vero aspetto: occhi come pozze di perdizione, piume di corvo fra i capelli e zanne incrostate di sangue.
La donna non chinò lo sguardo innanzi a quell’immonda creatura, al contrario, credette di aver guadagnato un vantaggio, adesso che era consapevole della sua vera natura. Era il Serpente che aveva tentato Eva, offrendole la Mela.
Aveva tentato Ciel, e Ciel aveva ceduto. Aveva promesso l’anima al diavolo.
Elizabeth si sfiorò la vestaglia all’altezza del cuore, laddove, per quanto potesse sembrare ridicolo e infantile, non aveva mai smesso di confidare si dovesse trovare lo spirito.
Ciel l’aveva mai amata?
«Lady Elizabeth». Sebastian le sfiorò una guancia con la punta delle lunghe dita inguantate di bianco. «Voi amate Ciel Phantomhive?»
La donna non diede subito una risposta, né si scostò da lui come la prima volta. Che cosa avrebbe dovuto fare? Una persona buona e onesta avrebbe scacciato quel demonio, mai si sarebbe abbassata ad accettare una sua proposta, a concedergli una vittoria delle proporzioni di quella che stava richiedendo – che lei si allontanasse da suo marito e lasciasse la sua anima al diavolo.
Un’altra persona, un’altra Elizabeth, una che non avesse smesso di amare devotamente chi non voleva essere amato.
«No».
Un’altra che a venticinque anni non fosse stanca quanto lei.
«Voglio che qualcuno si renda conto che sono cresciuta, che sono una donna, che sono viva e che non voglio morire come sta facendo Ciel. Non voglio essere trascinata giù perché lui sta raggiungendo il fondo della sua disperazione. Non voglio».
Sebastian sorrise. Elizabeth non avrebbe mai dimenticato quel sorriso, tante furono le volte in cui lo vide quella notte.
Mentre il suo abito scivolava via.
Mentre i guanti venivano sfilati con calma, uno per uno, e riposti con ordine sul comodino.
Mentre le sue gambe si dischiudevano, tremanti, sul suo caldo fiore di donna.
Mentre mani eteree come piume percorrevano avidamente le sue cosce morbide, fino al nido di ricci biondi, tenero e illibato.
Mentre si inarcava contro di lui, colma della sua presenza.
Mentre Ciel li guardava, senza fiato, senza parole, senza colore in viso, ma con la consapevolezza che era stata colpa sua, sepolta sotto la furia, il senso di tradimento, la disperazione, l’odio. Non contro Elizabeth – solo uno dei due meritava il suo eterno disprezzo e il suo rancore, solo uno dei due aveva tentato l’altra per dieci anni fino allo sfinimento, fino a farla cedere.

«SEBASTIAN, È UN ORDINE!»
Il maggiordomo sollevò lo sguardo dalla sua vittima per incrociare quello incollerito della sua preda. «Sì, my lord?»
Aveva voluto fare terra bruciata attorno all’anima che tanto gli stava a cuore: ci era riuscito.
Aveva allontanato persino Elizabeth, l’ultimo e più importante pilastro nella vita di Ciel Phantomhive, pur di farlo crollare, di schiacciarlo sotto il peso dei cadaveri che si affollavano attorno al suo trono. Il Re era caduto dallo scranno, soffocava sotto i corpi morti.
Elizabeth lo guardò, coprendosi con le lenzuola. Se lei era un castello di sabbia crollato, Ciel era polvere spazzata via dal vento, un antico ricordo della fortezza che era stato.
Ma, se Ciel aveva stipulato il patto con il diavolo per necessità, Elizabeth aveva abbracciato quell’accordo, quelle fiamme che da principio aveva tentato di sfuggire. Qual era dunque il peggiore tra loro?
Colui che era andato avanti, a prezzo di così tante vite?
O colei che si era fermata e arresa, a prezzo di una sola anima?
«Lasciala andare».





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La metafora del pozzo oscuro e del filo di ragnatela si trova anche nel manga, il frammento di poesia iniziale è di Giovanni Pascoli ("X Agosto"), i personaggi di Yana Toboso, la fanfiction è mia e non ci guadagno niente. E blablabla.
Boh, quest'estate non ho avuto quasi uno straccio d'ispirazione per Kuroshitsuji. Quel "quasi" è rappresentato da questa cosetta qui, scritta per il contest "One-shot dell'estate". Così, tanto per vedere se ne esce qualcosa di buono ♥
Prompt (la poesia) dato da LadyRedDiablo, alla quale dedico la fanfiction con tutto il mio amore ♥
Spero vi sia piaciuta! In tal caso, spero vorrete farmelo sapere! XD
  
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