Vi preghiamo di leggere la nota introduttiva a questa fanfiction per un maggior chiarimento e a scanso di equivoci e critiche.
Questa fanfiction sarà un lavoro davvero lungo ma al quale ci stiamo dedicando con amore e dedizione, è una versione romanzata e innovata di FullMetal Alchemist, che unisce -in un modo che abbiamo cercato di rendere credibile e possibile- le trame dell'anime 2003 e del manga e allo stesso tempo contiene differenze da entrambe le serie, approfondendo personalità e rapporti, mostrando ciò che non è stato fatto vedere e ciò che che alcuni fans avrebbero voluto vedere, tra cui pairing ( tratteremo di coppie sia canon che fanon che crack ) e fanservice di diversa natura ( ovvero sia het, che shonen-ai e shoujo-ai ).
Perché fare una cosa del genere? Per noi, per il Fandom in particolare ( sì, per te che stai leggendo ) e per colmare il vuoto che questa serie che abbiamo visceralmente amato ci ha lasciato.
La progettazione di tale ff è iniziata con la fine del manga in Giappone, dopo qualche mese di riflessione, di nostalgia, di insoddisfazione, di confronti e discussioni con altri fans abbiamo poi deciso di provare a fare un tributo d'amore con una fanfiction, ed è stata lunga e massacrante, fatta in ore libere tra Università e McDonald di Roma e poi è stata conclusa quest'estate in una settimana di vacanza in cui ci abbiamo lavorato da mattina a sera, tra mare e casa, tutto questo per amore di questa serie, dei suoi personaggi, del fandom ( che ormai è degenerato ), delle belle persone che abbiamo conosciuto in questo spazio e successivamente nella vita reale.
Ci rendiamo conto che tante parti narrative e dialoghi saranno proprio come nell'anime e nel manga, ci rendiamo conto che non possiamo emulare l'Arakawa, ci rendiamo conto che non potremmo soddisfare proprio ogni membro del Fandom e infine siamo consapevoli che potremmo essere bersagliate da critiche, ma ciò non toglie che questo lavoro è dedicato tutti voi e anche a noi stesse, con amore, e quindi speriamo possiate gradirlo, seguirci e non farci mancare le vostre opinioni.
Buona lettura.
Le Cronache di Amestris
Unerasable Sin
Una nuvola oscurò la luna e quella notte divenne un cliché da romanzo del terrore: buia e tempestosa.
Il vento sibilava in modo terrificante tra i rami degli alberi e si scontrava con prepotenza sulle case, tanto da far tremare porte e finestre.
Nel villaggio di Resembool, un'anziana signora con la sua nipotina si apprestavano a riordinare la parte di casa destinata ad essere un'officina di automail, protesi in acciaio, l'attività di famiglia che impegnava molto la vecchia Pinako e affascinava la piccola Winry.
Quando ormai tutto era pulito ed erano pronte per coricarsi a letto,
sentirono una voce urlare oltre la porta di casa che qualcuno stava colpendo con
energia; la signora Rockbell corse allarmata ad aprire non pensando
affatto che avrebbe trovato una terribile scena una volta aperto.
Winry aprì la bocca per urlare ma la voce sembrò
esserle morta in gola, mentre le gambe di Pinako tremarono quando una
voce metallica e familiare uscì da quella che era una grossa
armatura.
"Zia Pinako! Winry! Per favore, fate qualcosa! Aiutateci! Il fratellone... il fratellone...".
"Al...?" Chiese la voce dell'anziana impastata dal timore. Era davvero il piccolo Alphonse Elric che parlava da dentro l'armatura?
Eppure lo sguardo della donna non riuscì a concentrarsi sull'armatura, era immobile su ciò che essa teneva stretto tra le braccia. Gli occhi di Winry erano pieni di lacrime e il suo piccolo corpo tremava, perché quello era il più spaventoso degli incubi, ed era reale: il bambino che giaceva agonizzante tra le braccia dell'armatura era Edward, un Edward sporco di sangue, senza un braccio e senza una gamba.
Aveva bisogno d'aiuto, immediato, o sarebbe morto.
Pinako fu tempestiva; era rimasta pietrificata dall'orrore appena aperta la porta, ma non lasciò che la voce di Al si ripetesse due volte.
"Portalo dentro, in camera da letto! Winry, corri a prendere una
bacinella di acqua calda!".
Al corse dentro la casa e sua nipote anche
reagì nonostante lo choc. Winry aveva perso il suo papà e
la sua mamma in guerra, aveva perso la gentile zia Trisha a causa di
una malattia; non voleva perdere di nuovo qualcuno di importante, non
voleva perdere Ed, avrebbe impedito a qualsiasi costo alla morte di
portarselo via.
Quella terribile notte nessuno l'avrebbe mai dimenticata, nessuno
avrebbe mai dimenticato quanto sangue Edward perse, nessuno avrebbe
dimenticato le grida di Ed e i suoi deliri, mentre Pinako cercava di
fermare le preoccupanti emorragie dagli arti persi, mettendo punti di
sutura con quel minimo di preparazione medica che il suo mestiere
richiedeva.
Al -per tutto il tempo- aveva continuato a ripetere come un mantra
le parole "Fratellone" e "Ci dispiace". Le ripeté con voce
addolorata fino a che l'alba non arrivò, fino a che Edward non
fu fuori pericolo.
Quando Pinako gli diede una pacca sul braccio di
ferro e lo rassicurò dicendo che Ed era salvo, Al si sedette con
le spalle alla parete di fronte al letto in cui Ed giaceva e
dall'armatura uscirono parole tremolanti e dense di rammarico.
"Non volevamo, non doveva finire così, noi... volevamo solo rivedere la mamma".
*
Trisha era una donna gentile ed evanescente come un riflesso. Ed e Al avevano sempre avuto l'impressione che sarebbe potuta scomparire da un momento all'altro, per non si sa quale strana ragione. Per questo erano divenuti dei figli appiccicosi, ossessivi, differenti dagli altri bambini che tendevano a voler rimanere fuori il più tempo possibile per giocare, lontani dai rimproveri dei loro genitori. Si sarebbe potuto dire che avessero tentato di tenerla sotto la propria protezione, allontanandosi il meno possibile da lei.
Il loro padre era, nei racconti di Ed, una figura nera ed indifferente sul ciglio di una porta aperta. Al non poteva far altro che crederci, perché non aveva argomentazioni né ricordi sufficienti a sostenere il contrario.
Sapeva che era un'alchimista, e che Trisha era affascinata da quell'arte.
"Mamma, quando torna papà? Perché non ci ha salutati? Non ci vuole bene?".
Il piccolo Al guardava col broncio la sua ciotola con i cereali della colazione, offeso perché il suo papà non li aveva salutati, non aveva dato loro un bacio sulle guancie promettendogli di tornare presto e con dei regali per poter giocare insieme; era piccolo, ma sapeva pensare già in grande, per questo credeva che se il padre era andato via così di soppiatto c'era qualcosa che non andava, forse era arrabbiato con lui e Ed perché litigavano spesso, che fosse a tavola o nei momenti di gioco.
"Ma no Al, cosa dici? Vostro padre vi vuole tanto bene" gli accarezzò il capo e portò il cucchiaio davanti alla sua bocca invitandolo a prendere quel boccone della sua colazione.
"E' andato via in silenzio perché non voleva svegliarvi, voleva lasciarvi ai vostri sogni" non potevano dei bambini comprendere le ragioni degli adulti, né i loro sentimenti, più complessi perché accompagnati da mille pensieri e premure che, a causa di ciò, finivano per ferire i sentimenti dei più piccoli.
I bambini vivono in un mondo con una logica tutta loro, semplice e lineare, neanche lontanamente vicina a quella contorta degli adulti.
"Tornerà presto, vedrete" lo ripeté mentre lo sguardo si adombrava, lo ripeté più a se stessa che ai suoi figli.
Le aveva detto che tornava presto, sì, e lui era un uomo di parola, la sincerità gliela si leggeva nei suoi occhi, però... Trisha aveva uno stranissimo presentimento a cui non sapeva dar forma, né voce.
Prima che uno dei suoi figli potesse notare la sua espressione, portò l'argomento su una questione che sarebbe di certo interessata ai due bambini.
"Mi ha detto che vi porterà dei regali molto speciali, però..." spostò l'attenzione su Edward che aveva scansato il bicchiere di latte "...non porterà niente a chi non beve il latte a colazione".
Edward se ne stava seduto dritto, attaccato allo schienale della sedia, con le braccia conserte come uno scioperante ed un broncio sulla faccia. Cercò il modo più gentile per dire che, piuttosto, avrebbe preferito percorrere tutta Resembool facendo la verticale.
"Cosa me ne importa dei regali di quel bastardo!".
"Edward! Non si dicono queste parole!".
Quello sbuffò, facendo sollevare una ciocca bionda che gli era finita sugli occhi, mimando l’atteggiamento dei teppisti, dei duri.
I loro capelli non erano semplicemente biondi: erano dorati, come quelli del padre, perciç rendevano spesso i suoi bronci e le sue rappresaglie inefficaci, mal espressi dagli occhi brillanti ugualmente dorati. Dei lasciti di suo padre, tra tutti, quegli strani tratti erano quelli che sopportava meno, che non tollerava.
Lui non credeva a quelle parole, non s’illudeva. Quando Alphonse chiedeva notizie di loro padre s’irrigidiva, senza dire niente, abbassava la testa facendosi finire i capelli negli occhi.
Trisha si sentiva messa alla prova da quell’immagine che faceva vacillare la sicurezza delle sue parole.
"Non pentirti, poi, quando il papà non ti darà niente".
"Tsk", esalò soltanto.
"Figurati se bevo questa schifezza per quel disgraziato".
Il sorriso tremò sul volto di Trisha, per poi ristabilirsi sui lineamenti bianchi.
Il volto di suo marito danzò nella sua visuale, sovrapponendosi a quello di suo figlio. Poi vide una magia, un gioco di luce, fiori materializzati dal nulla nelle proprie braccia, una porta aperta che inondava di luce il soggiorno -che lo lasciava andare via-.
Mantenne salda la benevolenza sul suo volto.
"Vostro padre è un grande alchimista, un genio. Vi vuole bene. E… tornerà".
"Tsk, scommetto che posso essere più bravo di lui!".
"Fratellone, perché non impariamo l'alchimia anche noi?"
La frase di Al attirò gli sguardi di Trisha e di Edward mentre lui prese una generosa cucchiaiata dei suoi cereali, finendoli.
"Così quando tornerà rimarrà senza parole!" Esclamò con un tale entusiasmo che finì per estorcere un sorriso radioso a Trisha.
Se giocare ai piccoli alchimisti poteva farli sentir meglio e distrarli dall'assenza del loro padre, allora non li avrebbe di certo scoraggiarti.
"Ma che bella idea Al".
L'alchimia avrebbe fatto bene alla malinconia di Al e forse avrebbe reso più mansueto e gentile Ed, così piccolo ma già con atteggiamenti baldanzosi e parole d'adulto in bocca. Voleva essere l'uomo di casa -era comprensibile- e Trisha non aveva alcuna intenzione di scoraggiarlo riguardo a questo proposito, sperava però che non volassero altre parole volgari che entravano in contrasto col grazioso faccino del bambino.
Edward sorrise, arrogante, posando un gomito sul tavolo, ben lontano dalla tazza piena di latte, respirando fino a gonfiarsi il petto.
"Massì! Perché no? Scommetto che sarà una passeggiata! Saremo mille volte più bravi!".
Cominciarono a sfogliare i libri di alchimia che avevano in casa, ad abbozzare cerchi alchemici sul pavimento di legno della cucina. La madre li guardava all'inizio scettica, poi sempre più ammirata mentre davanti ai suoi occhi prendevano vita composizioni floreali, giocattoli, statue e pupazzi che era felice di mostrare alle altre mamme, tutta orgogliosa dei suoi piccoli geni.
Pian piano, più che una gioia, i regali dei suoi figli divennero una consolazione.
I figli, tuttavia, non erano ancora grandi abbastanza quando, pian piano, la donna cominciò a ritirarsi nel suo letto, ad avere sempre meno forza e tempo per lodare le loro opere.
Non avevano idea di ciò che sarebbe accaduto fino all'ultima notte, ed Edward la ricordava bene. L'accostava nella sua mente a quell'ultimo ombra di suo padre.
Riconosceva gli abbandoni, a prescindere da qualunque parola il medico avrebbe potuto pronunciare. Quelle immagini scorrevano come scene parallele, mentre teneva la mano di sua madre, e la rabbia montava dentro di lui.
"Vorrei una composizione di fiori. Tuo padre me ne faceva sempre... ed erano bellissime...".
La sua mano scivolò via prima che potesse esaudire il suo ultimo, minuscolo desiderio.
Al funerale la folla faceva un rumore sommesso, che le sue orecchie non udivano a pieno. Edward aveva le orecchie piene di qualcosa che non era suono, come se il suo proposito fosse cresciuto divenendo, da un sibilo, un urlo lancinante.
Un funerale significa rassegnazione, fine.
Le mani degli astanti erano distese, o racchiuse l'una nell'altra in una preghiera. Le sue erano strette in pugni che diventavano sempre più lividi.
Davanti alla tomba di sua madre un senso d'ingiustizia, un globo incandescente di collera lo pervase, mentre suo fratello stava in ginocchio sulla tomba, piangendo come qualunque figlio avrebbe fatto al funerale della propria madre.
Qualche tempo dopo, lui e Al si ritrovarono nella stessa posizione e le sue mani erano sempre strette in pugni, come se in tutto quel tempo non avesse fatto altro che covare qualcosa d'indicibile, d'inconfessabile. Aveva versato poche lacrime, ed in brevi parole riversò un dolore ed una speranza.
Fu come se le avesse dette davanti a quella porta aperta in controluce sul mondo.
"Al, voglio riportare in vita nostra madre".
Al non poté che guardarlo confuso a quelle parole. Aveva gli occhi rossi dal pianto, ancora il suo dolore non si era placato, era come se giorno dopo giorno qualcosa dentro di lui lo divorasse da dentro; non importava quanto si sfogava, non importava quanto lo consolassero con belle parole, la morte della loro madre era stata come la morte di una parte di loro, gli era stata strappata senza pietà parte della loro vita, un taglio netto e profondo che ancora bruciava e doleva e Al aveva la netta sensazione che sempre sarebbe stato così, come avere una ferita aperta, una ferita mortale però che non dava la grazia di un eterno riposo.
Aveva sentito parlare Al dell'Inferno, aveva letto su alcuni libri di esso, un luogo terribile di torture ininterrotte, un posto in cui non c'era spazio per nulla se non dolore e disperazione. Alphonse non aveva idea di dove fosse quel luogo, ma da quando Trisha aveva chiuso gli occhi per non aprirli più e loro erano rimasti soli, quando erano tornati a casa senza sentire più la dolce voce della madre che li accoglieva, senza più l'odore di buono del pane e dei dolci che lei stessa cucinava, allora fu sicuro che quella non era più la loro casa, non più la loro vita: quello era l'Inferno.
Potevano forse riavere la chiave della felicità?
Al guardò speranzoso suo fratello, anche se le sue parole gli provocarono un brivido lungo la schiena, non poté che guardarlo avido di sapere, col cuore in gola: se c'era un modo per poter rivedere la loro mamma, tornare ai giorni felici, allora Ed doveva parlare.
"...riportare in vita la mamma? Dici... dici sul serio?".
Edward non vacillò, guardò suo fratello negli occhi sentendosi, per un solo attimo, superiore alla morte. Aveva letto qualcosa sui libri di suo padre, come se quello sciagurato avesse voluto, una sola volta nella sua vita, indicargli la strada.
L'alchimia aveva quel potere, ne era sicuro, non poteva essere che così.
Era una scienza benevola che avrebbe potuto riportare ciò a cui avevano diritto, riportare tutto a come era giusto che fosse. Trisha Elric non meritava di stare nella tomba, loro non avevano compiuto un crimine tale da meritare di stare senza di lei.
Impastò quei pensieri forti, quasi violenti, nella sua mente, prima di rispondere.
"Sì Al, ho letto qualcosa su un libro di nostro padre a tal proposito. Possiamo farlo con l'alchimia".
Ad Al bastarono quelle parole. Si sciolse in un nuovo pianto, diverso però dagli altri che aveva versato nei giorni passati: c'erano lacrime di speranza stavolta; suo fratello non poteva mentirgli, era sicuro dicesse il vero, in fondo l'alchimia era la scienza che faceva felici gli uomini, no? Quindi doveva avere la soluzione ad ogni cosa, anche a qualcosa di tanto tragico e devastante.
Formulato quell'ingenuo sillogismo si sentì sollevato, le fiamme dell'inferno gli sembrarono già lontane.
Il sole stava tramontando su Resembool ma ad Al sembrò l'alba.
Sollevò una mano e andò a prendere quella di suo fratello, sciogliendola da quel pugno di ferro che si era autoimposto. Alphonse credeva che non avrebbero più sorriso, che avrebbe dimenticato come si dovevano distendere le labbra per farne uno, invece -una volta che le sue dita furono intrecciate a quelle di Ed- Al, col muco che gli colava ancora dal naso, sorrise all'altro, uno di quei sorrisi dolci che sembrano fatti per sciogliere il cuore e illuminare ogni cosa intorno a loro; era il sorriso di Trisha quello che Al stava mostrando a suo fratello.
Edward lo fissò, sentendo i muscoli della mano scricchiolare mentre si racchiudevano attorno alle dita di Al, irrigidendosi di nuovo. Per un solo, singolo istante vibrò, come se un peso enorme gli fosse precipitato addosso.
Era giusto, non è vero?
Il globo di rancore nel suo petto si scosse, mentre qualcosa dietro i suoi occhi faceva pressione, rendendo tutto improvvisamente tremolante tra le sue mani. La sua decisione era presa, e si preparò a mantenere il peso della promessa che stava per fare davanti a quel sorriso, che riuniva in uno le speranze di una madre e di suo figlio.
Strinse la mano di Al con quanta più forza potesse, fermando il movimento inconsulto del suo corpo che l'aveva fatto tremare per un solo, isolato, determinante momento.
"Sto parlando di trasmutazione umana". Terminò, totalmente fermo, del tutto deciso a portare a termine quell'impresa.
Un fremito scosse Al che cercò di aprir bocca per parlare ma non vi riuscì. Lo sguardo di Ed glielo impedì, quegli occhi bruciavano di determinazione. Solo per qualche secondo però.
"Ma... la trasmutazione umana non è proibita? Abbiamo letto chiaramente che è tabù".
Ed guardò per qualche secondo davanti a lui, metabolizzando, poi rispose, evitando ad ogni costo di guardare in faccia suo fratello.
"Per questo sarà il nostro segreto".
Al strinse con maggior forza la mano di Ed e facendo forza su una gamba si alzò e portò davanti agli occhi del fratello -perso a contemplare l'orizzonte- il suo mignolo.
Sarebbe stato il loro segreto e la loro promessa, e crimine o no che fosse, non avrebbero guardato indietro, non si sarebbero pentiti.
Al era convinto che in fondo non avessero più nient'altro da perdere.
*
"35 litri d'acqua, 20 chili di carbonio, 4 litri di ammoniaca, 1 chilo e mezzo di calce, 800 grammi di fosforo, 250 grammi di sale, 100 grammi di salnitro, 80 grammi di zolfo, 7,5 grammi di fluoro, 5 grammi di ferro, 3 grammi di silicio, più altri 15 elementi in minima quantità…".
Edward elencò quelle sostanze con aria solenne, sentendosi quasi un sacerdote che celebrava un qualche sacrificio ad un Dio. Ma non c’era nessun Dio, e se ci fosse stato avrebbe avuto con lui molti debiti.
Respirò, nell’oscurità della loro cantina, rievocando il viso di sua madre. Poi trattenne il respiro, mantenne le spalle dritte ed il braccio teso sul cumulo di sostanze che aveva appena nominato.
Nella sua mente sua madre applaudiva per il suo velocissimo apprendimento dell’alchimia, sorrideva, cucinava lo stufato girando il mestolo in un grosso pentolone, tossiva sangue sul palmo della mano bianca.
"Ecco, questi sono i componenti di un corpo umano".
"Ora ci manca solo l'anima", il punto cruciale di quella trasmutazione.
Al, si era occupato solo degli ingredienti del corpo umano, si era preoccupato di controllare in modo scrupoloso i dosaggi, non si era mai posto domande sull'anima, aveva il timore della risposta, per questo aveva lasciato quella parte a Ed, senza incontrare il suo sguardo, non voleva che nessun dubbio e nessuna paura venisse a galla. Si era chinato a terra e aveva completato il disegno del cerchio col gesso, facendo ben attenzione di non sbagliare un solo segno. Era importante disegnare quel cerchio, lì l'energia si sarebbe concentrata e avrebbe effettuato la trasmutazione una volta che le loro mani avrebbero toccato a terra trasferendo la loro energia dentro la circonferenza che avrebbe poi agito da catalizzatore.
Edward sembrava estraniato, sembrava non aver udito ciò che gli era stato detto. Si riscosse, sentendo di dover prendere in mano la situazione, di avere ancora quell’enorme peso sulle spalle. Ma sarebbe andato tutto bene, i suoi calcoli erano impeccabili, le ricerche su cui si era basato affidabili.
Coloro che avevano marchiato la Trasmutazione umana come tabù, in realtà, lo avevano fatto solo per l’orgoglio di non dire che non erano stati in grado di portarla a termine… ma loro ce l’avrebbero fatta, e la mamma sarebbe stata fiera di loro.
Prese in mano il coltello che si era portato appresso. Sorridendo lo alzò in aria, sentendosi per un momento invincibile.
"L’anima è il nostro sangue".
Al sorrise e si accostò a Ed. Avevano in mano tutto quello che serviva, sembrava un sogno, troppo bello per essere vero.
Il cuore pulsava come impazzito nel suo petto, pompando adrenalina: mancava pochissimo e poi la mamma sarebbe di nuovo stata lì con loro, di nuovo a mostrar loro il sorriso e a congratularsi per la loro bravura.
Trisha non sarebbe stata più triste, non sarebbe stata più ammalata, ora che sapevano che con l'alchimia potevano far felici le persone a loro care con il solo impegno e studio, avrebbero dedicato tutte le loro forze a quello e come nei finali delle più belle fiabe avrebbero vissuto per sempre felici e contenti.
Il fatto che la loro nuova vita però dovesse cominciare con un tributo di sangue suonò, per un solo istante, sbagliato nella mente di Edward.
Il suo sorriso non mutò, neanche allora.
Doveva avere un’aria rassicurante, per Alphonse, era suo dovere; perciò passò la lama sull’indice destro, lasciando sgorgare qualche goccia di sangue, aspettando che Al facesse lo stesso.
Poi posò le mani a palmo aperto sul cerchio alchemico.
E quando anche Al versò il suo sangue si accostò al fratello, tenendo le mani ben ferme all'interno del cerchio con lo sguardo fisso alla bacinella al centro di esso.
Batterono le mani, in sincronia, imitando un applauso, così concentrarono l'energia che una volta toccata la superficie, lì dove il cerchio alchemico era stato tracciato, si liberò e divenne luce, abbagliante, che stava trasformando qualcosa, il loro tributo di ingredienti umani stava prendendo vita, assumendo una forma umanoide.
Si aprirono i loro sorrisi, i loro occhi erano lucidi, quel sogno stava prendendo forma e tutto questo perché avevano avuto il coraggio di sfidare il ciclo naturale della vita, il Creatore stesso -ammesso che esistesse-, tutto senza porsi freni inibitori, guidati dall'ambizione, dallo studio e dalla determinazione.
Avrebbero potuto essere il simbolo che l'uomo può tutto, se determinato, ma il semplice desiderare qualcosa -anche se ardentemente- e impegnarsi per raggiungerlo, molto spesso non serve a nulla.
L'uomo ha i suoi limiti.
Dalla luce spuntarono delle ombre, si mossero e si scagliarono -veloci come saette- contro Al. Con strette ferree avvolsero ogni suo arto.
Al gridò e tese la mano verso il fratello, chiamò il suo nome ma le ombre si accanirono ancor più numerose su di lui, una forza incontrastabile e vorticosa lo stava trascinando via e quegli esseri di ombra dovevano avere artigli affilatissimi, li sentì affondare nelle sue carni e strapparle; bruciò nell'agonia della pelle lacerata.
Non lo stavano riducendo a brandelli, lo stavano letteralmente divorando.
Ad Edward parve improvvisamente di trovarsi al centro di una tempesta. Le ombre e i fulmini scorrevano paralleli intorno a loro, racchiudendoli in una sfera chiusa di luce ed ombra che non riusciva a distinguere. Poi, vide solo la mano tesa di suo fratello, di fronte a lui.
Sussultò, non reagendo a quello sviluppo inaspettato degli eventi.
Si era sentito troppo potente, aveva pensato di poter domare persino una cosa di quel genere.
Scattò in avanti, senza perdonarsi quell’attimo di esitazione che aveva preceduto il suo gesto.
C’erano stati molti attimi, momenti, istanti a cui avrebbe pensato e ripensato nel tempo avvenire, ma quello avrebbe bruciato nella sua anima fino alla fine dei suoi giorni.
Il corpo di Alphonse finì di essere divorato da quelle forze che danzavano intorno a loro, attirato in una fessura che lo ingoiò come un boccone. Non lo giustificava il fatto che la sua gamba sinistra gli fosse stata sottratta allo stesso modo, strappata via provocandogli un dolore vibrante, esplosivo, insopportabile, che aveva scosso i suoi sensi e la mano che avrebbe dovuto afferrare quella di Al.
Il peso che dal principio aveva avuto sulla schiena proliferò, schiacciandolo, unendosi alla sofferenza che sentiva, facendolo urlare fino a desiderare di strapparsi la gola.
Fu da solo, nel buio che gli ripiombò addosso tutt’ad un tratto quando la tempesta cessò. Solo gli occhi rossi di una creatura che, dal centro del cerchio alchemico, lo fissava, brillavano in mezzo al fumo e alle tenebre. Era a testa in giù, di forma indefinibile, mostruosa.
'L’abbiamo creata noi'.
Il respiro che esalò fu così violento da farlo balzare all’indietro, verso il muro.
La creatura lo ammonì con un verso bestiale, come rimproverandolo per il terrore cieco che pervadeva le membra che gli erano rimaste.
"Non è vero, no. Non può essere… NON E' QUELLO CHE VOLEVO".
Strisciò, miserabile, chiamando il nome di suo fratello, ininterrottamente.
Il mostro dagli occhi rossi respirava vibrando, incapace di far nulla… inutile, informe, pietoso.
"Al… Alphonse… perdonami… Alphonse…".
Un sacrificio, un corpo nuovo, una trasmutazione.
"L’armatura… l’armatura…".
L’afferrò, disegnando un cerchio alchemico al suo interno.
Poteva ancora fare qualcosa, poteva ancora riportarlo indietro, almeno per chiedergli perdono. Per un altro, piccolo istante, pensò che sarebbe morto, e che non avrebbe mai potuto dirglielo a voce.
"Ridammelo! Prenditi l’altra mia gamba, oppure entrambe le mie gambe. Ti offrirò anche il mio cuore perciò… RIDAMMELO! È L’UNICO FRATELLO CHE HO!".
Quella trasmutazione invocava perdono. Era l’urlo del peccatore che era appena diventato, quella notte.
Sotto il rombo di un tuono la reazione alchemica illuminò l'intera casa.
Quando il buio tornò padrone di quello spazio, sotto il ringhio della creatura dagli occhi scarlatti, l'armatura prese vita e si mosse e vide accasciato davanti a lui Edward, agonizzante, privo del braccio destro e della gamba sinistra, che come un pesce fuor d'acqua si contorceva in una pozza di sangue gemendo perdono.
*
Alphonse non avrebbe voluto parlare, non avrebbe voluto dire nulla sul peccato commesso; si vergognava per quello che aveva fatto, solo ora capiva di quale terribile atto contro natura si erano sporcati.
Pinako però stava lì -nel rustico soggiorno non distante dalla camera dove aveva lasciato Ed a riposare-, aveva le braccia conserte e lo sguardo severo, aveva salvato Ed e il minimo che Al poteva fare era rivelargli cosa era accaduto.
Svuotò il sacco ma molte delle parole pronunciate da Al suonarono incomprensibili alle due Rockbell, un po' perché era dura per Al parlarne, era ancora sotto choc, e un po' perché l'anziana e la bambina non comprendevano l'alchimia, ma entrambe compresero quanto terribile -più di qualsiasi mostro- poteva essere. L'avevano capito dopo quella notte insonne passata a salvare Ed e lo capirono meglio quando Al si tolse la testa dell'armatura.
Era completamente vuoto.
Le due sbiancarono e Winry pianse ancora, ma si avvicinò ad
Al, gli accarezzò il braccio di ferro nella speranza capisse che
lei ci sarebbe stata, che sarebbe stata per sempre loro amica, che non
importava il loro crimine, lei e sua nonna erano lì per loro.
Al non poté sentire quella carezza ma capì le
intenzioni e mormorò un grazie. Quella notte ne avrebbe dovuti
dire fin troppi.
"Ed ha legato la mia anima col suo sangue a quest'armatura" e indicò il sigillo rosso ben visibile sul collo di ferro "...per farlo ha perso il braccio oltre alla gamba".
Dopo quelle parole non disse più nulla, Pinako si portò una mano davanti agli occhi e non volle più ascoltare, preferì allontanarsi.
Winry invece capì che Al avrebbe voluto piangere, per questo si sedette al suo fianco e versò quelle lacrime che lui non avrebbe potuto versare. Al fu ancora grato alla sua amica, ma stavolta non diede voce alla sua gratitudine.
Quando la pioggia cessò fuori e il sole decise di illuminare la campagna di Resembool, Winry non aveva più lacrime e Al riuscì a parlare di nuovo.
"Winry, per favore, puoi andare da Ed?".
Avrebbe voluto andare lui a controllare come stava il fratello, ma il senso di colpa pesava troppo sulla sua coscienza. Ed aveva rischiato la vita per salvarlo.
La bambina annuì all'amico e corse nella stanza da letto dove Ed dormiva con espressione ancora sofferente. Prese una pezzetta e la inumidì nell'acqua fresca di una bacinella sistemata lì, sul comodino, sperando che potesse dargli un po' di sollievo.
Edward aprì gli occhi, mise a fuoco la sua figura per un attimo. Strinse i lembi del lenzuolo, stando fermo nella parte del letto che occupava, gorgogliò come se stesse per strozzarsi.
"Winry…", la chiamò.
Lei, sorpresa, lasciò andare la pezza, che ricadde sulla sua fronte ma la riafferrò in tutta fretta.
"Ed! Come stai?".
Non rispose, quella reazione era durata solo qualche secondo.
Le mani del bambino rilasciarono la stoffa, che si adagiò sul materasso, e i suoi occhi parvero non vederla più.
Edward protese le braccia del suo pensiero per recuperare l’immagine della sua amica d’infanzia, senza riuscirci, ed il mondo divenne appannato.
Gli parve di essersi raggomitolato su sé stesso, in uno spazio nero sferzato da fulmini.
Ma rimase immobile, disteso su quel letto o su una sedia a rotelle, per molti mesi a venire.
*
"Tenente Colonnello, signore, potrei sapere perché siamo venuti fino a qui? In questa Resembool sembra non esserci niente".
Resembool era un piccolo villaggio situato a Sud-Est del continente di Amestris, poche anime, poche grandi case, campi di grano, parecchi fattori, tanti ovini, bovini -le narici dei due non avrebbero dimenticato presto il tanfo delle mucche- e verde a perdita d'occhio.
Era il villaggio ideale per un pittore in cerca di un paesaggio, per un pastore con un gregge da sfamare, ma non per due militari che dovevano essere alla ricerca di talenti dell'alchimia di ritorno dalle cittadine del sud-est.
"Sottotenente Hawkeye non deve preoccuparsi, non ho perso il senno", ma le sue parole non rassicurarono la donna, avevano dovuto chiedere un passaggio a una carovana trasportata da un bove poiché non era possibile addentrarsi nel villaggio con un autoveicolo.
Quale alchimista poteva vivere in un posto del genere?
"La famiglia Rockbell, a cui stiamo andando a far visita, dovrebbe conoscere un alchimista davvero eccezionale."
L'uomo di mezza età che era alla guida del carro si intromise nel discorso, sapeva di chi stava parlando quel militare.
"Siete qui per gli Elric, signore? Sarebbe davvero bello che voi dell'esercito possiate fare qualcosa per loro, dopo tutte quelle tragedie...", l'uomo la sapeva lunga dal modo in cui parlava, e incuriosì inevitabilmente il giovane militare.
"Tragedie? Di cosa parla?".
"Credevo sapesse signore, quei ragazzi... poveri disgraziati! Sono
rimasti soli al mondo. Prima il padre che li abbandona, poi la madre
che si ammala e muore e poi... un tragico incidente. Sono passati mesi
e ancora sono dalle Rockbell, non parlano più, sono ancora sotto
choc. Poveri, poveri ragazzi. Erano due piccoli geni, loro praticano
l'alchimia di cui discutevate, mi hanno riparato una sedia e una radio
una volta".
Il contadino parlava come se loro sapessero in parte, ma in
realtà conoscevano poco e niente di questi Elric, se non che uno
di loro era un alchimista di talento. Il Tenente Colonnello non
conosceva né l'età, né altro, ma dal racconto del
contadino la storia iniziava a puzzargli.
"Aiutateli. Meritano una seconda possibilità dalla vita" concluse l'uomo quando il carretto si fermò a pochi metri di una grande casa in legno giallino che spiccava nella vallata, il contadino indicò esser casa Rockbell.
Deglutì l'uomo e ciò non sfuggì all'affascinante collaboratrice dal cipiglio serio, "Tutto bene signore?".
"Non si preoccupi Sottotenente. Solo... uno strano presentimento".
Quando furono davanti alla porta della casa un brivido salì lungo la schiena di entrambi i militari: tutto era troppo silenzioso, finché l'uomo non bussò deciso contro la porta catturando l'attenzione del cane di famiglia che aveva una curiosa protesi di metallo alla zampa sinistra anteriore, un automail.
"E' l'esercito, aprite!".
Sentirono rumore di ferro che batteva su altro ferro tutt’ad un tratto, poi il trascinarsi delle gambe di una sedia, il calpestio di piedi sul pavimento. Il silenzio rendeva loro riconoscibili tutti questi rumori, rendendoli guardinghi. Poi la porta si aprì, rivelando una vecchietta. Era così piccola da arrivare a malapena al livello delle loro ginocchia, con capelli grigi legati in una coda quasi verticale, la faccia tonda, gli occhietti nascosti dietro un paio di occhiali con le lenti sferiche. Portò la lunga e sottile pipa che aveva in mano alla bocca, inalando una boccata di fumo, fissandoli.
"Che cosa volete?".
Il fascino del Tenente Colonnello non sarebbe servito a nulla. Era
un giovane uomo, non molto alto o muscoloso, ma dal fisico sicuramente
allenato, dai bei lineamenti, gli occhi dalla forma allungata, neri,
come onice, dello stesso colore i capelli che gli ricadevano vagamente
ordinati sulla fronte.
Tutte le donne sembravano amarlo, giovani o anziane, rimanevano abbindolate dal suo fascino, non solo fisico.
Tutte forse ma... non quella donna.
"Sono il Tenente Colonnello Roy Mustang, signora, e lei è la mia collaboratrice, il Sottotenente Riza Hawkeye."
Suddetta collaboratrice era poco più bassa dell'altro, dai capelli dal taglio maschile, biondi e gli occhi castani, poco espressivi ma vigili, incorniciati in un volto fin troppo serio. Accennò un saluto per poi lasciare che Mustang continuasse.
"Siamo qui perché sappiamo che lei conosce un alchimista molto in gamba. L'Esercito di Amestris sarebbe onorato di averlo con se".
"Non so di che cosa sta parlando" disse soltanto, con voce secca, richiudendo la porta con un tonfo subito dopo, senza aggiungere altro.
In un'altra circostanza Roy Mustang avrebbe preso la porta a spallate o per lo meno mormorato un 'dannata vecchia', invece la sua espressione si fece più scura.
"Cerchiamo la casa degli Elric. E' successo qualcosa".
Camminarono alla cieca, non sapendo come orientarsi in aperta
campagna, scelsero quindi la soluzione più semplice, tornare
indietro, dalla viuzza creata nella terra che avevano percorso prima,
sperando che si vedesse qualche casa nel vicinato che potesse essere la
dimora degli Elric. Ebbero la fortuna di incontrare un contadino troppo
curioso della loro presenza che gli indicò quale fosse la casa
che cercavano, sulla collina più alta di Resembool, a soli
duecento metri dai Rockbell; si doveva camminare fuori dalla strada,
tra distese di erba che toccava le ginocchia, era una casa graziosa, a
due piani, semplice, bianca, situata sotto una quercia secolare.
L'aspetto della casa era innocuo e all'interno tutto nel soggiorno
tutto sembrava ordinato, coperto di polvere ma in perfetto ordine, come
se il tempo si fosse fermato; nella cucina vi erano ancora dei piatti
ormai incrostati nello sporco e delle formiche che camminavano in fila
indiana sul davanzale della finestra risalendo per il muro, fino ad
arrivare nella dispensa. Per controllare Hawkeye aprì gli
sportelli ma vi trovò solo un recipiente aperto di biscotti.
Pistola alla mano entrambi procederono a dare un'occhiata all'interno delle camere, vi erano lenzuola disordinate ma nulla di così fuori dall'ordinario.
Mustang annusò l'aria nei pressi delle scale che conducevano a un piano sotterraneo e a uno superiore, una smorfia di schifo deformò il suo volto, forse il suo naso li avrebbe condotti a ciò che cercavano.
"L'odore proviene dal piano inferiore, signore" indicò la validissima Sottotenente che senza indugio
andò per prima. Al piano inferiore vi era un piccolo corridoio
che finiva con una porticina che portava a quella che probabilmente era
la cantina.
Lì l'odore era più forte.
"Occhio Sottotenente, stia dietro di me", fece premuroso l'uomo sorpassandola e aprendo con uno calcio la porta.
Un conato di vomitò li investì e con orrore si trovarono a guardare un cerchio alchemico disegnato col gesso e al suo interno una pozza di sangue secco che si era ben impregnato non solo alle assi in legno per terra, ma anche alle pareti.
Hawkeye fece per dire qualcosa, non capiva, ma Mustang -a giudicare
dall'orrore in cui osservava quel cerchio- sapeva cosa era successo e a
nulla servirono le parole della donna una volta che l'uomo uscì
in malo modo dalla casa.
La donna lo vide marciare a passo svelto in direzione dei Rockbell,
gli corse dietro mentre gli implorava di mantenere la calma, ma Roy
Mustang non l'ascoltò e dimenticò qualsiasi buona maniera
una volta che fu ancora davanti alla casa della vecchia; il cane
spaventato abbaiò cercando di sembrare minaccioso ma
bastò un'occhiata di Hawkeye per farlo smettere.
Questa volta non bussò, sapeva che nessuno gli avrebbe aperto, quindi con due spallate fu nella casa.
In reazione la piccola Winry si nascose dietro la nonna, spaventata
dall'ingresso di quell'uomo in abiti militari che, irrazionalmente,
odiò.
Lei odiava l'esercito, era colpa loro se lei non aveva
più una madre e un padre.
"Dove sono i fratelli Elric! Non cerchi di nasconderli!".
Urlò contro la padrona di casa che guardò con astio l'uomo e i suoi gradi militari.
"Non sto nascondendo proprio nessuno! Cosa le da il diritto d’irrompere in casa mia in questo modo?! Se ne vada!".
Winry si rifugiò meglio dietro le spalle della nonna, come se potesse difenderla con la sua minuscola statura.
Quell’uomo le pareva enorme, pensò che le avrebbe
schiacciate con un solo passo, portandosi poi via Ed e Al per sempre,
di modo che non li avrebbero rivisti mai più.
Pinako, inconsciamente, si stagliò di fronte ad una porta, indietreggiando, come se volesse costituire un baluardo per la difesa di qualcosa. Mustang non era stupido però, intuì quello che stava facendo la donna ma invece di aprire con forza bruta, dopo aver fatto un profondo respiro per calmare i nervi, invitò gentilmente l'anziana a collaborare.
"Per favore, apra quella porta. Glielo chiedo gentilmente signora".
Pinako non cambio espressione, fece scorrere solo qualche secondo prima di sospirare e fare un passo di lato, posizionandosi accanto alla porta. Lo guardava con occhi sottili, insinuanti.
Hawkeye avanzò, pensando di agire per conto del suo
superiore, ma mosso il primo passo il braccio teso di Mustang la
invitava tacitamente a rimanere dov'era, era compito suo dopotutto
accertarsi di cosa era successo ai due alchimisti che avevano tentato
di fare una trasmutazione umana, il più grande tabù
dell'Alchimia.
Aveva riconosciuto il cerchio tracciato col gesso a terra, il tempo
l'aveva vagamente sbiadito ma era inconfondibile e... quel sangue...
non osava immaginare quali erano state le conseguenze, aveva quasi
timore di scoprirlo, ma non poteva ignorare.
Procedé verso la porta e la aprì, con estrema
lentezza, come in quei racconti in cui i bambini aprono lentamente la
porta di una stanza buia perché sanno che essa racchiude
qualcosa di spaventoso.
E Mustang si spaventò davvero quando fu svelato ciò
che la camera nascondeva.
Un bambino piccolissimo su una sedia a
rotelle che non aveva il braccio destro e la gamba sinistra, guardava
il vuoto con i suoi occhi color miele, stanchi e impauriti, vicino a
lui un armatura portò la mano sul ginocchio del bambino,
mormorando un metallico quanto flebile: "Non preoccuparti fratellone";
era indubbiamente anche quella la voce di un bambino.
Non aveva idea che i due fratelli Elric fossero dei bambini, non
poteva concepire l'idea che dei mocciosi potessero praticare l'alchimia
in quel modo e... effettuare una trasmutazione umana che neanche il
più impavido ed esperto alchimista avrebbe mai tentato.
Non
osava immaginare quanto profonda poteva essere la disperazione che li
aveva spinti a tanto.
Avanzò lento, Hawkeye avrebbe detto intimorito, e nello stesso momento Alphonse si alzò e accennò un passo che non concluse. Il militare diede un leggero colpo al busto dell'armatura e impallidì.
"Sei... vuoto...".
La testa dell'armatura annuì.
"Ci dispiace, non volevamo... ci dispiace", mormorò più per se stesso che per il suo interlocutore.
Il bambino sulla sedia a rotelle continuava a guardare il nulla davanti a se.
Quei due ragazzini erano spacciati, avevano distrutto la loro vita e ora non erano che qualcosa di simile a dei cadaveri che si reggevano malapena in piedi. Quel pensiero tanto orribile lo infiammò, non riuscì a trattenere la rabbia e afferrò per il collo della maglietta del bambino mutilato.
"SONO STATO A CASA VOSTRA! COSA DIAMINE AVETE FATTO? LA TRASMUTAZIONE UMANA E'... " le parole gli morirono in gola quando sentì afferrarsi una gamba: era la bambina, lo guardava timorosa, come fosse un mostro, con gli occhi lucidi, ma per i suoi più cari amici poteva tirare fuori quel coraggio che non credeva d'avere.
"Lo lasci stare! Loro... volevano solo la loro mamma! Anch'io
l'avrei fatto... per la mia mamma e il mio papà..." e la prima
lacrima scese, una lacrima che fece tremare il braccio dell'uomo che
tornò a guardare il bambino. Quest’ultimo si era lasciato
sollevare come un sacco vuoto, dal peso inesistente. Il suo volto era
tutto occhi e nessuna espressione, tutto pelle bianca distesa
casualmente sui muscoli che non usava, presumeva, da mesi.
Per un attimo ebbe l’impressione che lo stesse fissando, ma
subito recuperò la consapevolezza di sostenere il peso di un
pupazzo, di un oggetto senza vita e senza cognizione del tempo o dello
spazio. Era del tutto autistico, perciò era totalmente inutile
continuare ad insistere con lui. Lo si poteva sgridare, lo si poteva scuotere, lo si poteva chiamare
tra le lacrime come aveva probabilmente fatto la sua amichetta, ma non era ciò che il ragazzino avrebbe voluto
sentire a costo di ritornare in se stesso.
Quando fu fatto ricadere sul suo giaciglio la stoffa fluttuò
attorno ai monconi fasciati di bende, in modo orribile. Sembrava
tuttavia che fosse stata amputata tutta la sua esistenza; si
adagiò in una posizione casuale, cadendo con la testa
all’indietro, ciondolando.
E poi... un'idea s'insinuò tra i pensieri del Tenente
Colonnello. Gli sembrò una follia, se era arrivato a Resembool
era per tutt'altre ragioni, mosso da ben altri intenti ma... quei
bambini non meritavano di essere abbandonati, non ancora una volta; se
erano ridotti così era per colpa di importanti abbandoni.
Non li
conosceva, non si sarebbe dovuto interessare tanto, poteva
semplicemente ignorare la loro esistenza, il loro peccato e far finta
di nulla, tornare ai suoi doveri, a questioni ben più
importanti, concentrarsi sulla sua carriera e ignorare il resto ma...
Roy Mustang non era quel genere di uomo e anche lui a suo modo era uno
stolto e -anche se nessuno l'avrebbe mai detto- il suo animo era
particolarmente sensibile. Riza Hawkeye lo sapeva bene, le bastò uno sguardo sul volto
del superiore per capire quale sarebbe stata la sua prossima mossa.
Roy Mustang guardò Edward Elric nella sua misera condizione e decise di dar voce alla sua follia: "Questi... questi bambini... potrebbero riavere i loro corpi".
La vecchia donna lo guardò dall’entrata della stanza, con le braccia dietro la schiena, Hawkeye rimase rigidamente al suo posto, nella stessa posizione, senza intervenire né scomporsi. Almeno lei aveva bene in mente la loro missione, e dal momento in cui gli avvenimenti erano precipitati a quel modo aveva saputo che non avrebbero seguito le regole -non quelle ufficiali, perlomeno-, bensì la legge di Roy Mustang. Annuì dentro di lei, accettando, come sempre.
"Signora, lasci che le parli dei privilegi che avrebbero diventando Alchimisti di Stato".
Winry si accostò a Ed, vedendo l'uomo uscire dalla stanza per avvicinarsi alla nonna, decise di spingere con tutte le sue forze la sedia a rotelle, l'aria fresca che entrava dalle finestre del salotto gli avrebbe fatto bene, stare alla luce gli avrebbe fatto bene.
Al dalle orbite vuote dell'armatura guardava scettico il militare, perciò fece per risedersi nel suo angolino, ma poi lo sguardo distrattamente andò a Winry. Era così piccola e non aveva le energie che lui in quell'armatura poteva avere, eppure stava cercando con tutte le sue forze di spingere la sedia a rotelle di Ed, voleva farlo entrare in quella conversazione tra adulti.
"Al, invece di stare lì, aiutami!".
Il rimprovero dalla graziosa vocina arrivò quando ormai la
bambina si rese conto che poteva spostare quella sedia solo di qualche
centimetro.
Al si sentì davvero sciocco, sentì la sua
anima pesante, in colpa, una colpa diversa però da quella del
grande fardello di aver peccato; era una colpa più leggera ma
fastidiosa: le Rockbell si stavano impegnando e sacrificando tanto,
mentre loro non facevano che star chiusi nel silenzio a scontare la
loro colpa con le loro coscienze, volutamente estraniati dal mondo,
dalla vita che -chi era intorno a loro- voleva ridargli.
Se avesse potuto commuoversi lo avrebbe fatto, ma quel sentimento
rimase inespresso nel gelido spazio di ferro a cui era legato dal
sangue, da un sacrificio.
"Eccomi".
Spinse fuori da quella camera suo fratello, seguendo i tre adulti raccolti in piedi intorno al tavolino in legno, tondo, su cui un modesto vaso ospitava delle violette. Doveva averle raccolte Winry, a lei piacevano molto quei fiori, forse coglierne alcuni poteva essere un buon modo per ringraziarla.
"Diventando Alchimisti di Stato avranno accesso a documenti e testi
che nessun civile potrebbe mai consultare, inoltre avrebbero una serie
di privilegi sociali, quali vitto e alloggio offerto direttamente
dall'esercito, assistenza sanitaria, possibilità di viaggiare a
carico dell'esercito, liberamente..."
Come il miglior venditore porta a porta si stava esprimendo Mustang,
doveva risultare più convincente possibile, doveva... catturare
l'attenzione di quei bambini.
Quando li vide avvicinarsi a loro capì che la sua offerta era
sembrata abbastanza succulenta. Lo sperava davvero. Ma la vecchia
signora, esattamente come si era aspettato da lei fin
dal primo momento, non si lasciò abbindolare dalle sue parole.
"Ho sepolto io il risultato di quella trasmutazione umana di cui parla. Lei non ha visto cosa hanno creato! Qualcosa di… non umano… un mostro… l’alchimia può creare cose di quel genere? E lei vorrebbe trascinare quei ragazzi su una simile strada?!".
"E' vero, l'alchimia può creare cose mostruose se non vengono
seguite e rispettate le sue leggi. In alchimia vige la regola dello
scambio equivalente, per ottenere qualcosa si deve dare qualcos'altro
di egual valore, né più, né meno, deve essere
direttamente proporzionale. Questi ragazzi hanno violato un tabù
perché non disciplinati adeguatamente su questa scienza, ma
hanno un grande, grandissimo, potenziale. Potrebbero usare l'alchimia
per opere di bene, per aiutare e, studiando, migliorebbero ancora e il
loro talento unito allo studio può offrirgli concretamente la
possibilità di riavere i loro corpi indietro. Possono scegliere:
rimanere qui a compiangersi e ad abbandonarsi al peso del loro
errore..." non peccato, Roy Mustang considerava il loro gesto un
errore. Al pensò che gli adulti fin troppo spesso hanno il cuore
tenero con bambini come loro.
"...Oppure venire a Central City, sostenere l'esame per diventare
Alchimisti di Stato, esser utili all'esercito quando comandato e poter
accedere alla conoscenza che come civili non potrebbero accedere e
trovare la soluzione per una vita migliore".
Il volto di Winry si rabbuiò. Con passo silenzioso uscì dalla casa, sulla veranda, andando a sedersi su una panca sotto la quale il suo cane, Den, riposava.
Avrebbe dovuto esser felice, qualcuno gli stava offrendo un vero
aiuto ma... ciò avrebbe significato allontanarsi da loro; Ed e
Al sarebbero diventati militari, e lei odiava i militari ma voleva
sinceramente bene ai due fratelli.
Portò le gambe al petto e guardò davanti a lei la
silenziosa campagna di Resembool, il grano si piegava al tocco di una
leggera brezza. Cullata da quella visione chiuse gli occhi.
La porta di casa si aprì quando il sole era vicino al tramontare, la bambina si era addormentata persa nei suoi pensieri e per un momento, quando vide dietro i due militari Al con Ed, ebbe la brutta sensazione che li avrebbero seguiti, che sarebbero andati via, per questo scattò in piedi avvicinandosi agli indesiderati ospiti.
Il Tenente Colonnello Mustang incrociò lo sguardo della piccola Rockbell e lei rimase sorpresa nel vedere negli occhi di un uomo tanto alto e grosso -per i suoi standard- uno sguardo addolorato, amareggiato. Winry abbassò il suo cercando di non mostrargli il rancore che provava per le persone come lui, tuttavia quell'uomo era rimasto colpito dalla storia dei due fratelli e aveva dato loro una speranza, per questo tacque rimanendo con lo sguardo fisso sulle travi di legno.
"Grazie per il vostro tempo e per il tè. Pensate bene alla mia offerta".
Prima di raggiungere il Sottotenente che era di qualche passo avanti
ad aspettarlo si soffermò a guardare gli Elric, prima l'armatura
e poi il ragazzino sulla sedia a rotelle. Alla luce del giorno sembrava
ancor più pallido e le sue occhiaie più profonde, ma
nella sua espressione c'era qualcosa di interessante.
Le labbra dell'uomo si piegarono in quello che voleva essere un
sorriso d'arrivederci per i due fratelli, tuttavia il suo sguardo era
fisso solo su Edward Elric.
"...vi aspetto a Central City".
Si voltò e raggiunse Hawkeye, camminando con passo più svelto rispetto alla donna che fece un cenno di saluto verso la casa che non fu ricambiato.
Era stato un pomeriggio davvero triste quello, un' emozione che lasciò al silenzio e al vento della campagna prima di rivolgersi al suo superiore.
"Che triste storia. Quel ragazzo soprattutto, Edward. Non credo abbia nessuna possibilità di riprendersi".
"Verranno."
Sul volto dell'uomo c’era un sorriso ottimista.
"Io ho visto in lui occhi che bruciavano come fuoco".
*
Edward Elric aveva sentito tutto, aveva sentito l’ultima frase
di quell’uomo: 'Vi aspetto a Central City'.
Quella frase, in particolar modo, aveva fatto fremere i suoi
muscoli. I suoi occhi si erano irritati, dolendogli per il lungo tempo
in cui non li aveva coperti con le palpebre.
C’era un sapore di
sfida, in quel parole, o almeno così a lui era parso.
Ricordò cosa significasse essere guardati con pietà e
mosse la bocca, spinto da un potente desiderio di recuperare tutto, di
riprendersi tutto. Ma, come prima cosa, doveva chiedere aiuto.
"Voglio che m’istalli degli automail".
Era la scelta più ovvia, un primo dolore di purificazione che gli avrebbe ricordato cosa aveva da fare in quella vita, un frammento di redenzione. Ma anche il primo mezzo che gli avrebbe permesso di camminare avanti e di trovarsi lì, dove quel presuntuoso militare lo aveva sfidato ad andare.
La sua voce prese di sorpresa la zia Pinako, che nascose a malapena lo stupore dietro un filo di fumo della sua pipa. Lo soffiò via in fretta.
"Ne sei sicuro? È un operazione estremamente dolorosa. Neanche uomini grandi e grossi talvolta riescono a sopportarla senza urlare come dannati".
"Non m’importa", rispose.
"Patirai le pene dell’inferno".
"Sarà comunque niente in confronto al dolore che ha patito Alphonse".
Pinako annuì, senza tentare più di farlo desistere, dileguandosi.
Edward ripensò alle parole della zia, una volta rimasto solo,
ed ebbe paura. Tuttavia schiacciò la paura in fondo, ai limiti
dei suoi sensi, con uno sforzo che lo fece tremare fino alla punta dei
piedi.
Il suo cervello fu vuoto, pronto a riempirsi di quel proposito, in una
calma estatica e fremente di terrore e determinazione insieme.
*
Edward passò le dita sul metallo, aspettandosi una sensazione che non arrivò.
Aveva ancora un vago timore del suo braccio, che non sentiva niente
e non provava niente. Qualche volta aveva pensato che non sarebbe stato
male se, quell’insensibilità inumana, si fosse estesa in
tutto il suo corpo.
Il dolore che aveva provato durante
l‘operazione, però, era stato decisamente umano.
Fissò la casa della loro infanzia, pensando che distaccarsene gli avrebbe portato il medesimo dolore, la medesima sensazione, come di uno strappo di stoffa che veniva ricucita in qualcos’altro che non conosceva.
Non tremò, non pianse, si racchiuse in una rigidità sofferente.
In piedi di fronte al suo passato abbassò la testa e strinse i pugni, perché aveva perso tutto e non aveva ottenuto niente, e c’era una cosa che doveva fare prima strappare la sua vita e ricucirla di nuovo in qualcos’altro.
Alphonse avanzò di un
passo verso la loro casa, cercò di fissare nella mente
quell'immagine. Era davvero l'ultima volta che l'avrebbe vista, non
avrebbero più trovato niente risalita la collina.
Se ancora nel petto avesse avuto un cuore era certo sarebbe
collassato dal dolore, invece non poteva far altro che accumulare quel
dolore dentro di se, in modo frustrante. Un giorno sarebbe
probabilmente esploso in rabbia cieca e distruttiva, il non poter
esprimere alcuna emozione con il proprio corpo stava diventando la
peggior tortura, più del non riuscire a dormire, più del
non poter mangiare.
Avvicinò la torcia alla parete della porta di casa, incerto.
Non doveva esitare però, quel gesto era per non pentirsi della
loro decisione, per non tornare più indietro, per poter
raggiungere il loro obbiettivo. In fondo una casa tolta dei suoi
ricordi, tolta delle persone che la abitavano, rimaneva solo un
edificio vuoto e insignificante, ma loro erano ancora bambini e in
quanto tali in loro vigeva un acuto materialismo a causa dei ricordi
che ogni oggetto poteva rievocare. Avevano salvato alcune foto, alcuni
libri, alcuni oggetti, nulla di reale valore ma che per loro era stato
importante, tutto il resto l'avevano abbandonato lì.
Non serviva, non era utile.
Al si voltò e diede un occhiata a suo fratello, aspettando un cenno d'assenso. Il suo cuore probabilmente non vacillava.
Edward annuì, rialzando la testa, osservando la scintilla del fuoco che avrebbe dovuto consumare per sempre il loro passato.
Non c’era più esitazione, osservò la sua casa
diventare rossa di fiamme, illuminando la notte, ne sentì il
calore sulla pelle.Per un momento gli parve che anche il metallo lo percepisse, si
lamentasse stridendo e sferragliando contro di lui.
Il peso sulle sue
spalle oscillò, divenne ferro.
Alphonse era accanto a lui, reciso come lui da tutto ciò che
era stato, lacerato.
Gli si strinse la gola, deglutì, pronto ad
intraprendere il suo viaggio insieme alla sua colpa e all’ultimo
frammento della sua famiglia.
"Al, andiamo".
L’ultimo sguardo che gettò sulla sua casa, prima di voltarsi, aveva bruciato e consumato anche i suoi occhi. Quelli che puntò sulla strada erano occhi nuovi, che non aveva mai avuto, e che avrebbero visto cose che ancora stentava ad immaginare.
una nuova strada si stagliava davanti a loro,
in direzione di un solo obbiettivo:
riprendersi ciò che avevano perduto ottenendo l'assoluzione dal loro peccato.
Ed
ecco qui il primo capitolo de Le Cronache di Amestris che segna il
destino dei due Elric, segnando sulle loro anime quello che è un
peccato incancellabile, proprio come il titolo del capitolo, Unerasable
Sin, che -per chi non lo avesse colto- è anche la traduzione
inglese della prima ending dell'anime 2003, Kasenai Tsumi di Nana
Kitade. Ogni capitolo, abbiamo deciso, prenderà il
titolo dalle canzoni degli anime o di quelle che comunque si
trovano nei CD della Colonna Sonora di FMA; prenderemo i titoli o parti di
testo da esse inserendoli in inglese, sia per una maggiore
comprensione, sia perché l'inglese è la lingua ufficiale
di Amestris.
Detto questo non abbiamo molto da aggiungere, questo capitolo è
fortemente ispirato al manga, noi abbiamo cercato di scavare nella
tragedia e di entrare in empatia con il dolore degli Elric
cercando di esprimerlo al meglio tramite la scrittura. Speriamo di
esserci riuscite, di avervi trasmesso delle emozioni e non
avervi annoiato ( visto che la storia la conoscete ), personalmente ne
siamo soddisfatte ma vogliamo un vostro parere, positivo o negativo che
sia e ci auguriamo che vogliate intraprendere con noi questo lungo
viaggio.