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Autore: Koori_chan    22/08/2011    0 recensioni
Anno 1746, la Repubblica di Genova è da lungo tempo in mano agli Austriaci.
Il rancore che gli abitanti provano nei confronti degli invasori è tangibile nell'aria, come una cortina che avvolge la città.
Roderich Edelstein e Marina Parodi, Austria e Genova.
Nemici da sempre.
E per sempre.
[Presenza OC!Repubblica di Genova]
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Austria/Roderich Edelstein, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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♫Duetto in La Minore

 

Marina odiava gli ordini, a meno che non fosse lei a darli.
Detestava sentirsi dire quello che doveva fare, non sopportava il tono di voce alto e deciso di chi la obbligava a fare qualcosa contro la sua volontà.
A malapena sopportava i consigli di suo cugino Francis, figurarsi gli imperativi di quello stupido austriaco.
Era paradossale. Di tanti tipi di prigionia le era capitata quella che forse odiava di più al mondo: la prigionia in casa propria.
Da quando quel maledetto damerino aveva occupato –perché ammettere di essere stata conquistata era troppo per il suo smisurato orgoglio- la sua Genova, lei era ridotta a una schiava.
Ogni giorno era la solita routine, il solito susseguirsi di ordini e inutili compiti, assegnati solo per il gusto di vederla faticare. Era certa che Roderich avesse deciso di installarsi a Palazzo Reale solo perché lei fosse obbligata a pulire più stanze di quanto non avrebbe dovuto fare se si fosse accontentato della casetta di Apparizione.
Già, perché non bastava solo l’umiliazione di essere stata sconfitta in battaglia da un idiota in calzamaglia: come indennità di guerra, oltre alla cessione di tutte le armi all’esercito imperiale e la rinuncia ad un’economia che permettesse ai cittadini una vita dignitosa, Marina si era dovuta abbassare al ruolo di domestica in casa di Austria.
In altre parole una semplice serva.
Sospirò, appoggiando la scopa contro il muro rivestito di arazzi, per poi rivolgere o sguardo allo specchio appena lucidato che le rispediva, da sopra il caminetto spento, la sua immagine riflessa.
Si ritrovò a fissare una figuretta esile e magrolina, quasi mortificata all’interno di quegli abiti coperti di polvere e inutilmente protetti da quel grembiule che un tempo doveva essere stato immacolato ma che adesso riportava i segni di una vita di duro lavoro.
Dalla cuffietta candida spuntavano gli incolti capelli castani. L’ultima volta li aveva tagliati un po’ troppo corti, ma ormai avevano quasi raggiunto la giusta lunghezza, in un caschetto un po’ disordinato.
Sfilò la cuffietta con un gesto stanco scuotendo il capo per ravvivare i capelli poi tornò a guardarsi nello specchio.
Gli occhi blu come il mare che mugghiava impetuoso a un paio di centinaia di metri dal palazzo guardavano l’immagine riflessa con disappunto, ma in loro brillava ancora il fuoco dell’indipendenza che aveva sempre caratterizzato il suo sguardo.
Era solo questione di tempo, bastava saper attendere il momento giusto. Nonappena Roderich avesse abbassato la guardia si sarebbe liberata.
Sorrise, incoraggiata da quel pensiero, per poi afferrare la scopa e incamminarsi verso il ripostiglio canticchiando allegra. Fuori dalla finestra, densi nuvoloni neri carichi di pioggia e un’aria elettrica preannunciavano l’arrivo di un violento temporale.
Sarebbe stata costretta a fermarsi a palazzo quella notte, se non avesse voluto arrivare a casa sua bagnata fino al midollo.
Fu in quel momento, mentre liberava i vestiti dalla polvere con qualche pacca distratta, che udì la musica.
Una melodia dolce, pura, limpida.
Il cuore della ragazza divenne improvvisamente leggero, mentre i suoi piedi si muovevano da soli su per lo scalone che coduceva al salone da ballo.
La porta era aperta, dall’altro lato della stanza, dandole la schiena, il nuovo padrone di casa stava suonando il meraviglioso pianoforte a coda che si era fatto fabbricare a suo personale uso e consumo.
Marina appoggiò la schiena allo stipite della porta chiudendo gli occhi e liberando la sua mente per lasciarla in balia delle note.
Le dita dell’austriaco correvano rapide sui tasti bianchi e neri con una maestria impareggiabile, ma la cosa più bella da osservare era il suo viso.
Aveva un’espressione serena, rilassata, come se quando si sedeva al pianoforte tutte le sue preoccupazioni svanissero lasciando il posto a quello stato di pace che si espandeva per tutta la casa, facendo vibrare il cuore di Zena di uno strano sentimento a tratti malinconico, a tratti gioioso.
In quei momenti, doveva ammetterlo, ammirava Roderich.
Adorava la sua musica, il modo in cui sapeva eseguire anche le sequenze più difficili senza mai sbagliare, le note sembravano levarsi direttamente dalla sua anima, senza il bisogno di passare attraverso le corde del pianoforte.
Ma la magia si spezzò bruscamente col finire della melodia.
- Genova! Cosa ci fai qui?! –
La ragazza spalancò gli occhi e drizzò la schiena con espressione colpevole.
- Ehm, ecco, io… Ho finito le pulizie, pensavo che potrei anche andare… - ma la sua frase venne interrotta dalla voce del ragazzo.
- Hai già preparato la mia cena? –
Silenzio.
- Allora? –
- No, signore… Vado subito… -
Mai che le facesse il favore di lasciarla libera un po’ prima! E poi dove stava scritto che doveva sempre cucinare lei? Roderich non era proprio in grado di fare nulla da solo! Prima o poi le sarebbe  casualmente scivolata nell’arrosto una bella dose di Belladonna…
Dopo un’oretta scarsa la cena fu servita, la grande sala da panzo era deserata, fatta eccezione di Roderich.
Al di fuori del palazzo le prime gocce di pioggia avevano già iniziato a cadere.
La ragazza fece per andarsene, quando la voce dell’austriaco la bloccò sulla soglia.
- Genova! La zuppa è fredda… -
Sospirò, stufa marcia dei suoi meri capricci.
- In totale franchezza, mi sono amabilmente rotta le scatole delle vostre lamentele, Herr Kaiser… - e con ciò gli diede nuovamente le spalle e uscì dalla sala, marciando a grandi passi verso la sua stanza, una piccola cameretta adiacente alla soffitta.
Già, nonostante avesse a disposizione uno dei più belli e sontuosi palazzi della città, era stata relegata a quel buco nel sottotetto. Non che le dispiacesse, così era molto più semplice tenere ordinato, ma il solo pensiero che a Roderich fosse spettata –spettata? Ma che diceva? Se l’era presa con la forza!- una fra le migliori stanze dell’edificio la mandava in bestia.
Lesse un po’, ma non voleva consumare tutta la candela, in quel periodo costavano un’esagerazione, così soffiò sulla fiammella e infilò la camicia da notte, pronta per andare a dormire.
Chissà se suo cugino Francia avrebbe mai più tentato di liberarla, dopo l’ultimo clamoroso fallimento? No, ormai non poteva più contare su forze esterne, se avesse voluto scrollarsi di dosso quel dannato quattrocchi, avrebbe dovuto farlo da sola. Sentiva di essere ormai giunta al limite, non sapeva per quanto ancora la sua pazienza avrebbe retto…
Cercò di scacciare quei pensieri fastidiosi e dormire, ma il temporale che imperversava fuori dalla finestra non la aiutava certo a prendere sonno: i tuoni erano ormai potenti come cannonate e i fulmini illuminavano a giorno il piccolo locale.
Rassegnata all’idea che non avrebbe chiuso occhio finchè il diluvio non si fosse calmato, si avventurò fuori dalle coperte, aprendo la porta della sua stanzina cercando di fare il meno rumore possibile.
Passò davanti alla sala da pranzo, notando che i piatti erano spariti. Che li avesse…? No, era impossibile…
Proseguì la sua passeggiata notturna fino alla piccola loggia che dava sul cortile interno e si sedette sul parapetto, lo sguardo perso fra le gocce di pioggia.
Dopo qualche minuto si rialzò in piedi e sgattaiolò fino a una cameretta poco distante. Ne uscì subito dopo, filando spedita dove era prima, in mano il suo piccolo segreto.
Aprì la custodia con grazia, sfilando il bellissimo violino come se si fosse trattato di una rosa di cristallo. Lo accordò con cura e passò la pece sull’archetto, sedendosi nuovamente sul parapetto e intonando un Mi.
Chiuse gli occhi per concentrarsi meglio. Aveva imparato lo spartito a memoria, ma doveva sempre fare molta attenzione per ricordarlo tutto.
Non ricordava di preciso quando aveva iniziato ad interessarsi al violino, ma risaliva certamente a moltissimi anni prima. Il suo suono melodioso e malinconico, ma anche forte e gioioso l’aveva sempre affascinata, fino a che si era decisa a comprare uno strumento per sé e imparare a suonarlo. Aveva preso lezioni da un vecchio irlandese che aveva comprato casa non molto distante dal porto. Si era sempre chiesta cosa lo avesse spinto ad allontanarsi dalla sua patria per stabilirsi a Genova, ma l’uomo era molto avido di racconti su sé stesso, e si limitava ad impartire le sue lezioni offrendole tazze di tè fumante. L’unica cosa che continuava a ripetere ogni volta con lo stesso orgoglio della prima era che non c’erano violinisti migliori degli irlandesi. Ma un giorno il vecchio era morto e a Marina era toccato proseguire il suo studio del violino da autodidatta. Le era dispiaciuto per il vecchio irlandese, le stava simpatico.
Era molto che non suonava più, e aveva dimenticato qualche passaggio della musica che stava suonando, era un pochino arrugginita, ma nel complesso la melodia si alzava nell’aria in modo natuale, ogni tanto lievemente disturbata dalle vibrazioni dovute all’umidità.
Ad un certo punto si interrupe: non riusciva più a ricordare il seguito dello spartito.
- La minore. –
Sobbalzò, per nulla preparata ad udire quella voce.
Si voltò verso la loggia, da dove Roderich la stava osservando attentamente, ogni tanto rischiarato da un fulmine.
Cercò di replicare, ma era così in imbarazzo che la bocca le si era completamente impastata.
- Coraggio, vai avanti! Stavi andando bene! – la incalzò l’austriaco.
C’era qualcosa di strano nella sua voce, qualcosa che Marina non vi aveva mai udito. Incapace di opporsi continuò a suonare, mentre il ragazzo le suggeriva gli accordi giusti.
E mentre l’archetto si muoveva sinuoso sulle corde tese si ritrovò a pensare che in fondo non era così male. Certo, era pur sempre un usurpatore, presuntuoso e antipatico, ma forse, se si fosse sforzata di guardare oltre a quella facciata così sgradevole, avrebbe potuto scorgere un ragazzo diverso. C’era dolcezza nei suoi modi, adesso. C’era gentilezza nelle sue parole, nei suoi gesti. Le sue mani curate erano delicate nel posizionare le sue dita invece così rovinate sulle corde.
- Premi di più col pollice, verrà un suono più pulito. – sussurrò da dietro alla sua spalla.
Che ne era stato di quel Roderich Edelstein che le faceva sempre montare in corpo una rabbia cieca ad ogni occhiata? Chi era quel giovane così piacevole che le stava insegnando quella melodia sconosciuta? Si trattava della stessa persona? Impossibile, doveva esserci un errore…
- Non sapevo che sapessi suonare il violino. – commentò l’austriaco.
Marina smise di suonare, appoggiando il violino in grembo.
- Ho iniziato nel ‘600, ero più brava, una volta, adesso ho un po’ perso l’allenamento… - si giustificò, rossa per l’imbarazzo.
Roderich sorrise, lascinado che i suoi occhi si posassero sullo strumento.
- Con questo temporale non riuscivo a dormire, così ho pensato di fare due passi, ma poi ho sentito quella musica… Non avrei mai pensato che potessi essere tu! – e nella sua voce c’era una certa soddisfazione, come se avesse segretamente sperato che la ragazza potesse coltivare una passione simile e adesso vedesse il suo desiderio realizzato.
- Beh, si… nemmeno io riuscivo a prendere sonno… - confessò, cercando di ricacciare indietro l’imbarazzo.
Un tuono violento fece vibrare i vetri delle finestre; quando fu tornata una pace apparente il viso di Roderich parve illuminasi.
- Che c’è? – domandò la ragazza.
- Mi è venuta un’idea! Prendi le tue cose e seguimi! –
Marina balzò giù dal parapetto e lo seguì senza proferire parola. Era dannatamente strano, quasi eccitato, aveva perso completamente la sua aria da Kaiser perennemente insoddisfatto.
Le scappava quasi da ridere a vederlo così…
Raggiunsero il salone da ballo, dove accesero alcune candele per fare luce. Roderich si sedette al pianoforte, facendole cenno di avvicinarsi.
- E’ la stessa che ti ho insegnato. Coraggio, prova… -
Le sue dita iniziarono a muoversi sui tasti in un dolce accompagnamento al pianoforte, mentre lei intonava la melodia appresa poco prima. Andarono avanti per tutta la notte, scambiandosi sorrisi sereni e rilassati.
Nessuno avrebbe potuto mai dire, in quel momento, che quei due erano soliti odiarsi…
 

*

 
Quel giorno il cielo era grigio su Genova.
Le nuvole sembravano strapparsi, portate via dal forte vento di tramontana che soffiava sulla città. Era ormai il tramonto, e alcuni raggi di sole calante riuscivano a intrufolarsi tra le nuvole come tra i pizzi di una tenda, colorando le case di arancione, giallo e rosso sangue.
Lo stesso sangue che imbrattava le strade.
Ma i Genovesi erano in festa, finalmente liberi, di nuovo indipendenti.
Sembrava che fosse stato un ragazzino a scatenare la rivolta, un sasso scagliato con la fionda contro un ufficiale dell’esercito imperiale, e la popolazione si era sollevata, pronta a riavere indietro la sua libertà.
Marina aveva combattuto strenuamente tutto il giorno, al fianco dei suoi uomini, uniche armi le pietre che trovava per terra, almeno finchè non erano riusciti ad impadronirsi del deposito munizioni degli Austriaci. Tutti avevano combattuto con valore quel giorno, dai portuali agli universitari che avevano reso Via Balbi il quartier generale dei rivoltosi.
Per strada la gente cantava ad alta voce, non più spaventata ma orgogliosa e felice.
Liberi.
Una parola che non erano più abituati a pronunciare.
La Superbacittà di Genova apparteneva di nuovo ai suoi abitanti, la Repubblica aveva issata alta la bandiera bianca crociata di rosso.
E anche Marina aveva festeggiato, cantando e ridendo con la sua gente, portata in trionfo dalla folla che inneggiava a lei.
Eppure, dall’alto della Lanterna, non riusciva ad essere pienamente orgogliosa di se stessa.
Avevano vinto, sì, ma a che prezzo?
Roderich era il nemico, andava cacciato, ma era davvero necessario conciarlo in quel modo? Ricordava la violenza con cui si era scagliata contro di lui, doveva fargli pagare anni di soprusi e di lacrime ingoiate per tenere fede al suo orgoglio, per non mostrargli il suo dolore.
Quel giorno non aveva più retto, e i suoi sentimenti covati per così tanto tempo erano usciti dagli argini come un fiume in piena.
Il sangue del ragazzo impregnava i suoi abiti, l’aveva ridotto così male che nemmeno riusciva a reggersi in piedi, avevano dovuto portarlo via alcuni dei suoi, caricandolo su una barella improvvisata e dandosela a gambe prima di incappare nella furia dei Genovesi.
Inizialmente si era sentita potente, imbattibile, la vera regina di quella battaglia, ma poi era tornata a Palazzo del Principe e aveva visto il pianoforte.
Lo avevano buttato giù dalla balconata, in un tremendo fracasso di legno schiantato. Tasti e corde adesso pendevano in modo macabro dai supporti di legno.
Un oggetto così bello finito in quel modo, aveva paradossalmente seguito lo stesso destino del suo proprietario.
E a Marina era venuta improvvisamente in mente quella notte di temporale trascorsa a suonare insieme. Qualla notte durante la quale avevano smesso di odiarsi, avevano dimeticato rancori e pregiudizi comportandosi come due amici. Aveva ricordato la sensazione di serenità che aveva provato quella notte, e gli occhi avevano iniziato a bruciarle. Se n’era andata da quel luogo prima che potessero chiederle qualsiasi cosa.
La Lanternala aspettava come sempre, il vento e i gabbiani che gridavano alla vittoria della Superba.
Appoggiò i gomiti sul parapetto, lasciando che il vento le scompigliasse i capelli mentre un raggio di sole sfuggito alle nubi le illuminava il volto.
Si impose di sorridere, perché tutto sommato era riuscita in quello che pianificava ormai da anni, ma non sarebbe mai stata completamente felice di quel giorno.
Si sedette e aprì la custodia del suo violino, iniziando a suonare.
- La minore… - sussurrò, muovendo l’archetto.

  
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