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Autore: Shinushio    21/08/2011    11 recensioni
« Quando ti ho sposata non credevo che il matrimonio mi avrebbe portato così tanti guai. »
[...]
Una notte come tante si sta per trasformare nel peggior incubo mai vissuto dal nostro Paul: riuscirà ad uscirne vivo?
[Paul/Lucinda]
Genere: Comico, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Lucinda, Nuovo personaggio, Paul
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Anime
- Questa storia fa parte della serie 'Sons & Parents'
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PREFAZIONE:

 

Dunque, vediamo un po’. NON so da dove questa fiction sia nata né perché abbia deciso di scriverla con protagonisti i characters dei Pokemon ma sta di fatto che ormai è scritta e che quindi non posso farci niente.

Che ci crediate o no non è la prima storia che scrivo su questa serie: mi sto infatti cimentando in una long sulla Palletshipping, richiesta a gran voce da una mia carissima amica, di cui vedrete forse la pubblicazione del primo capitolo a breve, dipende da come mi gira XD

Beh, avrei qualcosa da dirvi quindi leggete con attenzione per cortesia: la sottoscritta si è sciroppata nel giro di pochi giorni un numero sproporzionato di puntate sui Pokemon per poter essere in grado di scrivere la long di cui vi parlavo sopra. Prima di farlo, ero un’ignorante di dimensioni bibliche. Diciamo che ora mi sento un’esperta (ma anche no) su Ash e soprattutto Gary (<3), quanto nei confronti della restante gamma dei personaggi mi sento un’emerita profana. Se ho scelto di scrivere una shot su questa coppia (Lucinda e Paul) è perché trovo questi due personaggi semplicemente perfetti per stare assieme, sia caratterialmente che esteticamente. Non credo di conoscerli alla perfezione  ma mi piace pensare che i miei Lucinda e Paul possano piacervi per quel che sono: magari un po’ OOC ma credo che sia del tutto giustificato dalle… ehmmm, chiamiamole circostanze della storia.

Siete avvisati: quindi è OOC. Forse. Non lo so. Ditemi voi se devo ficcarcelo tra gli avvisi. In ogni caso io vi ho avvertito.

Secondo: l’idea. Una folgorante discussione su msn con Ondin_Beax, che mi ha raccontato vicende rocambolesche che non sono nient’altro che la trasposizione di quel che c’è scritto qua sotto. Quindi sì, una piccola-grande dedica a suo figlio Jason, mia fonte d’ispirazione per scrivere questa shot.

Ultima cosa ma non per questo meno importante: sì, ok, è un cliché ma davvero non ho saputo resistere. Vi prego di non giudicarmi male mentre leggete. In fondo ho solo esaudito i desideri più reconditi di ogni Ikarishipping fangirl che si rispetti. Leggete e capirete.

Per il momento è tutto. Vi auguro una buona lettura <3

 

 

________________________

 

 

~Paul’s first time~

 

 

Accade verso le due del mattino, mentre l’intero condominio sonnecchiava cullato dalle amorevoli braccia di Morfeo, ignaro dell’apocalisse che di lì a poco si sarebbe scatenata. Non un alito di vento, non il più piccolo presagio lasciavano pronosticare l’infausto cataclisma che era ormai prossimo a compiersi e che avrebbe immancabilmente tirato giù dalle brande tutti gli abitanti del palazzo, nessuno escluso. O quasi.

Alcune adorabili vecchine, infatti, per un caso fortuito della sorte erano già in piedi, pronte per dedicarsi agli ultimi preparativi per la festa nuziale della coppia che abitava al settimo piano. Anche qualche ragazzo era sveglio, l’uno occupato al pc, l’altro a guardarsi un film a luci rosse, l’altro ancora al telefono con la sua fidanzata. Per non parlare poi della futura sposa, in preda all’insonnia e all’agitazione, che camminava in tondo sul tappeto del salotto da circa due ore tentando inutilmente di calmarsi e darsi un tono. 

Ecco, questa era l’atmosfera di assoluta pace e tranquillità che si respirava all’interno dell’edificio quando accadde il fatto: all’improvviso, uno strillo raccapricciante e tutt’altro che umano risuonò tra le pareti dello stabile, più precisamente in una camera situata al quarto piano nell’appartamento numero 36. Inutile dire che quell’urlo, tanto potente quanto selvaggio, ebbe il potere di svegliare tutti i poveri residenti e rischiare di far venire un colpo al cuore a un pugno di essi. Ovviamente molti si spaventarono, un paio corsero addirittura a prendere il telefono per chiamare la polizia o i vigili del fuoco poi, quando si ritrovarono il cordless tra le mani tremule, si riscossero capendo finalmente ciò che stava accadendo e sputando spazientiti l’ennesima bestemmia seguita da colorite imprecazioni.

Di nuovo. Non poteva essere vero!

Continuarono a brontolare per un pezzo mentre tornavano ai rispettivi letti e mandavano bellamente a quel paese la causa del loro risveglio notturno: quella era la terza volta in una settimana! Non si poteva continuare così, bisognava intervenire e fare qualcosa, e alla svelta anche!

Nel frattempo, all’interno dell’appartamento numero 36, più precisamente nella camera dove giaceva sotto le coperte una delle coppie più bizzarre e mal assortite che il genere umano avesse mai potuto contemplare, una giovane donna si riscosse immediatamente all’udire quello strillo, mettendoci mezzo secondo netto a capire cosa stesse accadendo.

“Oh no, di nuovo… domani i vicini ci ammazzeranno…” Pensò demoralizzata sfregandosi gli occhi impastati dal sonno e cercando di districarsi dal nodo di coltri che l’avvolgeva dal capo ai piedi.

Ok, era arrivato il momento di ammettere almeno a se stessa che la situazione stava cominciando a sfuggirle di mano: si impegnava al massimo per assicurare un quieto vivere a tutti e nessuno, malgrado in molti venissero a rimproverarla per i più disparati motivi, aveva mai avuto di che ridire su ciò. Il punto era che così non ce la faceva più e che alzarsi ogni notte ad orari inimmaginabili per correre a vedere cosa non andasse stava iniziando a farle venire una crisi di nervi coi fiocchi e controfiocchi. Forse era arrivato il momento di chiedere il cambio...

Rotolò su se stessa voltandosi in direzione del suo compagno: eccolo là, beatamente addormentato accanto a lei, le testa appoggiata sul bordo del cuscino e il respiro lieve sulle labbra carnose dischiuse. Avrebbe volentieri allungato la mano per riscuoterlo dolcemente dal suo sonno se solo ne avesse avuto la forza.

« Paul… » Mugugnò stringendosi nel suo pigiamone di lana caldo.

Quello non rispose e continuò a darle le spalle dormendo seraficamente.

« Paul… » Lo richiamò più forte, portandosi le mani alle orecchie per non sentire le urla.

Ancora niente.

Stava per gettare la spugna quando finalmente il ragazzo si mosse: eseguì un fiacco movimento quasi impercettibile ad occhio nudo ma che lei riuscì a cogliere al volo.

« Mhhhhg… »

« Si è svegliato di nuovo… »

« Lo sento… » Bofonchiò lui stringendosi ulteriormente al proprio cuscino: come avrebbe potuto ignorare uno strillo di tal fatta? Era praticamente impossibile.

« Quando ti ho sposata non credevo che il matrimonio mi avrebbe portato così tanti guai. » Brontolò infine tappandosi a sua volta le orecchie.

La ragazza, sfiancata com’era, non trovò nemmeno le parole per replicare.

« Vai tu. » Si limitò quindi a dire girandosi dall’altra parte, decisa a riappisolarsi quanto prima possibile: pochi secondi dopo, una mano grande e calda la teneva per il braccio incurante del fastidio che poteva procurarle.

« Che cosa?? »

« Ci vado sempre io, per una volta che vai tu… »

Sacrosanta verità che solo un folle avrebbe osato contraddire.

« Ma non ne sono capace, non l’ho mai… » Un sonoro sbadiglio interruppe il suo piagnisteo infantile costringendolo a una piccola pausa. Infine, quando ebbe esibito ai quattro venti le proprie fauci da leone alpha, terminò il discorso « …fatto. »

« Non è difficile caro. Vai di là, vedi che c’è e poi torni a letto. Ci metti più a lamentarti che a farlo… » Biascicò la poveretta aggrappandosi al bordo delle lenzuola e nascondendocisi dietro.

Su questo aveva i suoi seri, e tra l’altro del tutto comprensibili, dubbi. Detta così poteva sembrare facile, una cosetta che qualsiasi malcapitato avrebbe potuto affrontare, ma lui sapeva che la realtà non avrebbe potuto essere più diversa e agghiacciante. Era sinceramente combattuto, indeciso se cominciare a prendere a testate il muro o scappare lasciando la sua Lucinda nelle fauci di quel terribile mostro: ora come ora, col cervello in pappa e i muscoli celebrali ridotti in poltiglia per via del sonno, l’unica cosa che riusciva miracolosamente a capire era che, se davvero si fosse cimentato in una simile impresa, non sarebbe stato in grado di tornare vivo al talamo nuziale.  

Tutt’un tratto, gli strilli presero a farsi, se possibile, ancora più acuti e rabbiosi, seguiti dalle voci assonnate degli altri coinquilini, nonché loro vicini, che li intimavano CALOROSAMENTE di fare qualcosa e alla svelta, se non volevano essere chiamati in causa per inquinamento acustico.

« Lucinda vai tu… » Borbogliò infine cercando di farle capire che, nella loro relazione, così come all’interno della loro piccola famiglia, era lui quello che portava i pantaloni. Quindi fece per tornare a voltarsi dall’altra parte, pronto per ostentare orecchie da mercante alle disperate suppliche della giovane, quando quella si voltò e sfoderò la peggiore arma di cui potesse avvalersi, peggio ancora delle tanto declamate e letali bombe atomiche: gli occhioni alla Bambi. Quelli sbrillucciosi, grandi e da cane bastonato che ti facevano sentire il peggior marito del mondo.

Masticò un’imprecazione digrignando di nascosto i denti. Ora, capiamoci: non che lui fosse uno di quegli uomini rammolliti che, al primissimo capriccio della propria consorte, accorrono ad asciugarle la lacrimuccia e ad accontentare ogni loro più piccolo desiderio, tuttavia –perché doveva esserci un “tuttavia”– aveva imparato a sue spese che gli “occhioni da cucciolo” di Lucinda erano il suo più grande tallone d’Achille, come tra l’altro testimoniavano un sacco di esperienze e vicende che caratterizzavano e facevano tale in quanto tale la loro storia d’amore. Volendo fare un brevissimo elenco, le più famose e degne di nota potevano considerarsi tre: il matrimonio (perché la convivenza, che a lui andava più che bene, a un certo punto a lei non era più bastata), il cucciolo di Vulpix (che dopo tre settimane neanche si erano visti costretti a lasciare a una fattoria perché aveva rischiato per ben cinque volte di bruciare il loro appartamento) e il figlio (la peggiore e più aspra battaglia mai combattuta e clamorosamente persa). Ancora oggi si domandava dove si trovasse quando le aveva risposto “sì” tutte e tre le volte (specie per l’ultima) e soprattutto a cosa stesse pensando in un frangente di così grande delicatezza. La risposta, per quanto semplice, gli faceva ribollire il sangue ogni qualvolta ci rimuginasse, un po’ per orgoglio, un po’ per imbarazzo: non era questione di pensare o fare perché, quando c’era di mezzo l’amore, potevi farti tutti i programmi di questo mondo che questi erano destinati a fallire miseramente. E lui, malgrado se ne vergognasse e gli costasse ancora oggi un sacco ammetterlo, amava profondamente quella pasticciona di sua moglie.

Guardò la ragazza e arrossì appena, grato alla notte e alla cortina di buio che rendevano invisibile questo piccolo dettaglio: i capelli arruffati e blu prussia cadevano sparpagliati ogni dove sul suo petto, il pigiama troppo largo e azzurro pastello le stava più grande di due misure e la faceva sembrare infinitamente più piccola di quel che era mentre i suoi occhi brillavano nell’oscurità di luce propria come fossero due fanali. Più la fissava, più si convinceva che il matrimonio fosse davvero la più grande e infame trappola dentro la quale un uomo potesse cadere. Ogni cosa di lei glie lo faceva pensare, a cominciare da quello scialbo, orribile e per nulla attraente pigiama: come rimpiangeva i completini sexy e gli innumerevoli merli e pizzetti che la sua amata aveva indossato nei primi mesi della loro storia e che lui si era tanto divertito a guardare, toccare e, soprattutto, sfilare!

« Per favore Paul… » Si sentì supplicare, prendere e baciare la mano, un gesto dolce e del tutto naturale che lo fece solo arrossire e arrabbiare ancor di più.

Maledizione! Ci era cascato di nuovo!

« Va bene, va bene! » Brontolò infine tirandosi faticosamente su a sedere e lottando fieramente contro le sue palpebre, così pesanti e stanche che supplicavano di potersi chiudere di nuovo « Ci vado. »

Ottenuto quel che voleva, Lucinda si rigirò dall’altra parte senza neanche elargire un grazie, affondando la testa nel suo morbido cuscino.

« Sbrigati per favore, voglio dormire. »

Troppo stanco per controbattere finalmente si alzò, cercando coi piedi le sue pantofole e indossandone alla fine una sua e una di quelle con le paperelle e gli orsacchiotti di Lulù. Sempre troppo stanco per rimediare, si trascinò in direzione della tana del mostro, incapace di trattenere sonori sbadigli che marcassero la sua stanchezza. Durante il tragitto, mentre si imponeva di svegliarsi e di rientrare nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, andò più volte e sbattere contro le mura e l’uscio della porta, rischiando quasi di finire a gambe all’aria quando per poco non inciampò in uno dei giocattoli di suo figlio abbandonato per terra, più precisamente un trenino con il muso di Pikachu sul davanti. Un regalo di quel megalomane di Ash Ketchum.

Prese un’ultima generosa boccata d’aria prima di entrare nella stanza del bambino, quasi a volersi far coraggio: beh, in fondo, se ce la faceva quell’imbranata di Lucinda, lui che era stato Pokemon Master per quasi tre anni, Capopalestra di Nevepoli e addirittura Campione per due volte consecutive alla Lega Pokemon di Sinnoh, che problemi avrebbe mai potuto avere? Ma sì, si stava decisamente preoccupando troppo, era perfettamente inutile fasciarsi la testa prima del dovuto. E poi aveva visto la sua Lulù tante di quelle volte in azione, sarebbe bastato imitarla, no?

Soffocando l’ennesimo sbadiglio finalmente entrò nella cameretta, illuminata da una lampada la cui luce andava via via spegnendosi più ti allontanavi dal lettino. Si prodigò quindi di fare attenzione a non pestare altri giocattoli abbandonati sul palquet e si diresse verso la culla, guardandoci dentro con fare circospetto: una creaturina minuscola e rossa paonazza, costretta in una tutina bianca con una paperella rosa seduta su un vasino cucita sul petto (fiero di affermare che tale orrore lo avesse scelto sua moglie e che lui non centrasse meno che niente), si dimenava come un’ossessa dibattendo braccia e gambe verso il suo volto.

“E ora?” Pensò spaesato e lievemente intimorito da quella… cosa che lo stava guardando coi suoi terribili occhietti neri seppia.

Che fare?

In un primo momento, prese seriamente in considerazione l’idea di chiamare un esorcista, tanto quell’essere di dimenava e scalciava senza tregua. Insomma, lui aveva sempre sentito dire che i bambini fossero le creature più buone di questo mondo ma ora si costringeva a pensare che, l’unico modo per trovarle tali, doveva essere arrosto. Poi ci ripensò, immaginando che la faccenda avrebbe fatto tutt’altro che piacere a Lucinda, e optò per una via più diplomatica.

« Smettila subito Ash, capito? » Disse incurvando le sopracciglia verso il basso, come non fosse già abbastanza imbronciato e minaccioso nel suo quotidiano.

Il bimbo come per magia si chetò, prendendo a fissarlo meravigliato, quasi folgorato, coi suoi occhioni così dannatamente simili a quelli di Lulù, e portandosi il pollicione in bocca.

Per un brevissimo istante Paul si sentì come il più temerario degli eroi, colui che era riuscito a riportare la pace dove il caos regnava altrimenti sovrano: già pregustava il momento in cui sarebbe tornato da Lucinda, l’avrebbe svegliata –perché sicuramente l’avrebbe trovata addormentata– e le avrebbe detto, con un ghigno strafottente dipinto sulle labbra “Che ci voleva?”.

Purtroppo però, quell’istante di gloria e di smisurata gioia svanì nel giro di un microsecondo, quando il moccioso riprese a strillare e trepidare facendo smorfie di puro disgusto e indicandolo come fosse la cosa più orripilante che avesse mai visto in tutta la sua vita.

Il panico.

Paul fissò il marmocchio come si guarda a una bancarella di pesce puzzolente andato a male senza avere la più pallida idea di cosa fare.

Riprovò.

« Ho detto basta Ash, mi hai capito? »

Quella domanda suonò incredibilmente stupida e insensata alle sue orecchie, mentre rifletteva sul fatto che un bambino di appena tre mesi neanche capace di dire “mamma”, la prima parola che ogni moccioso che si rispetti impara a questo mondo, non potesse effettivamente assimilare quello che andava dicendo.     

Ok, era arrivato il momento di provare col piano B.

Lentamente, con fare visibilmente impacciato, allungò le braccia verso suo figlio e lo cinse per i fianchi con la massima delicatezza, quasi avesse paura che, sol sfiorandolo, questo sarebbe finito in mille pezzi. Quindi lo sollevò e se lo portò davanti agli occhi, le braccia tese per tenerlo il più lontano possibile e poter ispezionarlo con la dovuta calma.

E in quel momento non poté fare a meno di chiederselo: LUI, il genio delle lotte Pokemon, ammirato e stimato in tutta la regione per il suo stile tanto aggressivo quanto efficace, aveva abbandonato i combattimenti e i suoi numerosi impieghi per una seccatura come quella? Per diventare padre??? Ma come aveva potuto essere così stupido da lasciarsi abbindolare da Lucinda?? Cavolo, avrebbe dovuto far presa sul suo lavoro e farle notare che avere un figlio a ventitré anni era la cosa più pazza, impegnativa e ancora più pazza che ci potesse essere al mondo! Oltretutto sapeva bene quanto mancasse anche a lei lavorare e fare la coordinatrice, glie lo aveva sentito dire mentre parlava con le sue amiche, in special modo con la moglie di Ash (quello grande e stupido eh!), Misty. A lui non ne aveva mai fatto parola perché sapeva che le avrebbe risposto per le rime, schiaffandole in faccia che quel figlio se l’era voluto e che adesso meno che meno poteva permettersi di lamentarsene. Un bambino comportava delle responsabilità e, per quanto potesse essere bello (oddio, bello era una parola un po’ grossa, forse era meglio piacevole) giocare a fare il padre e la madre in quei rari momenti in cui Ash non piangeva, strillava o vomitava, non riusciva in alcun modo a sentirsi pronto e maturo per crescere una creatura così piccola. E la cosa peggiore era che, in un modo o nell’altro, doveva assolutamente farlo giacché quel marmocchio che ora stringeva tra le braccia aveva tanto bisogno di un padre quanto di una madre, anche se loro non erano pronti a rivestire tali ruoli.

Detto in parole spicce: lui e Lulù si erano ficcati nel peggiore dei pasticci che potesse esserci e dal quale non sarebbero riusciti più ad uscire.

Gran bell’affare…

Venne strappato ai propri pensieri da un odore fraudolento e incredibilmente intenso che non capì come non avesse fatto a notare prima. Calò lo sguardo sul piccolo Ash, il quale piagnucolava sbrodolando e sputacchiandosi intorno e toccando le sue mani con le proprie imbrattate di saliva e germi. Un spettacolo disgustoso ma quasi delizioso se confrontato a quello che di lì a poco si sarebbe tenuto e di cui l’uomo avrebbe preso tristemente parte.

Continuò a studiare il più attentamente possibile suo figlio, chiedendosi da dove provenisse quel tanfo capace di mandare al tappeto un branco di Grimmer e Skutank traboccanti di energie, quando la creaturina divaricò le gambe e, assumendo un’espressione di totale concentrazione, mollò un sonoro peto che lo lasciò letteralmente a bocca aperta e senza parole.

Oh cristo.

« Non dirmi che… » Cominciò lanciando languide e terrorizzate occhiate all’abbraccatura demoniaca che indossava il piccolo al posto delle comuni mutandine, altresì nota col nome di “pannolino”: se quello era un incubo, che qualcuno si sbrigasse a svegliarlo.

Quasi a volersi far beffe di lui, lo scricciolo gli sorrise sinistramente ghermendogli un rantolo di viva disperazione.

“Lucinda questa me la paghi…” Promise a se stesso mentre si dirigeva velocemente in bagno e appoggiava la peste sul mobiletto apposito: ovviamente di dimenticò di stendere un panno morbido sotto il suo corpicino, così la creatura riprese a piangere e urlare ancora più forte, facendogli venire un’emicrania coi fiocchi e controfiocchi.

« E ora che c’è?? » Gli chiese esasperato mentre cercava un pannolino pulito nel mobiletto lì vicino.

L’interessato piagnucolò raggomitolandosi su stesso nel vano tentativo di fargli capire che stava soffrendo un freddo glaciale: tentativo del tutto inutile e andato a vuoto considerando che Paul, alle tre del mattino e col cervello ridotto in pappa, non era in grado di distinguere neanche quale fosse la sua destra dalla sua sinistra. Quindi si rassegnò, constatando che quel decerebrato di suo padre era nella maniera più totale incapace di comprenderlo e di fare le cose come andavano fatte. Se solo avesse potuto parlare, avrebbe detto che gli mancava la mamma, così brava, carina e dolce, al contrario di lui che sembrava un vecchio e brutto orso brontolone!

Studiò con scarso interesse l’uomo destreggiarsi col pannolino che reggeva tra le mani, mentre si posizionava davanti a lui e alternava lo sguardo dal suo corpicino, più precisamente da quello che c’era in mezzo alle sue gambe, all’oggetto diabolico che ora aveva poggiato accanto a lui: sembrava pronto per cominciare, e finalmente!

Paul sospirò e, pentendosi poco dopo di non essersi tappato il naso con una molletta, una forcina, una presa o qualsivoglia oggetto utile per compiere tale impresa, strappò le stringe di nylon e aprì la mutandina, che alla pari di un forziere, quando si dischiuse, rivelò il “tesoro” che vi celava al suo interno.

“Porca miseria!” Pensò tra sé e sé pallido come un cencio mentre il più disgustoso e stomachevole odore che avesse mai odorato in vita sua si disperdeva nell’aria facendolo indietreggiare di un passo.

Ok, al diavolo l’orgoglio: non era, nella maniera più assoluta, in grado di fare una cosa del genere! Cambiare il pannolino a suo figlio era senz’ombra di dubbio la sfida più ardua che gli si fosse mai prostrata innanzi e tremava al pensiero di doverla affrontare, specie considerando l’incredibile… mole –non sapeva in quale altro modo definirla– di prodotto organico che quella piccola peste era stata in grado di partorire in sole… cinque ore, se non si sbagliava di grosso. Lucinda lo aveva cambiato giusto prima di andare a dormire e ora era già in quelle condizioni! Quella creatura non poteva essere umana, nessuno era in grado di compiere un’impresa così… così… gli mancavano le parole per poterla definire e la cosa più triste era che, continuando a rimirare con occhi increduli, disgustati e furibondi quel dramma così ripugnante, non sarebbe cambiato proprio un bel niente!

Doveva agire.

« Lucinda… » Mugugnò con tono minaccioso, afferrando con due dita il bordo dell’arma di sterminio e sfilandola da sotto il sedere del piccolo, gesto di cui si pentì immediatamente perché il culetto sodo, morbido e lercio di questo andò ad imbrattare la superficie del mobile bianco schizzando un po’ ovunque del liquido marroncino che centrò pure lui in pieno petto.

Merda. Avrebbe dovuto pulirlo prima di liberarlo da quell’affare!

“Va bene, niente di grave, lavo tutto dopo.” Cercò di convincersi mentre richiudeva con estrema fatica il pacchetto di plastica e buttandolo nel cestino: almeno questa era fatta. Ecco, ora doveva prendere le salviette profumate al lillà (per le quali sua moglie aveva speso due volte tanto se paragonate a quelle semplicemente umide e senza alcun odore specifico) e cominciare a pulire il sedere dello scricciolo prima di agganciare il nuovo pannolino.

Dopo aver riflettuto sul fatto che, se qualcuno lo avesse visto in quelle condizioni, a cominciare da Ash e finendo a suo fratello, lo avrebbe coronato nel giro di pochi istanti lo zimbello dell’intera regione, si premurò di afferrare i primi fazzolettini e di divaricare le gambe del piccolo con la massima cura e attenzione.

Poi, accadde. Senza alcun preavviso, senza che niente lo lasciasse far credere: beh, d’altro canto, chi avrebbe mai potuto pensare che, dopo aver visto il contenuto tutt’altro che idillico della vecchia mutandina, quella piaga avesse ancora qualche sorpresa in serbo per il suo povero papà?

All’improvviso, uno spruzzo caldo e potente colpì Paul in pieno volto costringendolo ad indietreggiare finché non incontrò un Magikarp di gomma a terra che lo fece cadere e sbattere l’osso sacro nel peggiore dei modi. Non riuscì mai a capire cosa lo trattenne quel giorno dal mettersi a bestemmiare e far scendere tutti i santi che stavano in cielo, come non riuscì mai a comprendere perché Lucinda, che SICURAMENTE aveva sentito tutto quel trambusto, non fosse accorsa ad aiutarlo.

Insomma: Ash gli aveva appena fatto la pipì addosso, per di più in faccia! Avrebbe dovuto declamare il suo profondo schifo e andarsene indignato anziché tornare in bagno ad affrontare quel piccolo terremoto come effettivamente fece. Ecco, un gesto del genere avrebbe dovuto essere riconosciuto alla pari di un merito di guerra, no anzi, di più, assicurargli un processo di beatificazione e santificazione, e invece passò del tutto inosservato.

Si posizionò nuovamente davanti a suo figlio, che nel frattempo aveva terminato di urinare e di inzuppare il suo accappatoio che, quando si diceva la sorte, aveva dimenticato lì vicino la notte prima quando si era fatto la doccia, e fece mente locale prima di agire.

« Va bene, se pensi che mi faccia sconfiggere da uno come te, hai sbagliato padre moccioso. » Proclamò infine sul piede di guerra, agguantando il pannolino pulito e legandolo assai sgraziatamente al corpicino del piccolo. Glie lo mise anche al contrario ma, non avendo voglia di rimediare all’errore (tanto quei dannati cosi erano uguali sia dietro che davanti) lo prese in braccio, o meglio lo sollevò per aria come fosse un pesantissimo ed ingombrante sacco di patate e, dopo aver sistemato il putiferio che aveva combinato, si diresse nuovamente verso la culla per depositarcelo dentro.

Compiuta la missione, si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo, mentre gli dava le spalle e gli lanciava un’ultima occhiataccia come a volergli dire “Visto che alla fine ce l’ho fatta?”, quando, ovviamente, come aveva visto in tutti quei film a tipico sfondo familiare che si era sciroppato mentre Lucinda era in “dolce attesa”, il mostro riprese a strillare; quindi si rese conto che Dio doveva per forza esistere e che quella era la punizione per aver dubitato di lui in tutti quegli anni.

“Che qualcuno mi aiuti. Anche uno come Ketchum mi può andare!”

Si girò di nuovo e si diresse per la seconda volta verso la culla, le palpebre pesanti come due macigni e il buon senso che lo implorava di andare a chiamare Lucinda. Come il piccolo Ash lo vide, smise immediatamente di piangere ed inclinò la testolina assumendo un’espressione buffa che però non riuscì ad intenerirlo.

« Cosa vuoi adesso? » Gli domandò sgarbatamente soffocando l’ennesimo sbadiglio in una manica, che scoprì subito dopo essere bagnata della pipì di suo figlio.

Schifo profondo.

Lo stomaco del piccolo brontolò rumorosamente togliendogli ogni dubbio.

« Hai fame. » Decretò infine tornando a prenderlo tra le braccia e dirigendosi stavolta in cucina: ora finalmente capiva come mai Lucinda fosse sempre così stanca ed intrattabile la mattina quando si alzava, come fosse in perenne stato di sindrome premestruale. Capiva e non poteva biasimarla.

Fece accomodare il piccolo sul suo seggiolone di Pikachu (un altro regalo di Ash Ketchum) e si fermò stanco a contemplarlo per qualche istante: piangeva, strillava, sputacchiava e lo guardava arrabbiato, come fosse colpa sua se il suo pancino stava ribollendo in quel modo.

Ash. Di tutti i nomi che c’erano, proprio Ash avevano finito col scegliere! Ok, non aveva alcun problema ad ammettere che, se non fosse stato che quello era proprio il nome di Ash Ketchum, gli sarebbe anche andato a genio e che in fin dei conti doveva solo essere grato a chicchessia che alla fine quella screanzata di sua moglie non avesse scelto Barry, Brock o, peggio ancora, Kenny (oh no, quest’ultimo non l’avrebbe proprio tollerato: oltre a essere un nomignolo terribilmente stupido e infantile, era anche lo stesso del suo ex fidanzato!), però cavolo: Ash! Come quell’idiota di Ash Ketchum! Ma andiamo!

In quel momento, mentre guardava il piccolo intento a cercare di distruggere il bracciolo del seggiolino a suon di pedate, morsi e pugnetti violenti, giurò a se stesso che se mai il suo primo Pokemon fosse stato proprio un Pikachu, l’avrebbe diseredato e mandato a vivere coi pinguini in Antartide. Poco ma sicuro!

Sospirò ciabattando verso il frigorifero e tirando fuori due bustine di latte in polvere che, quando aveva scoperto il prezzo, gli erano costate dieci anni della sua preziosa vita, capendo finalmente dove stavano andando a finire tutti i soldi che aveva racimolato durante la sua tanto breve quanto proficua carriera di Campione. Purtroppo Lucinda non riusciva a produrre abbastanza latte per sfamare il piccolo, motivo per cui si erano visti obbligati a comprare delle scorte capaci di sopperire alle sue mancanze. Non che glie ne facesse una colpa, però cavolo: una gli fosse andata dritta con quello scricciolo che ora si stava divertendo a smembrare il povero peluche di Elekid che aveva trovato sul tavolino davanti a lui.

Agguantò un pentolino e lo immerse sotto il getto potente del rubinetto, poi ci mise dentro una bustina e mezza e ficcò il tutto a cuocere sul fuoco: ricordava a malapena un discorso che gli aveva proferito la sua Lulù a proposito del fatto che i bimbi non potevano bere liquidi né troppo freddi né troppo caldi perché altrimenti… già, altrimenti cosa? Sforzò la memoria nel vano tentativo di ricordare il continuo con ovvi e scarsi risultati: niente, tabula rasa, sembrava quasi che un branco di vichinghi assetati di sangue fosse passato a far piazza pulita dei suoi ricordi.

“Oh beh, probabilmente non era niente di importante…” Cercò di convincersi mentre scrollava le spalle e attendeva che il latte si intiepidisse. Quindi guardò l’orologio e, dopo aver constatato che erano quasi le tre e mezza e che fra meno di quattro ore avrebbe dovuto alzarsi per andare a lavorare, si affrettò a ficcare un cucchiaino nel pentolino per assaggiare il latte, il tutto mentre il piccolo continuava a frignare senza tregua nuocendo gravemente sia alla sua pazienza che alla sua povera e tutt’altro che sana testa.

Desiderava tornare a letto. Infilarsi sotto la trapunta e abbandonarsi tra le braccia di Morfeo, guardare Lucinda con occhi carichi di rabbia e ricordarsi che l’indomani si sarebbe fatto sentire e che avrebbe tutelato i suoi diritti di padre incompetente, a costo di dover invitare un’altra volta a cena quel rozzo di Barry! Sì, avrebbe fatto proprio così!

Saggiò il liquido e annuì soddisfatto: sì, gli sembrava ben cotto, forse un po’ freddino ma così poco che neanche quel mostro in tutina si sarebbe fatto tanti problemi. Prese quindi un biberon da una credenza e, dopo essersi rimboccato le maniche ed imposto di non vomitare per via della puzza che emanava la sua maglia, infilò la tettarella e lo poggiò sul tavolino davanti a lui.

« Ecco, tieni. Muoviti a mangiare che voglio tornare a letto. » Lo intimò lasciandosi cadere a peso morto su una seggiola a caso e sostenendosi la testa pesante con l’aiuto di una mano.

Il piccolo rimase fermo immobile a fissare il padre come a volergli far capire che, oltre ad essere l’adulto più incapace ed irresponsabile che avesse mai avuto l’”onore” di conoscere nei suoi tre brevi mesi di vita, non era in grado di imboccarsi da solo.

Dopo un abbondante minuto di silenzio, durante il quale aveva rischiato di assopirsi e battere la testa contro la superficie lignea del tavolo, si riscosse dal suo torpore e comprese ciò che Ash stava cercando più o meno di dirgli.

“Non ce la faccio più…” Pensò esasperato alzandosi e prendendolo in braccio. Afferrò il biberon e lo ficcò con malagrazia tra le fauci del bebè, il quale diede un’avida poppata prima di stringere gli occhietti, ingoiare e ricominciare a piangere più forte di prima.

Sospirò senza avere neanche la forza di replicare.

« Ti prego Ash, mangia! » Arrivò a supplicare porgendogli nuovamente la pappa, ormai prossimo alle lacrime.

Il piccolo strinse la boccuccia scuotendo la testa e allontanando da sé con le manine il braccio del padre.

Ok. Era ufficiale. Stava per perdere il controllo. Di lì a poco avrebbe defenestrato il moccioso, se lo sentiva, oppure avrebbe chiamato il suo Froslass e gli avrebbe ordinato di ibernarlo fino a quando non avesse raggiunto la maggiore età. Forse quella era una soluzione anche migliore!

« Ash, non mi aspetto che tu capisca ma sappi che se entro dieci minuti non torno di là nel mio letto potrei perdere i lumi della ragione. Quindi fatti e fammi un favore: mangia! » Incitò con voce stressata porgendogli nuovamente il biberon.

Quello gli lanciò un’occhiataccia di puro disprezzo e sdegno, acconsentendo infine alle sue suppliche. Succhiò per un po’ senza smettere di piagnucolare e lacrimare fino a quando non ne poté più e lo allontanò da sé, ricominciando a strillare così forte che il ragazzo giurò di aver visto il vetro della finestra vibrare sinistramente. Poi spalancò la boccuccia, assunse un colorito purpureo e un’espressione di grande sofferenza, e vomitò il latte appena ingurgitato sulla sua maglia.

« Maledizione!! » Urlò correndo verso il lavandino e piegando la testa del figlio in modo che potesse rimettere in santa pace finché avesse voluto.

Non ci poteva credere, quel bambino era una mina vagante! E la cosa peggiore era che non aveva ancora trovato il modo per farlo stare zitto. In compenso, ora il suo pigiama puzzava di pipì, escrementi e addirittura bile. Davvero meraviglioso.

“Lo uccido, lo uccido, lo uccido.” Pensava tra sé e sé ignorando i richiami severi della sua coscienza, la quale lo intimava a ricordare che non solo stava avendo a che fare con un bambino di neanche tre mesi –e che quindi doveva portare pazienza-, ma che quel bambino altri non era che suo figlio –motivo in più per impedirsi di fare cavolate-.

Quando Ash ebbe finalmente finito, l’orologio a pendolo appeso alla parete scandiva le quattro meno dieci.

« Hai in serbo qualche altro tiro mancino oppure possiamo tornare in camera? » Chiese infine cominciando a spogliarsi e rimanendo con solo dei boxer addosso, l’unico indumento rimasto miracolosamente incolume dall’attacco combinato “vomito-cacca-pipì” del mostro.

Ash ridacchiò felice dal seggiolone sul quale suo padre l’aveva precedentemente adagiato per potersi svestire e, finalmente, si esibì in un esausto sbadiglio che Paul interpretò ingenuamente come una “proposta d’armistizio”.

« Che il cielo sia lodato! » Esclamò quindi alzando gli occhi al soffitto e affrettandosi a pulire le ultime tracce di latte rancido rimaste sulle piastrelle di granito. Una volta finite le pulizie e portato a lavare i vestiti, prese tra le braccia il bambino, il quale si accoccolò contro il suo petto muscoloso e sgalbro in cerca di calore, poggiando una manina piccolina lì proprio dove batteva stanco e provato il suo povero cuore.

In quell’istante si sentì strano: avvertì distintamente una scarica elettrica risalire la sua colona vertebrale fino a interrompersi alla base del collo, mista a un calore sconosciuto di cui non riusciva a capirne l’origine. Una cosa però l’aveva afferrata e anche bene: quella sensazione era quanto di più piacevole e gratificante avesse mai vissuto sulla propria pelle, meglio ancora che venire nominati Pokemon Master o Campione della lega di Sinnoh per la seconda volta consecutiva.

Si lasciò sfuggire un mezzo sorriso mentre tornava nella cameretta del pargolo reggendo con una mano la sua testolina e con l’altra il resto del suo corpo.

Finalmente silenzio. Ecco, era proprio in occasioni come quella che si sentiva felice di essere padre.

Adagiò lo scricciolo all’interno della culla e, in un impeto di follia pura mista ad un’incredibile stanchezza, gli accarezzò una guanciotta, si chinò a rimboccargli le coperte e gli gettò un’ultima timorosa occhiata: eccolo là, il sanguinolento mostro attentatore della quiete pubblica, in procinto di addormentarsi col pollicione in bocca e i radi capelli in testa arruffati e premuti contro il cuscino. Nessuno, vedendolo in quelle condizioni, l’avrebbe mai ritenuto capace delle temerarie e nefaste azioni che si dilettava ogni sacrosanta notte a compiere, riuscendo così a destabilizzare il senno dei suoi genitori e la pazienza dei loro coinquilini. Anzi: a vederlo così, pareva quasi un angioletto, un cherubino appena sceso dal cielo con tanto di aureola sopra la testa.

Paul sospirò, un sospiro liberatorio di puro sollievo.

« Buonanotte Ash. » Disse baciandogli la fronte e incamminandosi verso la propria camera, soddisfatto e appagato come non gli capitava da troppo tempo.

Fece il primo passo.

Poi anche il secondo.

Addirittura il terzo.

E che dire allora del quarto?

Appoggiò quindi la mano sulla maniglia e si accinse ad abbassarla, quando…

« UEEEEEE!! UEEEEEE!! GNEEEEEEEEEEEEEEEE!!! »

Un urlo disumano riecheggiò tra le mura della stanza facendolo ripiombare dal paradiso, miracolosamente raggiunto pochi secondi prima, quando si era beato dell’illusione che Ash si stesse DAVVERO addormentando, all’inferno, senza neanche passare per il purgatorio.

“Non è possibile, vi prego ditemi che non è vero…” Pensò tra sé e sé fissando con coinvolgimento l’invitante parete di mattoni lì vicino, che sembrava chiamare a gran voce il suo nome. Un invito a frantumarsi, spaccarsi, spappolarsi -o come meglio preferite- la testa contro questa.

« Calma Paul, respira. Non è così grave come può sembrare… » Si disse in preda alla schizofrenia lanciando un’occhiata mefistofelica all’orologio appeso alla parete: le quattro e un quarto. Tra tre ore avrebbe dovuto essere in piedi, fresco e riposato come una rosa per affrontare l’ennesima giornata di lavoro.

Voleva andare a dormire e no, effettivamente la situazione non era così terribile come, a un primo sguardo, poteva sembrare: era peggio.

Con una forza sovraumana tornò sui suoi passi e si costrinse a riprendere tra le braccia il piccolo Satana.

« Ora cosa c’è? » Gli chiese aspettandosi quasi una risposta che però, com’era ovvio, non arrivò.

Lo scricciolo lo guardava con occhi supplichevoli, battendosi di tanto in tanto il petto e gonfiandosi come una rana per poi espirare il tutto in una sola volta. Sembrava volergli dire qualcosa, qualcosa che Paul, tra le nebbie della pazzia e dell’esaurimento nervoso, riuscì per intercessione divina a comprendere.

Il ruttino. Ma certo!

“Cosa mi tocca fare…” Pensò cominciando a battere con delicatezza la schiena del figlio mentre se lo issava contro la spalla. In un momento di tal fatta si rese conto che avrebbe preferito mungere mille Miltank e affrontare tutti i Tauros di Ash Ketchum piuttosto che avere a che fare con quella bestia per ancora un microsecondo in più.

Finalmente, avvertì con chiarezza un rutto sonoro invadergli le orecchie: mai suono così gutturale e disgustoso fu più apprezzato, almeno quanto fu odiato quello che seguì subito dopo.

Un altro peto. E una puzza stomachevole poco dopo. La consapevolezza che avrebbe anche potuto morire che tanto non sarebbe cambiato niente, no anzi, quella maledizione si sarebbe finalmente conclusa, invase prepotentemente il cuore di Paul costringendolo a prendere in considerazione quell’ultima e unica via di fuga. La cosiddetta “ultima spiaggia”.

“No no, non scherziamo. E Lucinda poi?”

Ad occhi chiusi, col cervello a quel paese e la bocca sempre spalancata in un interminabile sbadiglio, si diresse in bagno per la seconda volta e si accinse a ripetere di nuovo l’operazione “cambio pannolino”.

Per un’oretta abbondante il ragazzo non fece che correre dalla culla alla toiletta, giacché quel piccolo-gran produttore di materia prima non faceva che defecare ogni qualvolta il poveretto lo rimettesse al calduccio sotto le coperte. Troppo stanco per chiedersi cosa stesse facendo, continuò a cambiare pannolini su pannolini, pulire i pavimenti che ogni volta finiva immancabilmente con lo sporcare, passeggiare in lungo e in largo per la stanza tentando disperatamente di farlo addormentare e rimpiangendo e rimproverando se stesso per non essersi mai preso la briga di catturare un Jigglypuff prima d’ora.

“Promemoria: recarsi prossimamente a Johto o a Kanto per prenderne uno…” Si disse mentre si lasciava cadere a peso morto su un divanetto accanto al lettino e poggiando il figlio sulle proprie ginocchia.

Ash, finalmente più tranquillo, ora non urlava più: a dire il vero aveva smesso di lamentarsi e frignare da quasi mezz’ora, ma ogni volta che aveva provato a rimetterlo nella culla e ad andarsene, quello aveva ripreso a piangere e a strillare richiamandolo così indietro. In poche parole, aveva capito di non aver scelta: se voleva sperare di poter dormire almeno due orette scarse, doveva prima attendere che si addormentasse per raggiungere la sua Lulù nel loro letto.

« Ghua! GaGaGaGa! » Esclamò arzillo il piccolo indicandogli il peluche di Pichu accanto a loro.

« Vuoi questo? » Gli chiese acciuffandolo per pura fortuna al primo colpo.

Era stanco.

Molto stanco.

Si sentiva come se un trattore da quindici tonnellate gli fosse passato sopra e lo avesse ridotto in poltiglia. Un triste prologo di una giornata che doveva ancora cominciare e che lui avrebbe preferito etichettare come “epilogo”.

Il bimbo gli strappò via il peluche e cominciò a mordicchiarlo soddisfatto, soffermandosi in particolare sulle sue orecchie a punta e sulle zampette dai palmi rosa, il tutto sotto lo sguardo affaticato e provato del padre, che continuava a tener d’occhio ogni suo movimento temendo che, di lì a poco, sarebbe anche stato capace di ruzzolare a terra.

« Guhe? » Disse tendendo una manina verso il suo volto.

Paul sospirò distendendo le sopracciglia e le rughe che fino a poco prima corrugavano la sua fronte ora piana.

« Che c’è? » Si limitò a dire non riuscendo a trovare nient’altro da esternare.

« Guhe! GaGaGa!! »

Suo figlio gli schiaffò davanti al naso il piccolo roditore giallo e cominciò a battere le mani felice: voleva giocare, peccato solo che lui faticasse a stare anche solo in piedi, figurarsi farlo divertire.

« Papà è stanco Ash. » Disse infine restituendogli il peluche e strofinandosi gli occhi che proprio non ne volevano sapere di rimanere aperti « Molto stanco… »

Quello lo fissò stranito corrucciando la fronte, riuscendo così a riprodurre fedelmente l’espressione da “non toccatemi-parlatemi-guardatemi che mordo” dell’altro.

Sorrise fiero di sé, soddisfatto di ciò che stava vedendo: allora quel mostriciattolo aveva preso anche qualcosa da lui! E pensare che fino a quel momento aveva pensato che avesse ereditato solo i geni di Lucinda e neanche uno suo.

Sghignazzò cercando di darsi un minimo di contegno mentre il piccolo si divertiva a fissalo forse chiedendosi il motivo per cui stesse ridendo, evento più unico che raro se si considerava che a farlo era proprio quel vecchio e brontolone Grizzly di suo padre.

Aprì la boccuccia assumendo un’espressione concentrata, mentre le sue labbra si piegavano in mille e più smorfie che ricordavano mostruosamente quelle che era solito fare anche lui.

Infine, accadde. No, nessun vomito improvviso, peto o ruttino, che poi di ruttino aveva meno che niente. Accadde la cosa più bella, stupefacente e incredibile del mondo, quella di cui nessun altro padre all’infuori di lui avrebbe potuto vantarsi.

«  BaBa… Ba… Ba… PaBa, Pa… pà! »

Paul sgranò gli occhi esterrefatto: per una manciata di secondi si chiese se la stanchezza gli avesse giocato un brutto scherzo, se la follia e il tic nervoso all’occhio gli avessero fatto storpiare i suoni e prendere fischi per fiaschi, ma quando Ash ripetè la parolina “papà” non poté fare a meno che arrendersi di fronte all’evidenza: la prima parola di suo figlio era stata “papà” e non “mamma” come chiunque si sarebbe aspettato, lui per primo ad essere sinceri.

Sorrise amorevolmente stringendo il bimbo tra le braccia e stendendosi con lui sul divano. Quindi continuarono a fissarsi per un po’, addirittura giocando a fare le smorfie più strane che, a quanto pareva, ad entrambi riuscivano in maniera impeccabile, fino a quando la mano di Morfeo calò su di loro e trasportò entrambi nel magico mondo dei sogni.

Quella notte, o meglio quella mattina, Paul si sentì davvero felice e pienamente soddisfatto di essere padre e capì che la sua carriera e il suo passato non avrebbero mai potuto reggere il confronto con Ash e Lucinda.

Né ora, né mai.   

 

 

*************

 

 

Quando Lucinda la mattina seguente entrò nella cameretta del figlio e trovò gli uomini che più amava al mondo stesi abbracciati sul divano, ancora beatamente addormentati, si soffermò sull’uscio della porta a fissarli con occhi intrisi di dolcezza e tenerezza. Non si chiese come mai Paul fosse nudo né tantomeno badò all’odore nauseabondo di cui erano pregne le pareti di casa: continuò a guardare il piccolo Ash e suo marito come si guarda alla cosa più bella che si sia mai vista, fiera di essere rispettivamente madre del primo e moglie del secondo.

Quindi si avvicinò, si chinò su di loro e svegliò il più adulto con un delicato bacio a fior di labbra. Quello distese i muscoli aprendo prima un occhio poi anche l’altro, ricambiando con un mezzo sorriso il gesto romantico della sua Lulù.

« Mi sono persa qualcosa? » Chiese la donna accarezzando i capelli del compagno.

Quello scrollò appena le spalle mettendosi a sedere e prendendo tra le braccia il piccolo Ash.

« Mi ha chiamato papà… » Ammise infine senza mostrare però il minimo entusiasmo.

Tipico. Lui odiava esternare le proprie emozioni al prossimo e aveva già esagerato poche ore prima con suo figlio: non aveva le forze per concedere la replica a Lulù.

La ragazza spalancò la bocca incredula, forse traumatizzata.

« Mi stai dicendo che mi sono persa la prima parola di mio figlio?? Ma non è giusto! » Commentò con una nota di gelosia nella voce. « E tutto perché per una volta ho mandato te a vedere di lui! Se ci fossi andata io la sua prima parola sarebbe stata di sicuro “mamma”. »

Paul scrollò un’altra volta le spalle strofinandosi gli occhi stanchi.

« Non è così grave, infonche ore sono??» Urlò all’improvviso dimenticandosi di quanto fosse leggero il sonno del piccolo. Cavoli, il sole era già alto nel cielo e considerando il periodo dell’anno in cui si trovavano non gli serviva vedere l’orologio per capire che era in ritardo. In un mostruoso ritardo.

« Paul hai svegliato Ash! » Lo riprese Lucinda mentre il mostriciattolo cominciava ad urlare a pieni polmoni scalciando come un ossesso in sua direzione.

« Ma io devo andare a lavorare! Perché non mi hai svegliato?? » Mugghiò infuriato cercando disperatamente le pantofole per correre in camera a cambiarsi.

« PERCHE’ E’ DOMENICA PAUL!! »

« Che c’è, il gatto ti ha mangiato la lingua forse? Sei felice di quello che hai combinato? » Si sentì rinfacciare animatamente, con tutt’altro che vaghe allusioni ai pianti isterici della belva.

Paul non commentò, come tra l’altro non si sentì minimamente in colpa per quello che era appena accaduto. Anzi: prese Ash tra le braccia, lo porse alla sua amata Lulù e, accennando un bieco e vendicativo sorriso, finalmente disse « Questa volta te ne occupi tu. »

E se ne andò, tornò in camera per buttarsi sotto le coperte e rimanerci fino a mezzogiorno, lasciando la povera Lucinda da sola ad affrontare la furia omicida del loro primogenito.

Per quel giorno, lui la sua parte l’aveva fatta.

 

 

 

 

The End

 

 

    

 

__________________________

 

 

NOTE SCONCLUSIONATE DELL’AUTRICE:

 

Non posso credere di aver pubblicato una cosa del genere!

No, sul serio: io sono quella dei drammi, del fazzoletto a portata di mano, dei rating rossi e delle seghe mentali, che ci fa una fic del genere nel mio repertorio? L’ho forse scritta per rovinarmi la reputazione? Tipiche domande esistenziali destinate a rimanere senza risposta.

Dunque che dire di questo sfracello: tanto per cominciare è una IkariShipping (ma va?), l’unica coppia di cui conosca il nome assieme alla Palletshipping, per il semplice motivo che amo entrambe alla follia e per quanto detto nell’introduzione a inizio pagina.

Beh, non proprio. Io AMO la Palletshipping, la mia coppia preferita (oh, ma andiamo: Ash e Gary sono la cosa più kawai mai vista in questo mondo dopo Ufo Baby e i cuccioli di cerbiatto, ma questa è un’altra storia…), mentre ADORO le Ikarishipping perché è un po’ il traslato etero della Palletshipping. Per capirci, Lucinda sarebbe Ash e Paul invece Gary, stando a quel poco che ho visto della serie animata di Sinnoh e alla mia opinabile opinione.

Il rating alla fine è giallo per via di qualche parola forse un po’ troppo pesante e di qualche allusione (quella zozzona di Paul sui completini intimi di Lucinda) un po’ spinta: e pensare che mi sarebbe tanto piaciuto pubblicare una verde.

Detto questo mi dileguo. Mi raccomando fatemi sapere che ne pensate, spendete mezzo secondo per dirmi se almeno vi è piaciuta XD

Un bacio!

 

 

 

Shin

  

   
 
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