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Autore: cherokee    26/08/2011    6 recensioni
Mi chiamo Nikita Cacciatore, e questa è sempre stata la mia rovina. Perchè, con un nome simile, uno si aspetterebbe come minimo una valchiria alta, bionda e bella come Michelle Unziker, quando io a stento arrivo al metro e sessanta, ho una criniera di dreadlocks rosso ravanello e il sex appeal di Marilyn in bikini. Marilyn Manson. Ci si aspetterebbe un qualche pedigree esotico quando io sono di Cautano, Benevento, da sette generazioni. Ci si aspetterebbe una superspia con un braggio al tugsteno e un bazooka nella borsetta, sempre pronta ad affrontare qualunque avversità, quando io sono riuscita in soli tre mesi a cacciarmi nel guaio in cui ora mi ritrovo invischiata. Anche se, devo ammetterlo, non ho fatto tutto da sola: una mano me l'hanno data anche la famiglia di sbroccati new age da cui mi sono trasferita, senza contare un malefico conte vampiro con tanto di villa arroccata sulla collina, due folli vecchietti innamorati ed un ospizio in piena rivoluzione proletaria. Più, ovviamente, la mia solita dose di provvidenziale sfortuna.
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Cominciavo a sentirmi stupida.
Per l'ennesima volta ripercorsi la strada, quel bel viale alberato dove il taxi mi aveva depositato almeno dieci minuti prima. Ogni tanto abbassavo lo sguardo sul foglietto stazzonato che tenevo tra le mani, dove mia madre aveva appuntato un indirizzo nella sua sottile grafia sghemba. Modena, e fin qui ci siamo; Via del Municipio, e ci siamo; n.42. Impossibile!
Di nuovo ricontrollai se un bizzarro errore di numerazione non avesse piazzato un altro 42 da qualche parte. Perché la casa che avevo trovato io, quella dopo il 41 e prima del 43, non poteva IN ALCUN MODO appartenere a Barbara.
Barbara, con i suoi tallieur color fango e i suoi imbarazzanti mocassini ortopedici.
Quella casa, con le pareti di uno sgargiante verde pisello e le tendine di conchiglie alle finestre.
Barbara, con le sue severe crocchie castane e le sue curatissime unghie smaltate.
Quella casa, con un giardino incolto in cui decine di Hippy ballavano scalzi attorno a un falò scoppiettante.
Barbara, con il suo cipiglio da professoressa e gli occhiali di corno.
Quella casa, da cui in quel momento stava uscendo una donnina minuta, con un vassoio tra le mani e un'incolta criniera di riccioli marroni.
La donnina mi fissò con due enormi occhi viola spiritati, interrompendo le mie elucubrazioni. Poi, prima che avessi il tempo di girare sui tacchi e andar via da lì quanto più velocemente la mia dignità mi avesse permesso, lasciò cadere il vassoio con un urletto e mi si avventò incontro in un turbinio di veli di tulle, sorrisi smaglianti e spargimenti di fiori sulle strisce pedonali. Quindi mi gettò al collo due braccini insospettabilmente muscolosi e mi avvolse in un abbraccio stritolante.
Anche così, sommersa da tanto nostalgico affetto, mi ci volle qualche istante per capire che quella che mi abbracciava non era una sbroccata new age in pieno delirio peace&loviano. O meglio, lo era, ma era anche Barbara, la mia serissima prozia trentasettenne, quella dei mocassini, della crocchia e degli occhiali di corno.
La scrutai sospettosa non appena si decise a rimettermi sul marciapiede. Effettivamente, a ben guardare, la faccia era quella: minuta, spigolosa, con il mento aguzzo e un bel naso aquilino. E anche i capelli, castani e folti, appena striati di bianco, nonostante prima non li avessi mai visti sciolti né tantomeno, com'erano adesso, intrecciati con piume e perline.
Aveva gli occhi più grandi, più viola e più trasognati, e sul viso un'espressione estatica. Mi girò attorno zompettando, sfiorandomi i capelli, le spalle, i vestiti mentre io la lasciavo fare, ancora troppo instupidita per reagire.
Ripensandoci oggi, col senno di poi, mi chiedo cosa sarebbe successo se avessi proceduto all'istante con internamento coatto e poi fossi corsa a rifugiarmi in Vatussia tra gli altissimi negri.
Ma allora ero giovane, con soli diciassette anni di esperienza sulle spalle, quindi mi lasciai palpare per benino prima di venire trascinata in quella caotica casa color baccello.
Superammo gli hippy danzanti, che non danzavano più ma avevano preso a genuflettersi attorno alle braci, in piena adorazione mistica, ed entrammo.
L'interno della casa sembrava un incrocio mal riuscito tra il fantabosco e l'antro di un'indovina, con incensiere fumanti in ogni angolo, maschere africane appese alle pareti, paraventi giapponesi rossi e oro, piante esotiche un po' ovunque e tappeti ricamati a coprire ogni centimetro di pavimento disponibile.
In fondo, nascosto dalle nubi di fumo profumato, un ragazzo stava stravaccato su un divanetto, semisepolto da cuscini decorati con specchietti e frange e perline. Fumava un narghilè con la pigrizia nervosa di un gatto, portandosi con lentezza il bocchino alle labbra e trattenendo il fumo nei polmoni.
- Helaku! - trillò Barbara facendosi strada nell'atipico disordine della stanza. - Helaku! Marco, alza il culo da lì e vieni, abbiamo ospiti!
Helaku, o Marco, o quale che fosse, si alzò con un movimento fluido, poggiò il narghilè su un tavolino e puntò su di noi due favolosi occhi neri, i più scuri che avessi mai visto.
In effetti, mi resi conto con un brivido, gli occhi erano la parte meno appariscente di lui. Sembrava uno appena uscito da "balla coi lupi", con lunghi capelli neri e lisci come seta e le fattezze aggraziate da nativo americano. Peccato per il felpone di scarface e i jeans sformati che rovinavano un pò l'effetto. Probabilmente avrei apprezzato di più il connubio gonnellino di pelle + copricapo di pelliccia. Ma, a ben pensarci, Helaku/Marco anche in tutù avrebbe fatto la sua porca figura.
- Ti avevo detto che sarebbe arrivata tua cugina! - chiocciava intanto Barbara, apparentemente refrattaria alla bellezza mozzafiato del suo figlioccio. Perchè, per quanto lei si ostinasse a chiamarmi "sua cugina", Barbara non aveva figli. Almeno su questo potevo mettere la mano sul fuoco.
Helaku/Marco ammiccò e quel che rimaneva delle mie interiora si liquefece con un gorgoglio estatico. - Credevo che sarebbe arrivata il ventotto. - ammise, con voce svagata quanto quella della matrignia, ma calda e densa come cioccolata.
- Ma è oggi il ventotto, tesoro mio. - cinguettò Barbara deliziata. Poi si portò una mano alla testa in un gesto comicamente teatrale. - Sarebbe il caso che io torni dai miei ospiti, ora. E l'infuso di cicoria e tarassaco è finito spiaccicato sul vialetto, insieme al servizio da tè di porcellana peruviana... sarà il caso che ne preparì dell'altro. - e si allontanò ondeggiando, incorniciata da volute di tulle spumeggiante e da spirali di fumo azzurrino.
Così rimanemmo soli, completamente soli, io e questo ragazzo bello come un dio di cui ancora non avevo capito nemmeno il nome. Per un pò restammo semplicemente fermi, immersi in un silenzio imbarazzante e denso come melassa, e mentre io stavo per mettermi a raschiare il muro con le unghie per la tensione lui, che sarà stato pure bello come un dio ma lo stesso non mi pareva troppo sveglio, se ne stava immobile e rilassato, masticandosi la lingua e tenendo lo sguardo rigorosamente fisso nel vuoto.
Impiegò qualche minuto per riprendersi dallo stordimento e per rendersi conto della situazione in cui si trovava. Quindi si girò verso di me e mi dedicò un sorriso smagliante, tutto denti candidi e fossette e deliziose guanciotte abbronzate.
- Quindi tu sei Nikita. - ipotizzò sagacemente.
- Oh... ehm... uh? - balbettai io, ancor più sagacemente, con la bocca improvvisamente secca. Tutt'un tratto ero a corto di parole. Come se non bastasse, avevo la sensazione che sarei scoppiata a piangere da un momento all'altro per la stranezza della situazione.
Da fuori giungevano soffocati ritmici canti arabeggianti.
Helaku/Marco dovette notare la mia espressione perché scoppiò in una risata gorgogliante, gettando la testa all'indietro e lasciando sussultare le spalle. - Pregano Buddha perché la loro anima e il loro corpo siano sempre coesi e in armonia. - spiegò, ammiccante, e quell'improvvisa e fugace complicità mi fulminò come una corrente elettrica.
- Oh... - mormorai, sentendomi mediocre e puerile. - E funziona?
- Mica tanto. - storse il naso in un'adorabile smorfia dubbiosa. - Credo che Barbara usi questi incontri per smaltire gli avanzi del Natale, dato che dà via cous-cous a badilate. Penso che tutto il resto sia solo una poetica cornice.
Annuii, guardandomi freneticamente intorno alla ricerca di un appiglio. - Barbara... - rantolai alla fine. - Non è tua madre, quindi? - Ma che schifosa bugiarda! Eppure lo sapevo benissimo che non erano imparentati! Il mio lato moralista era piuttosto indignato ma, essendo anche motlo piccolo, riuscii a sopprimerlo senza particolari problemi.
- Oh, no. - lui scosse gravemente la testa, candidamente ignaro dei miei patetici sotterfugi. - No, un paio d'anni fa Barbara conobbe mio padre e si innamorò follemente. Lui l'ha cambiata da così a così, sai... prima era una maestrina insopportabile, mentre adesso... bhè, è solo un pò strana.
- E tuo padre...? - chiesi, sorvolando su quell' "un pò strana".
- Oh, lui è partito. In viaggio sciamanico, dice. Più probabilmente mi ha mollato qui ed è scappato. - non c'era nessuna amarezza nella sua voce, anzi, sembrava piuttosto allegro.
- E tu non sei... - azzardai. - Ehm... non sei arrabbiato con lui? - ma che cavolo, ero lì da dieci minuiti e già mi toccava la seduta psicanalitica?
- Diavolo, no! Io credo che abbia fatto bene. Voglio dire... avere un figlio è una gran bella seccatura, e mio padre è... bhè, è fatto a modo suo. Non considera vita una vita sedentaria, capisci? Eppure ha sacrificato sedici anni per crescermi come si deve.
- E' indiano? Tuo padre, intendo.
- No, lui è italianissimo, ma mia nonna era una nativa americana. E' morta quando ero piccolo - aggiunse, e per la prima volta un velo di rimpiento gli offuscò lo sguardo. - E' stato un peccato, era una donna saggia. Comunque, mio padre non ha dimenticato le sue radici. E sono sicuro che prima o poi torerà, quando non sarò più un peso ma un compagno di viaggio.
Era uno strano modo di ragionare. Io, personalmente, un padre così l'avrei bollato come un monumentale stronzo e me ne sarei dimenticata, invece lui ne parlava come si parla di un eroe. Comunque. Dopotutto, erano tutto fuorché fatti miei.
La sua voce, quando qualche secondo dopo riprese a parlare, mi riscosse provvidenzialmente dalla contemplazione del suo lungo naso aquilino, delle sue labbra carnose, del suo collo sottile che spariva oltre il cappuccio della felpa... - Mentre tu, perché sei qui? Modena è uno strano posto dove venire a vivere.
- Barbara è l'unica parente che ho in Italia. - spiegai, lapidaria. Sorvolai volutamente sulla causa a monte del mio trasferimento, la ragione che mi aveva spinto a fuggire precipitosamente a Cautano e a rifugiarmi in quell'insospettabile manicomio verde pisello.

***

Helaku/Marco, che in realtà era solo Marco che Barbara chiamava vezzegiativamente Helaku*, frequentava la mia stessa scuola ma un anno più avanti. Il mio primo giorno mi accompagnò fino alla porta della mia aula e poi mi abbandonò lì dopo avermi salutato con un affettuoso bacio sulla fronte che, nonostante tutta la sua castità fraterna, mi aveva causato un preoccupante sfarfallio alla bocca dello stomaco.
La mia classe, seconda C del liceo classico Petrarca di Modena, era esattamente quella che mi aspettavo: una sgraziata accozzaglia di modelle bionde e favolosamente magre e uno sparuto gruppetto di ragazzi senza nerbo e senza personalità. In mezzo a loro io e la mia chioma rosso peperonata spiccavamo come la regina Elisabetta alla sagra del tartufo di Barisciano. Non me ne fregasse granché. Anzi, a dire il vero mi faceva piacere. Per accentuare la differenza, e per scongiurare qualunque velleità amichevole, avevo adottato un look ricercato più o meno quanto quello che uso per andare a letto: un pantalone della tuta negligentemente abbassato sui fianchi e una felpa esageratamente larga, di un orrendo giallo canarino che solo a guardarlo faceva male agli occhi. Com'era prevedibile, qualcuno mi guardò male ma neanche uno mi rivolse la parola.
Rividi Helaku (ormai ci avevo preso l'abitudine, chiamarlo Marco mi sembrava di una banalità esasperante) all'intervallo, nello squallido cortile di mattoni dietro la scuola. Era seduto da solo su un muretto, i capelli legati sulla nuca e le lunghe gambe distese davanti a sé, masticava placidamente un Duplo e, come molti altri studenti, sembrava parecchio interessato ad un QUALCOSA che io ancora non potevo vedere.
Lo raggiunsi, incuriosita, e lui mi fece posto senza nemmeno spostare lo sguardo.
Lo spettacolo da cui erano tutti così presi a me non sembrò niente di che: si trattava di due ragazzi che litigavano. O meglio, un ragazzo, bruno basso tarchiato, urlava improperi in faccia ad un altro, che lo stava a guardare impassibile.
Il secondo ragazzo, in particolare, attirava l'attenzione generale. Non che avesse niente di particolare: grazioso, di una bellezza discreta, capelli corti e biondissimi; occhi azzurri, vuoti e gelidi; un profilo aguzzo e spigoloso che mi ricordò quello di una cattedrale gotica, con le sue guglie e le sue vetrate. Un corpo sottile, snello come quello di un levriero, stracolmo di tensione come se fosse sul punto di scattare ma si trattenesse a stento. Mani lunghe, nervose ed agili, con le vene in rilievo, una delle due carica di anelli e aggrappata convulsamente ad un passante dei jeans.
Restai qualche minuto a guardare quella scena, con quello sbruno che insultava il biondo e il biondo che lo ascoltava con regale indifferenza, poi mi spazientii e mi decisi a riscuotere Helaku dal suo istante di estasi ascetica. - Ridge e Brook litigano?
Lui si voltò verso di me con le sopracciglia aggrottate, sinceramente perplesso. - Chi sono Ridge e Brook?
- Ma come, Ridge e Brook!... Beatiful?... - tentai, ma niente. Vuoto assoluto. - Diamine, è una delle coppie più gettonate d'Italia! Più di Bonnie e Clyde, di Topolino e Minnie, di... di Gianni e Pinotto!
Ma Helaku si era decisamente perso. Rinunciai, decidendo per il momento di abbandonare le metafore cinematografiche e ripiegare invece su un linguaggio più terra-terra. - Che succede?
- Litigano.
Aspettai che aggiungesse qualcosa, ma niente, era ripiombato nel suo assorto silenzio. - Diamine, e io che ero fiera della mia essenzialità! - ironizzai, sperando che cogliesse il pesante sarcasmo nella mia voce.
Non raccolse, però si fece un pò più loquace. - Quello a destra, quello che urla, è Giuseppe Annichiarico. Viene da Napoli.
- Fantastico. - commentai, poco convinta.
- Invece l'altro è Martin Lefevre. E' un conte. - aggiunse, girandosi a guardarmi in maniera significativa.
- Ehm... buon per lui? - azzardai cautamente. - Ma continuo a non capire il nesso.
- Bhè, la famiglia Lefevre è una specie di leggenda per tutto il liceo. Sai, sono molto riservati, e ricchissimi, anche. Il padre di Giuseppe era il loro giardiniere, ma l'hanno licenziato. E' per questo che litigano.
- Oh. - bhè, era piuttosto logico. Innaturale e del tutto ingiustificata, una rabbia sorda montò dentro di me, gonfiandosi come un air-bag. Improvvisamente trovavo quell'arisocratico ragazzino col naso all'insù e la sua flemmatica spocchia insopportabilmente irritanti. - Lefevre non mi sembra un nome abbastanza altisonante. - commentai, acida. - Ci vedrei meglio qualcosa come... Cètte tòm Du Baròn De Paris De Lisbòn Von Champs Eliseès.
Helaku mi guardò con un sorriso nascosto dietro ad un'espressione fintamente oltraggiata. - Devo dedurre che il conte ti sta antipatico?
- Ma deduci quello che ti pare! - sbottai, corrucciata.
- Deduco, deduco... - la sua aria saputa non mi piaceva per niente. - Comunque circolano strane storie sulla famiglia Lefevre. - continuò cambiando tono. Abbassò addirittura la voce, nonostante nessuno ci stesse ascoltando, fino ad un sussurro cospiratorio. - Nessuno sa che lavoro facciano per essere tanto ricchi. Hanno una villa enorme su una collina e non escono mai. A parte Martin, ovviamente, che comunque nessuno ha mai visto fuori della scuola. E poi lui è sempre così silenzioso, come se... - scosse la testa.
- Come se? - lo esortai, avvinta mio malgrado.
- Come se mantenesse un segreto. - soffiò Helaku dopo un attimo di esitazione. - Capisci che vuol dire? Non parla mai con nessuno, non vede mai nessuno... - nei suoi occhi brillava qualcosa che non riuscivo a decifrare. Una sorta di malinconia, o forse una certa solitudine... che si sentisse solo per osmosi?
Tornai a fissare il conte, che scuoteva pacatamente la testa e guardava Giuseppe ad occhi socchiusi, forse cercando di capire come spegnerlo.
- Lo sai... - bisbigliò Helaku all'improvviso, talmente piano che dovetti accostarmi a lui per distinguere le parole. - In realtà, a scuola ormai lo evitano tutti. Martin, intendo.
- Non mi stupisce. - borbottai, mentre l'interessato fendeva la folla con patrizia noncuranza, lasciando Giuseppe solo e furioso in mezzo ai curiosi.
- Ti sbagli su di lui. - bisbigliò Helaku, ma, prima che potessi voltarmi verso di lui per accertarmi che avesse parlato davvero, lui si era già alzato ed era scomparso tra la folla di studenti che assiepavano il cortile.

*"pieno di sole" in lingua Chinook.

NOTA DELL'AUTRICE:
Ecco qua, era ora. La mia prima storia dopo un luuuungo e doloroso periodo di assenza... avrei dovuto scrivere qualcosa di profondo, di impegnato e di filosofico, ma mi è uscita solo questa cacchetta demenziale, spero che vada bene lo stesso... :S
Insomma, grazie a tutti coloro che sono arrivati fino a qui e che STANNO ANCORA LEGGENDO! Siete incredibili! Lo so, la storia non è un granché, ma poi carbura (almeno spero). Comunque, se avete voglia di criticarmi, di farmi i complimenti o di insultarmi sadicamente lasciatemi una recensione, che è in tutti i casi molto gradita perché vuol dire che il mio lavoro è stato letto e valutato seriamente.
Tra parentresi, io non ho mai messo piede a Modena, i posti e i nomi delle strade sono tutti inventati di sana pianta.... e non so neanche niente del buddismo, a ben pensarci. Oddio, spero di non avere offeso nessuno nella mia ignoranza...
Comunque.... come concludo? Bon, grazie davvero di aver letto e sopportato tutte le mie stronzate, fatemi sapere che cosa ne pensate!
  
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