Pongo
come
presupposto a questa FanFic che: 1) niente di tutto ciò
è mai successo, se non
fosse chiaro; 2) no sul serio, assolutamente NIENTE di ciò
che state per
leggere è mai accaduto!; 3) NOTHING! GAR NICHTS! NANI MO NAI
(<--- è
Giapponese, la lingua secondo me più bella al mondo dopo
l’italiano)! NADA!
Inoltre,
aggiungo
che racconterò questa storia da 2 punti di vista differenti,
per farvi capire
al meglio il contesto. Innanzitutto, il nostro protagonista, Gerard...
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20 Febbraio 1994
“Fortunatamente, anche oggi il caro signor Way ci ha degnato della sua presenza!” sbottò la professoressa di scienze, la signorina Hopkins.
Merda, ero di nuovo in ritardo.
Non potevo permettermi un altro richiamo, sarebbe stato il quinto, avrebbero avvisato i miei e io avrei dovuto spiegare il motivo di tutti quei ritardi nelle ultime settimane. Ma non mi avrebbero capito, mi avrebbero mandato di nuovo dallo psicoanalista, avrebbero riniziato a vergognarsi di me, avrebbero riniziato a definire il mio cervello con una parola che io odiavo: speciale. Solo perchè, anzichè farmi degli amici, trovarmi una ragazza, studiare e tutte queste stronzate, io disegnavo. Disegnavo il mondo come volevo che fosse, lo plasmavo a mio piacimento sul quel foglio bianco come la neve, che con il suo candore mi invitava a sfogarmi e a disegnare via tutti i miei problemi, le mie domande, le mie frustrazioni... Ma, apparentemente, questo non era normale: secondo i dottori mi stavo chiudendo sempre più in me stesso, e, nonostante a me questo andasse bene, i miei erano preoccupati, loro volevano che io fossi un ragazzo normale, ovvero che fa ciò che la Società si aspetta da lui.
Farfugliai un “Mi scusi” e andai a sedermi al mio banco, prima fila a sinistra, vicino alla finestra, il posto in cui i miei compagni di classe mi avevano confinato, in quanto io ero quello schizzato.
Teste di cazzo. Lo capiranno presto che un mondo tutto proprio è mille volte meglio che un mondo da condividere con miliardi di persone, persone di merda, ipocriti e bugiardi, ma lo capiranno troppo tardi, perchè la Società ha già fatto breccia nella loro volontà, ormai pensano da bravi cittadini...
La professoressa iniziò a blaterare qualcosa a proposito di un progetto a coppie sui disordini alimentari: “Visti i recenti casi di bulimia riscontrati in questa scuola, voglio che, insieme a un compagno, svolgiate una ricerca a proposito dell’anoressia e della bulimia. Il gruppo che esporrà meglio il suo lavoro otterrà una nota positiva sul registro e un esonero dai compiti a casa per una settimana.”
Dalle mie spalle sentii provenire un respiro di sollievo e dei risolini. Sylvia e Liz. Non riuscivano a tenere chiuso il becco per più di un paio di secondi. “Hey... Ehm... Gerard?” mi chiamò Sylvia, trattendendo una risata. Io le risposi senza voltarmi: “Che cazzo vuoi?”. Lei ribattè: “Potresti anche evitare di rispondermi in modo così sgarbato...”. Si era indispettita, lo sentii dal cambio del tono di voce. Mi voltai e la guardai: lei spalancò gli occhi, non si aspettava mi girassi, non lo facevo mai. “Che cosa c’è Evans?” le domandai, nel tono più falsamente cordiale che mi riuscì. Le si illuminarono gli occhi e le si stampò un sorrisetto da stronza sul volto.
“Mi stavo solo chiedendo se ti andava di fare il progetto insieme a me... Insomma, siamo compagni di classe da, tipo, una vita e mi sono accorta che ci siamo parlati seriamente solo un paio di volte...”. Notai che Liv stava cercando di trattenersi dal ridermi in faccia sguaiatamente. Alzai un sopracciglio e risposi, svogliato: “Se proprio ci tieni, Evans...”. Sylvia ridacchiò e mi toccò il braccio: “Andiamo Gee – posso chiamarti Gee, vero? – puoi anche iniziare a chiamarmi Sylvia!”. Io la guardai disgustato: aveva fatto due delle cose che odio di più al mondo, mi aveva toccato e mi aveva chiamato Gee. Mi ritrassi, mugugnai un “Okay” poco convincente e mi girai di nuovo.
La Hopkins mi stava fissando, ma non disse niente, sapeva che sarebbe stato inutile richiamarmi, lo sapevano tutti ormai. Dopo questo picco di emozioni iniziale, la lezione continuò monotona, perciò mi persi velocemente nei miei pensieri e iniziai a disegnare.
Man mano, sul foglio prense forma l’immagine di una ragazza, dai lunghi capelli neri e leggermente mossi, il viso un po’ allungato, dagli zigomi abbastanza pronunciati, la bocca sottile inarcata in un sorriso, il naso un po’ schiacciato e gli occhi dello stesso colore delle nuvole temporalesche, un grigio spaventoso e allo stesso tempo rassicurante, misterioso e conosciuto.
Mi bloccai al suono della campanella che indicava la fine delle lezioni, allontanai lo sguardo dal foglio e innorridii: sul foglio c’era un ritratto incredibilmente fedele di Sylvia. Lo accartocciai senza pensarci due volte, mi alzai per buttarlo ma, arrivato davanti al cestino, esitai: quel ritratto era venuto piuttosto bene, avrei potuto tenerlo, solo per compiacermi di me stesso e del lavoro svolto.
Infilai il foglio ancora accartocciato nello zaino e mi diressi verso l’uscita, sollevato dalla fine di un altro giorno in quell’inferno di cloni dell’uomo e della donna ideale della Società. Il parcheggio era già semi-vuoto, rimanevano solo i gruppetti dei ragazzini del primo anno che aspettavano i genitori. Io li guardai e, con fare superiore, estrassi dalla tasca laterale dei miei jeans strappati e scoloriti le chiavi della mia macchina. Non che il mio mezzo fosse un gran che, era solo una Pontiac Trans Am* dell’82, ma almeno io non dipendevo dai miei, e ciò mi rendeva orgoglioso di me. Un gruppetto di ragazzine mi fissava in adorazione, incantate sia dall’auto che dal guidatore, a quanto pare. Io avevo sempre saputo di possedere un magnetismo unico, ero capace di attirare una donna a me anche solo con uno sguardo, lanciato dai miei occhi verdi apparentemente irresistibili. Avevo anche sfruttato questo mio dono da parte della natura un paio di volte, negli ultimi due anni, procurandomi le mie prime 3 ragazze. Ma avevo presto capito che non faceva per me: avere una ragazza portava troppi doveri, e comunque, da solo stavo meglio.
Spalancai la portiera della macchina, feci per sedermi, quando vidi entrare nel parcheggio della scuola l’ultima macchina che avrei voluto vedere in quel momento.
Era inconfindibile: quel color grigio-argento,
l’ammaccatura
sul paraurti anteriore, i giganteschi dadi pelosi rosa e neri appesi
allo
specchietto retrovisore... La macchina dei miei.
Merda.
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Bene
bene... A
quanto pare ho ceduto alla tentazione e ho scritto la mia (prima)
FanFic sui
MCR, o meglio, su una versione sociopatica e quasi autistica di Gerard.
All’inizio,
ero partita con l’idea di fare un altro Gee secchione, senza
amici e patito di
disegno, invece ho fatto un Gee bullo, incredibilmente attraente (sul
serio,
voglio sapere se c’è un loro fan che non ha
pensato male di me nella mia
bellissima descrizione di questo bellissimo Gerard!!) e, come ho
scritto qui
sopra, sociopatico. Devo dire che a un certo punto mi sono detta
“Ma cosa sto
scrivendo?!”, però sono andata avanti per la mia
strada, ovvero la strada che
la Società non vuole che noi prendiamo (scrivo
società maiuscolo perchè qui non
intendo la società come insieme di persone, ma come corrente
di pensiero,
quasi)...
Suppongo
avrete
notato il piccolo “*” dopo il nome della
macchina... Ebbene sì, so di essere
vergognosa visto che so anche questo, ammetto che è proprio
lei, l’unica, l’inimitabile...
macchina dei Killjoys!
Anyway,
il titolo
è un colpo di genio (ancora più vergognoso della
storia della macchina), lo
so... Il prossimo capitolo, che cercherò di pubblicare al
più presto, sarà
raccontato dal punto di vista di Sylvia, e tratterà della
stessa giornata...
Ricordatevi di recensire, voglio un parere esterno!!
xoxo,
F3LiCiA
<3
P.S.
Per chiarire il "bellissimo Gerard" di poco
fa, annuncio che per me tra Gee e Ray non c'è storia, vince
il mio Torosaurus!!
:3