Segreti
del Tempo
Ci sono segreti che è meglio non
scoprire.
Ci sono segreti che è meglio non
avere.
E ci sono segreti che è meglio
lasciare al tempo, perché quello sono.
Segreti del Tempo.
Tell me what you want to
hear
Something that were like those years
Sick of all the insincere
So I’m gonna give
all my secrets away
This time, don’t need another perfect line
Don’t care if critics never jump in line
I’m gonna give all
my secrets away
“Non voglio avere più niente
a che fare con te”
- Ha detto proprio così? –
- Esattamente – rispose
Michele, il tono di voce incolore. Attizzò il camino, prendendo posto sul
divano ed aspettando una qualche reazione dall’altro capo del telefono.
- Mi dispiace – era stato
appena un sussurro quello di Luciano. Un mormorio indefinito.
Michele si strinse nelle spalle,
immaginando l’espressione al tempo stesso preoccupata e divertita
dell’amico. Luciano era fatto così. Non riusciva a restare serio a lungo.
- E di cosa? Non sei stato tu a
lasciarmi -
- Non ha avuto molto tatto, eh?
– chiese l’altro, ridacchiando.
- Tatto? No, non direi proprio
–
Michele sospirò, stringendo
convulsamente le dita attorno al telecomando del televisore.
Con un gemito poi lo lasciò,
afferrando invece il cucchiaio.
- Non ci pensare,
Michele -
Lui rise, di una risata isterica.
Come diavolo faceva a non pensarci?
- E’ un bene in fin dei
conti. Non è quello che volevi anche tu? Non eravate fatti l’uno per
l’altro, vedila così. Prima cominci a vedere altre persone meglio è,
fidati -
Michele ebbe l’improvviso
impulso di chiudere la conversazione. Riuscì a trattenersi.
- Meglio? Credi ci sia qualcosa di
positivo in tutto questo? Mi ha lasciato, Luciano. Per
telefono! In meno di dieci minuti, senza lasciarmi aprire bocca. Per telefono!
– gridò, agitando il cucchiaio.
- Lo hai già detto – ribattè l’altro, pacato.
Michele si accasciò sui cuscini,
vinto.
- Cosa? – chiese, chiudendo
gli occhi per l’esasperazione.
- Che ti ha lasciato per telefono
– rise l’altro.
- Credo sia la parte più
importante –
- Importante o deprimente? –
si informò Luciano, svagato.
Michele sospirò, arreso.
- Entrambi -
Luciano grugnì in segno di
assenso, ponderando bene cosa fosse più giusto dire poi.
- Che fai? – chiese alla
fine, improvvisamente attento.
- Meditavo il suicido
–
- Bene. Ti consiglio il veleno
– concordò, rilassandosi.
- Non saprei dove trovarlo
e… - si interruppe, continuando poi a voce più alta – porca
miseria, no!-
- Che succede? E comunque posso
sempre procurartelo io, eh? L’arsenico va bene? –
Michele aveva continuato ad
imprecare, borbottando parole irripetibili.
- E’ andata via la corrente
e che cacchio! – esalò alla fine, stizzito e incollerito.
- Strano. Da me c’è. Vuoi
venire qui? –
- No. Mi ero già organizzato e che
diavolo! – ribattè, contrariato.
Luciano aspettò che continuasse,
cosa che l’altro non fece.
- In che senso? -
- Nel senso che avevo acceso il
camino, preso il gelato e messo “Frankenstein Junior” nel dvd!
–
Dopo qualche istante di silenzio
una risata contagiosa esplose da parte di entrambi i ragazzi.
- Fattelo dire,
Michè. Se il film fosse stato “I segreti di Brockeback Mountain” avrei cominciato a preoccuparmi
seriamente per te – chiocciò Luciano, non riuscendo a trattenersi.
Michele sorrise, rilassandosi poco
a poco. Poggiò la vaschetta di gelato ai piedi del divano e lasciò lì anche il
cucchiaio. Niente film niente dolce. Sospirando si sdraiò scompostamente.
- E allora cosa hai intenzione di
fare? – continuò l’altro, tornando alla carica.
- Non lo so ancora –
rispose, lasciando che lo sguardo si perdesse. Fissò le fiamme, i giochi di
luce che si creavano, il fumo che saliva, lento ed incoerente.
Si distrasse, rapito dalle ombre che si rincorrevano sul tappeto, arrivando a
lui, pronte a catturarlo nella loro lotta sfrenata.
- Michele? – si sentì richiamare,
riportato bruscamente alla realtà.
- Sì? –
- Sicuro di star bene, amico?
– chiese Luciano, prendendo in considerazione l’idea di
raggiungerlo.
Michele avvertì la preoccupazione
nascosta nel suo tono e cercò di sembrare vivace.
- Certo! E sai che faccio, visto
che sono tagliato fuori dal mondo? -
- Ti uccidi per davvero? –
- No. Vado ad ordinare la soffitta
– rispose, alzandosi a fatica in piedi.
Luciano rimase momentaneamente
senza parole, stentando a credere a quello che aveva sentito.
Michele ne approfittò, dirigendosi
prudentemente verso la credenza della cucina. Con una certa esitazione frugò
fra i contenitori delicati e i libri antichi, riuscendo alla fine a trovare
quello che stava cercando.
Le candele.
- Non mi morire, Michè –
Riprestò attenzione
all’amico, tentando di capirne la logica.
- Sono l’ultima persona con
cui hai parlato. Se lassù, come nei migliori film horror, un pazzo con la
motosega ti fa a fettine non ci tengo ad essere sospettato – spiegò
Luciano, sarcastico.
- Starò attento alle motoseghe,
allora –
- Bravo. Sicuro non vuoi che
venga? – tentò ancora, non convinto.
- Ci saranno i ragni, lassù
–
Luciano squittì, mugugnando
qualcosa.
- Divertiti, Michele -
- Cercherò – rispose,
chiudendo lo slide del cellulare.
Un sorriso incerto sulle labbra, attraversò il salone, diretto alle scale. Non
avrebbe saputo dire come gli era venuta quell’idea. Non era da lui.
Proprio no. Eppure stava salendo, candela alla mano.
Cos’era stato a spingerlo?
Probabilmente l’assenza di
altre possibilità: niente televisore, niente computer, niente luce.
L’ultima spiaggia sarebbe
stata fare un pisolino sul divano, idea non così malvagia vista l’ora
tarda.
E invece no. Da testa matta quale
era aveva deciso di andare a mettere il naso nella soffitta di famiglia.
Era arrivato all’ultimo
piano, proprio sotto la scaletta che gli interessava. Saltò, cercando di
afferrare la corda che pendeva dal soffitto. Al terzo tentativo vi riuscì,
stringendo saldamente la presa.
La tirò a sé, con uno sforzo
notevole. Diversi respiri e cigolii dopo la scaletta in legno era stata aperta,
tirata interamente verso il basso. Michele sollevò lo sguardo, cercando di
scorgere qualcosa.
Non era facile: dopo
l’ultimo scalino vi era solo il buio. Il nero più totale.
Si disse che quella era
l’ultima opportunità per cambiare idea e fare dietrofront. Non aveva
neanche finito di pensarlo che già aveva preso a salire, tenendo in equilibrio
precario la candela.
Il fascio di luce era esile, quasi
irrisorio. Illuminava a stento qualche palmo oltre la sua figura.
Mosse qualche passo su quel
pavimento a lui nuovo con cautela, temendo di sentirselo franare sotto i piedi.
Fu con un sorriso che lo identificò quale solido parquet di noce. Non rischiava
di sfondarlo, se non altro. Alzò la candela, cercando di vedere qualcosa di
più. Riusciva a scorgere poco: pile di scatoloni, ragnatele, cianfrusaglie
ovunque. Dominava il disordine più totale.
Ricordava di essere stato lì solo anni prima, dieci anni prima per la precisione, quando
i nonni erano ancora vivi. Era salito con loro, eccitato come un esploratore
alla sua prima ricerca.
Ora non riusciva a provarla
quell’eccitazione, riservata forse solo ai bambini di otto anni.
Camminò, muovendosi con cautela,
diretto alla parete in fondo. Se non ricordava male, avrebbe dovuto
esserci… sì, c’era: scorse il piccolo lucernario sopra di sé con un
moto di esaltazione. Lo aprì, facendo fronte alla resistenza del tempo, per
lasciar entrare l’aria fresca e pulita della notte.
Il fascio di luce lo investì in
pieno. Chiara, quasi bianca, lo inondò.
Guardò lo spicchio di luna che
sembrava sorridergli, bianco e lucente al punto da far impallidire le stelle. A
malincuore gli voltò le spalle, tornando ad osservare la soffitta: riusciva a
vedere meglio adesso. Non era sicuro che fosse meglio, con quella luce che
rendeva tutto ancora più spettrale, ma non se la sentì
di lamentarsi. Si aggirò in quello spazio ridotto, attento a non urtare con la
testa le travi in legno non così distanti del tetto, togliendo con mano sicura
le ragnatele che gli intralciavano il cammino.
Da dove cominciare?
Si fermò, girando più volte su se
stesso. Non aveva davvero intenzione di mettere in ordine. Per quello ci
sarebbero volute ore, se non giorni. No, semplicemente gli andava di mettere il
naso in quelle che, in fondo, erano cose di famiglia. La casa era la sua, no?
Da poco meno di un anno, ma l’aveva ereditata.
Era suo diritto perciò, o meglio,
poteva sicuramente farlo. Nessuno glielo impediva.
Sorrise, rendendosi conto di star
delirando. Con un atto di coraggio si avvicinò ad un vecchio mobile: in legno,
ricoperto di polvere, sembrava perfetto a creare l’ambientazione da casa
dei fantasmi. Aprì i cassetti, uno alla volta, rovistando tra le tovaglie
bucate e le posate d’argento sbiadite. Nell’ultimo a destra lo
trovò: un piattino in porcellana. Vi fece colare un po’ di cera per
posizionarvi quindi la candela.
Poggiandola sul ripiano si accorse
dello specchio poco lontano: con la coda dell’occhio vide il riflesso
della fiammella e si voltò, rischiando di sbattervi contro. Era grande, a
figura intera. Si guardò, diciottenne pallido e
distrutto. Appena lasciato dalla ragazza, pupille dilatate, labbra socchiuse.
Era proprio lui.
Soffiò verso l’alto,
scostando la ciocca di capelli neri che come al solito gli cadeva davanti agli
occhi. Non lo faceva spesso, impedendo così agli altri di accorgersi di quella
piccola discordanza di colore. In pochi lo sapevano. In pochi avevano avuto
l’onore di vedere entrambi gli occhi: uno verde e l’altro azzurro.
Luciano era tra questi e gli aveva assicurato più volte che quasi non si
notava: i colori erano così lucidi e chiari che sembravano della stessa
tonalità. Lui però si era affezionato alla frangia e la lasciava lì, incurante.
Prese un bel respiro e si diresse
verso la montagna di scatoloni. C’era una panca, con dei cuscini, su cui avrebbe potuto sedersi. Michele preferì non farlo,
afferrando solo un cuscino. Lo sbattè, togliendo un
po’ di polvere e gli eventuali animaletti occupanti, poi lo lasciò cadere
a terra, sedendoci subito dopo.
Piegò le gambe sotto di sé,
allungando esitante le dita verso la prima scatola.
Era piena di robaccia: da vecchie
scarpe a vestiti inutilizzabili… riviste illeggibili, copricapo bucati,
modellini di automobili, vecchie monete, poster e polvere. Soprattutto quella.
Pulviscolo. Tanto, troppo.
Starnutì, allontanando il sesto,
noioso ed infruttuoso scatolone. Socchiudendo gli occhi sospirò, chiedendosi
cosa mai si aspettasse di trovare. Era una soffitta, non l’isola del
tesoro.
E lui era Michele, quindi nessuno.
Che cosa mai poteva trovare?
Con frustrazione uccise il ragno
nero che gli zampettava vicino alla scarpa. Allungò ancora una volta la mano,
stringendo le dita sui bordi di un’altra scatola. Era l’ultima, si
disse. Se non avesse trovato niente, basta. Fine dei
giochi e diritto a letto. Aguzzò la vista, frugando e dividendo. Peluche,
cartoline, chiavi, bambole, orologi… niente di niente. Stava per alzarsi
quando lo notò. Si confondeva con il fondo dello scatolone: era dello stesso
colore, un marrone scambiato e devitalizzato dal tempo, eppure c’era.
Lo prese in mano con poche
aspirazioni: era sì un album fotografico, ma a quel punto il sonno stava avendo
la meglio su di lui. Lo posò in grembo, troppo stanco anche per soffiar via la
polvere. Ne sfogliò le prime pagine con indolenza, osservando senza curiosità
foto che conosceva già. Rivide la nonna, il nonno, persino i genitori. Pose
classiche, preparate, noiose. Sbadigliò, facendo per chiuderlo. Fu un caso.
Se ne accorse per puro caso. C’era
un dislivello. Lo sentì al tatto e, sollevando l’album verso il fioco
fascio di luce, riuscì anche a vederlo. Assottigliò gli occhi, rendendosi conto
di aver sfogliato solo mezzo album.
L’altra metà era stata
incollata all’ultima pagina.
Con una rapida mossa estrasse il
taglierino che aveva in tasca e cercò di aprirle, con delicatezza. La colla era
stata applicata solamente sugli angoli esterni delle pagine, così da non
rovinarne il contenuto.
Cominciò a mordersi l’interno guancia, preso com’era dal lavoro.
Dopo qualche minuto lasciò cadere il coltellino, infilando esitante
l’unghia del pollice fra le prime due pagine. Ci volle poco: un minimo di
pressione e i fogli si separarono. Sorrise, curioso suo
malgrado di scoprire il motivo di tanta segretezza.
Dopo aver compiuto la stessa
operazione anche con le restanti pagine prese a sfogliarle, sorpreso da come,
in confronto con quelle precedenti, sembrassero molto più vecchie. Erano
ingiallite, spiegazzate. Davano l’impressione di essere state girate tante
e tante volte, prima di essere poi sigillate.
Michele aguzzò la vista, studiando
le rare foto che vi erano, rade e quasi insignificanti rispetto alle altre.
Pochissime, sbiadite e rovinate, i
bordi sgualciti. Le guardò, non riconoscendo alcun volto.
Immortalavano per lo più singole
persone: uomini, donne, bambini. Non ne conosceva neanche uno. Cercò
inutilmente di capire a che anno potessero risalire. A parte il fatto che erano
tutte in bianco e nero, non era mai presente alcun indizio che lo potesse aiutare
nella datazione. Sbirciò ancora per un po’, poi si ritrovò a sbadigliare,
senza nemmeno rendersene conto. Si decise così a lasciar perdere.
Chiuse l’album, girandoselo
fra le mani, indeciso se lasciarlo lì o portarlo giù con sé.
Quasi non sentì il fruscio. Quasi
non si accorse del foglio che cadeva. Quasi non lo vide. Quasi.
Con la coda dell’occhio lo
aveva notato però, quel movimento. E rapido aveva riportato lo sguardo ai suoi
piedi. Strinse le labbra, confuso. Poggiò di nuovo
l’album sulle gambe, allungando le dita verso il foglio.
Era caduto dall’album,
probabilmente da una delle pagine a cui non era arrivato. Lo strinse nella mano
destra, riaprendo il libro per capire da dove fosse scivolato. Trovò lo spazio
vuoto e sbiadito nella penultima pagina, esattamente prima di una grande foto
di gruppo conclusiva. La osservò di sbieco, senza prestarvi attenzione. Erano
gli stessi visi di prima, sempre quelli che non conosceva.
Così, lasciando passare, si
concentrò sul foglio che ancora stringeva. Era piegato in quattro parti, così
sciupato da fargli temere che gli si potesse sbriciolare fra le dita. Lo aprì
con delicatezza, cauto ed attento.
Lo poggiò sulla foto di gruppo,
lisciandolo per leggere meglio: una vecchia pagina di giornale, risalente al
1933. Al 12 novembre del 1933. L’articolo cui era dedicata quasi tutta la
pagina era su un matrimonio.
“ E’ con grande gioia
che annunciamo le tanto attese nozze fra Sergio Vittori ed Elisabetta Tersi. Con una magnifica cerimonia al
Desire Hotel, alla quale sono
intervenuti non meno di trecento invitati…”
Michele si limitò a leggere i
primi righi, per poi passare invece al piccolo articolo di cronaca relegato
nell’angolo destro della pagina. Non occupava molto spazio, un niente in
confronto all’altro articolo, eppure per qualche motivo attirava
prepotentemente la sua attenzione.
“ Tragedia alle nozze. Uno
degli invitati, amico dello sposo: Gabriele Gertiso, si toglie la vita. Suicidio che mai sarebbe stato
sospettato, avvenuto a poche ore dalla fine della cerimonia. La
polizia elimina con…”
Michele interruppe la lettura,
distratto dal paio di occhi che lo fissavano attraverso la piccola foto
laterale all’articolo. Con un sussulto lesse il nome che vi era scritto
sotto: Gabriele Gertiso. Era lui ad essersi suicidato.
Lui con quei suoi enormi occhioni scuri così magnetici e tristi. Li fissò per
un tempo indefinito, colpito senza sapersi spiegare il perché. Il ragazzo
portava i capelli tagliati poco sopra le spalle,
sfilzati sul davanti, che gli cingevano dolcemente il viso. Una frangetta lunga
e laterale a coprirgli parte della fronte.
Fissava ancora la fronte quando il
dolore lo colpì. A sorpresa.
Non se lo aspettava, forte e
pungente, proprio nel petto. Era forte, al punto da mozzargli il respiro.
Socchiuse gli occhi, reggendosi
con una mano al pavimento.
Cercò di prendere un bel respiro,
ma era come se qualcuno lo avesse e stesse ancora
prendendolo a pugni nello stomaco. Una fitta più forte delle altre,
all’altezza del cuore, dell’intensità simile a quella di una
coltellata incandescente, lo costrinse a chiudere gli occhi.
Tentò ancora di respirare,
la testa che gli girava vorticosamente. Cosa diavolo…?
E così come era cominciato finì.
Di colpo. All’improvviso.
Michele continuò a tenere gli
occhi chiusi, sopraffatto da quello che era successo. Non riusciva in alcun
modo a spiegarselo, non gli era mai capitato. Sorrise fra se e se, sollevato
che in ogni caso fosse tutto finito e, finalmente, si decise a riaprire gli
occhi. Il buio.
Questo vide: niente.
Il sorriso gli morì sulle labbra,
fulmineo come vi era apparso. Perché non vedeva un accidenti?
Non aveva prestato attenzione al
venticello che prima aveva sentito in soffitta, ci pensò in quel momento però,
valutando l’idea che la corrente potesse aver fatto spegnere la candela.
Decise di alzarsi, così da tentare la sorte. Fece per togliersi dalle gambe
l’album ma non lo trovò. Sgranò gli occhi nel buio.
Non c’era niente sulle sue
gambe. E il pavimento non era in legno, era in marmo.
Si alzò in piedi di scatto, improvvisamente
terrorizzato.
Prese diversi respiri, ipotizzando
che forse era solo la stanchezza a fargli brutti scherzi, o, ancora più
semplicemente, aveva soltanto perso definitivamente il senno. Mosse qualche
passo, cercando un punto di appoggio. Non lo trovò, non quello che si
aspettava. Tastò ancora, sperando di sbagliarsi.
Strinse le dita, convincendosi di
star toccando scaffali di ferro.
- Eccoti finalmente! -
Trasalì, il cuore che si fermava
al suono squillante di quella voce. Si voltò, trasecolato, verso il punto da
cui proveniva. Il punto da cui proveniva anche la luce improvvisa.
Realizzò come al rallentatore,
canalizzando ogni particolare fin troppo lentamente.
Vide la porta che si era aperta
davanti a lui, il viso della bambina che aveva parlato, la stanza sconosciuta.
Non era nella sua soffitta, non
era in casa sua. Arretrò, trovandosi ben presto con le spalle al muro. Aprì più
volte la bocca per dire qualcosa ma non ne uscì niente al di fuori di rantoli
terrorizzati.
La bambina entrò, avvicinandosi a
lui sorridente. Aveva un caschetto di lucidi capelli biondi e due enormi e
languidi occhi verdi. Lo fissava, il sorriso furbo.
Come se niente le sfuggisse. Gli si fermò di fronte.
Gli arrivava appena alla vita, non
poteva avere più di sette anni.
- Dobbiamo andare, Michele. Siamo
in ritardo – disse, come se fosse lei l’adulta e lui il bambino.
- Dove? – chiese, incredulo, Michele.
Non pensò a chiederle come lo
conoscesse, come sapesse il suo nome. Non ragionava, non ci riusciva.
La bimba lo prese per mano,
tirandolo con sé fuori la stanza. Michele si lasciò trascinare, fuori di sé.
Stranito al punto da non vedere niente al di fuori della nuca della bambina.
Nemmeno si accorse di star entrando con lei in un ascensore, se ne rese conto
solo grazie al segnale acustico che diedero le porte una volta che si furono
chiuse.
Michele trasalì a quel suono
inaspettato. Identificò l’ascensore, capì di essere un idiota e ancora
non pensò a niente. Vide la bambina che tendeva le braccia verso l’alto,
verso di lui, e la prese in braccio. Lei sorrise ancora, arrampicandosi su di
lui, premendo le mani sulle sue spalle per raggiungere la griglia con i tasti.
Allungò il ditino, la punta della
lingua appena visibile fra le labbra, e premette un tasto. Il 23.
Michele vide il numero che si
illuminava, sentì l’ascensore che cominciava piano la salita.
Inesorabile.
Scosse la testa, poggiandosi con
la schiena alla parete. Non era possibile.
Con due dita si pizzicò, sperando
di scoprire che era tutto un sogno, che era tutto falso. Sarebbe stato
divertente poi, raccontarlo. Così reale, vivido, da sembrare vero. Si pizzicò
ancora, acuendo il dolore.
Non successe niente. Era sempre
lì, nell’ascensore, con quella bambina in braccio.
Lei smise di sorridere,
passandogli le braccia attorno al collo e avvicinando il viso al suo.
- Devi stare tranquillo -
Michele continuò a fissare quelle
iridi verdi, così rassicuranti, e sorrise sarcastico.
- Tranquillo? – chiese,
vicino all’isteria.
La bimba annuì, poggiando le
manine sulle sue guance. Erano gelate.
- Perché dovrei? Come potrei?! – si accalorò Michele, vicino al panico.
- Tranquillo – ripeté lei,
sorridendo di nuovo.
Gli carezzò la guancia,
procurandogli un brivido sulla schiena. Tranquillo. Tranquillo. Tranquillo?
Michele sobbalzò, sentendo di
nuovo il suono di prima. L’ascensore si fermò, le porte si aprirono. La
bimba scese dalle sue braccia, riprendendolo per mano. Fu lei a spingerlo
fuori, liberandolo dallo stato catatonico in cui era caduto. Mentre le porte si
chiudevano alle loro spalle, lei si sistemò l’ampia gonna del vestito
bianco che indossava, portando poi una ciocca di capelli biondi dietro
l’orecchio.
- Ora andiamo – disse,
sorridendo.
Alle orecchie di Michele suonò
come un consiglio, un consiglio cui non poteva disubbidire.
La seguì, percorrendo con il cuore
in gola il lungo corridoio deserto. Era poco illuminato, le pareti imponenti e
i pavimenti in marmo bianco. Alla fine del corridoio c’era una porta in
vetri enorme, da cui filtrava la luce. Michele la fissò, in silenzio. Poi
guardò la bambina.
- Sono morto? – chiese, laconico.
- No – rispose lei,
ridacchiando divertita.
- Sei sicura? –
Lei annuì, senza guardarlo. Erano
ormai arrivati alla porta. Michele sentiva la musica provenire
dall’interno della sala, il mormorio indefinito, il profumo di rose.
- Sei a un matrimonio –
mormorò la bambina, spingendo la porta.
Michele l’aveva fissata,
sentendo la risposta, ma poi risollevò lo sguardo davanti a sé. Dischiuse le
labbra, sorpreso da ciò che vedeva. Guardò l’immensa sala, i tavoli
imbanditi, il palco con l’orchestra, i fiori… si perse in quel
bianco accecante, nel profumo invadente delle migliaia di rose e fra gli
invitati.
I tanti invitati, troppi. Persone
su persone, sparse nella sala. Michele era pietrificato, le dita strette
attorno a quelle della bambina, suo unico punto di riferimento.
- Hai detto che è un matrimonio?
–
Non aveva finito la frase che
sentì un braccio avvolgergli le spalle. In qualsiasi altra occasione si sarebbe
scostato, sorpreso e diffidente. In quel momento però, non riuscì a muoversi di
un centimetro.
La presa attorno alle sue spalle
aumentò, mentre una voce prorompente gli esplodeva vicino all’orecchio:
- Ti avevo dato per disperso, Michele! -
Quello che aveva parlato gli si
piazzò davanti, affibbiandogli una pacca scherzosa sulla spalla.
Michele non riusciva a distogliere
lo sguardo dal ragazzo che gli era di fronte, lo fissava, come si fissa un
fantasma. Non era possibile. Non stava accadendo.
- Ho dovuto mandare Giulia a
recuperarti – berciò il giovane, indicando di sfuggita la bambina.
Lei sorrise, lasciando la mano di
Michele. Lui avrebbe voluto fermarla, impedirle di andar via, ma non lo fece.
Perché non sembrava esserne in grado.
- Gabriele? -
Era stato lui a chiederlo, senza
neanche sapere come. Il sorriso dell’altro ragazzo si smorzò, così come
l’espressione dei suoi occhi si fece più seria. Annuì, scostando la lunga
frangia dalla fronte.
- Chi altri se no? – chiese,
divertito.
Erano neri gli occhi, neri i
capelli. Capelli lunghi fino alle spalle, sfilzati davanti. Occhi tristi, di
chi porta il mondo sulle spalle. Un viso che aveva già visto. Il volto di un
morto.
Gabriele lo prese a braccetto,
incamminandosi sicuro fra i tavoli. Passeggiava leggiadro, senza una meta
precisa. E parlava, senza che Michele lo ascoltasse. Pensava ad altro Michele.
- In che anno siamo? –
chiese, di punto in bianco, interrompendolo.
Gabriele lo guardò, sgranando gli
occhi.
- 1933 – rispose, esitante.
- Mese? – continuò,
Michele, le labbra che tremavano.
- Novembre –
Gabriele si era fermato,
allarmato. Lo fissava, il viso corrucciato.
Michele respirava con affanno, il
cervello che andava per conto proprio. Finalmente attivo.
- E’ il 12? – chiese
ancora, sicuro questa volta della risposta.
Gabriele annuì, seriamente
preoccupato.
- Sicuro di star bene? Sei pallido
da far paura. Hai bisogno di qualcosa? – domandò, indeciso e attento.
- Sì – mormorò Michele.
Aveva bisogno di tornare alla
realtà, alla sua realtà.
- Qualcosa di forte –
suggerì Gabriele, riprendendo a camminare.
Lo spinse verso il tavolo più
lontano, verso quello più sfarzoso. Sorridendo si appropriò di una sedia e vi
ci fece sedere Michele, tamburellando poi con le dita sul tavolo.
- Qualcosa di forte –
continuava a ripetere, concentrato e pensoso. Di colpo
si fermò, sorridendo soddisfatto.
- Trovato! – si esaltò,
allontanandosi di qualche passo. Tornò poco dopo, una bottiglia in mano.
Era elegante, lunga e sottile.
Nera e rossa. Finemente decorata.
La porse a Michele che
l’afferrò curioso. Se la rigirò fra le mani, studiandone
l’etichetta. Non l’aveva mai vista prima, era convinto non
esistesse un liquore del genere.
- Winter
Allory – disse Gabriele, orgoglioso.
- Partita unica, liquore
eccellente. Sono solo cento bottiglie. Godiamocela – concluse, gli occhi
brillanti.
Michele annuì, trovando contagioso
il sorriso di Gabriele. Era un bellissimo sorriso, oscurato appena dalla
barbetta di pochi giorni. Barba che lo rendeva ancor più luminoso. Afferrò due
bicchieri, porgendoglieli.
Gabriele li riempì, con calma e
soddisfazione. Prese il suo, avvicinandolo a quello di Michele e lo urtò.
- A cosa brindate? -
Si voltarono entrambi, in
direzione della nuova voce. Era pacata, con un pizzico di irriverenza
divertita.
Gabriele sospirò, il sorriso che
si affievoliva.
- Parli del diavolo… - mormorò, uno strano luccichio negli occhi.
L’altro giovane era ormai
vicinissimo, in piedi di fronte a loro. Sorrise, inarcando le sopracciglia in
una finta espressione sorpresa. Aveva lunghi capelli biondi, legati in una
coda. Un viso tagliente, rasato e ben curato. Gli occhi erano castani, pieni di
una luce furba che sembrava farne parte.
- Brindate a me? – chiese,
con un sottinteso che Michele non capì. Era come se lui fosse solo una comparsa
in quel momento, come se gli altri due stessero tenendo una conversazione silenziosa,
che non gli era dato di sapere. Si ritrasse di qualche centimetro, sentendosi
più che mai fuori luogo.
- Proprio così – rispose
Gabriele, sollevando il bicchiere – a te, Sergio, e alla
tua bellissima futura sposa –
Michele strinse le labbra, colpito
dal tono che aveva usato Gabriele. C’erano tante emozioni racchiuse in
quella voce, a mala pena riflesse dagli occhi: dolore, rabbia, frustrazione,
risentimento.
Se ne accorse anche Sergio, che
arretrò improvvisamente, il sorriso scomparso.
Era un brutto miscuglio quello che
teneva in sé Gabriele, Michele lo sapeva, un miscuglio letale.
Si alzò in piedi, lasciando il
bicchiere sul tavolo, frapponendosi tra i due. Dava le spalle a Sergio, gli
occhi fissi in quelli di Gabriele. Ne catturò l’attenzione sfuggente, la
mano ferma sulla sua spalla. Lo fece voltare, sospingendolo piano, lontano da
Sergio. Si fermò solamente quando sentì che Gabriele respirava di nuovo.
- Stai bene? – chiese, senza
però ottenere risposta. Sospirò, schiaffeggiandolo sulla guancia.
- Bevi – gli ordinò,
mordendo l’interno guancia. Gabriele ubbidì,
vuotando il bicchiere in un colpo.
Michele gli
sorrise, nella speranza vana che l’altro si riprendesse.
- E’ uno stronzo –
ringhiò fra i denti, per nulla intenzionato a sorridere. Non c’era
bisogno di accennare a chi si riferisse. Michele ripensò alla figura di Sergio
e si disse che, sì, ce l’aveva l’aria da stronzo.
- Lo preferirei morto –
Michele si guardò attorno,
rispondendo ai sorrisi di circostanza che gli rivolgevano.
- Perché? – chiese, sperando
seriamente di ricevere una risposta.
Gabriele sgranò gli occhi,
fissandolo con un’espressione impossibile da equivocare. Lui sapeva. O
meglio, avrebbe dovuto sapere. Avrebbe dovuto sapere. Ma non era così. Non
sapeva.
Gli mancava un tassello
importante, fondamentale. Non sapeva perché Gabriele odiava Sergio, perché lo
volesse morto e men che meno perché poi, a fine serata,
a morire sarebbe stato Gabriele…
Guardò il ragazzo che gli stava
davanti, si perse ancora in quei buchi neri e tormentati. Sarebbe morto. No. Si
sarebbe ucciso. E lui non sapeva perché. Sentì la rabbia che gli
saliva dentro, un’onda improvvisa e perentoria, impossibile da ignorare.
Non doveva morire.
- Avete sentito,
ragazzi? -
La voce gli giunse ovattata,
quando si girò lo fece automaticamente, senza rendersene conto.
Con sorpresa si accorse di non
essere più solo con Gabriele, focalizzò il gruppo di giovani che li aveva
circondati: visi allegri, colorati dall’alcol, entusiasti ed eccitati.
Vedeva le bocche che si muovevano, sentiva le risa ma realizzava poco. Molto poco.
- Si dice che anche gli esattori siano
stati invitati – continuò lo stesso ragazzo di prima, la voce impastata.
- Chi lo dice,
Vittorio? – chiese, poco interessato, Gabriele.
A rispondere non fu Vittorio, ma
un tipo minuto, dall’aspetto cascante, con gli occhi nascosti dagli
occhiali.
- Li ho visti – esclamò
– erano nella hall, non ho capito cosa e da chi lo volessero, però
–
Gabriele rise, innescando un
processo a catena che contagiò tutti. Nessuno più prestava attenzione al tipo
con i fondi di bottiglia davanti agli occhi. Lui era l’unico a non
ridere, risentito per la reazione che aveva scatenato. Si guardava attorno, le braccia incrociate. – Vi dico che è vero
– continuava a mormorare.
Michele sorrideva per osmosi, cercò
di afferrare la manica di Gabriele ma non fece in tempo. Qualcuno, più veloce,
afferrò la sua. Si girò, incontrando gli occhi svegli di Giulia, in piedi di
fianco a lui.
- Vieni – disse, sorridente
come sempre.
Michele sgranò gli occhi,
alzandosi suo malgrado. La bambina lo tirava con dolcezza, guidandolo
attraverso la sala, lontano da Gabriele.
- E’ impegnato – disse
lei, senza guardarlo.
- Chi? –
- Gabriele – mormorò, con
ovvietà – E’ in compagnia, non preoccuparti –
E chi è preoccupato, avrebbe
voluto rispondere Michele. Non lo fece, tuttavia, perché qualcosa dentro di sé
gli diceva che ad aver ragione era Giulia. Sgusciava rapida ed elegante fra gli
invitati, ruotando a destra, scavalcando a sinistra. Camminava, decisa ed
imperturbabile.
- Dove andiamo? – si decise
a chiedere, Michele.
- Ti devo presentare una persona
– rispose lei, un attimo primo di fermarsi, poco lontano dal centro della
sala, al tavolo più bello. Vi era seduta una ragazza, dava loro le spalle e
Michele riuscì a vederne solo la cascata di ricci biondi che le copriva la
schiena.
- Elis
– chiamò Giulia, facendo girare la ragazza – posso presentarti un
mio amico? –
Michele rimase abbagliato. Schiuse
le labbra, pietrificandosi sul posto.
Guardava la ragazza, la più bella
che avesse mai visto e si dimenticò di tutto il resto. Era come se in quel
momento esistesse solo lei. Lei con i suoi riccioli biondi, con i suoi occhioni
azzurri e le sue labbra rosse.
Erano labbra a forma di cuore,
labbra che volevano essere baciate.
Michele si morse forte l’interno guancia, cercando di tornare in sé e sentire
cosa stesse dicendo Giulia.
- Lei è Elisabetta, mia sorella
– spiegò a Michele, ammiccando con un sorrisetto.
La ragazza sorrise, carezzando i
capelli della bambina con affetto. Si avvicinò a Michele, tendendo la mano:
- Infastidisci ancora le persone?
– chiese, guardando il ragazzo con aria di scuse.
- Solo quelle che devo –
rispose Giulia, enigmatica. – Fate i bravi – continuò, allontanandosi
rapidamente.
Michele si voltò per seguirla con
lo sguardo, la mano ancora stretta in quella della sorella.
- E’ sparita! – disse
poi in un singulto.
Elisabetta annuì, con un sorriso
sconfortato: - Non so come fa, ti distrai un secondo e non c’è più –
Si era alzata, parlando. Michele
lo vide solo in quel momento, il battito che improvvisamente aumentava.
Il vestito da sposa.
Si diede dello stupido. Ci poteva
arrivare prima. Elisabetta. La sposa.
Sorrise mestamente in risposta
all’espressione interrogativa della ragazza. Non c’era niente da
dire.
- Che facevi quando Giulia ti ha
trascinato via? – chiese lei, decisa a riempire il silenzio.
- Ero lì, con i ragazzi –
rispose, indicando il gruppo con un cenno del capo. Elisabetta annuì,
interessata.
- Di che parlavate? –
Michele si strinse nelle spalle,
accennando un sorriso imbarazzato.
- Esattori – disse, ridendo
poi dell’espressione sorpresa di Elisabetta. Lei strinse gli occhi,
avvicinandosi.
- Esattori? – chiese, il
sarcasmo nella voce – E per chi sono venuti? –
Michele scosse la testa, deciso a
non indietreggiare. Incatenato dagli occhi di lei.
- Non lo so – mormorò, la voce spezzata.
Elisabetta sorrise, prendendolo
improvvisamente a braccetto.
- Spero non per me –
ridacchiò lei, - sarò anche milionaria, ma gli esattori non li sopporto lo
stesso -
Michele si irrigidì, non
intendendo le intenzioni della ragazza. Sentiva il contatto con il piccolo
braccio di lei, il suo profumo, e temette di star per prendere fuoco.
Elisabetta cominciò a camminare, tenendolo con sé.
- Cosa…? – chiese
Michele, nascondendo la paura nella voce -
- Non mi inviti a ballare? –
ribattè lei, mettendo su un finto broncio.
Michele credette di svenire,
vedendo il centro della pista avvicinarsi, sentendo la musica farsi più alta.
- Io… non credo sia una
buona idea – esalò, gli occhi sgranati.
- Sergio non è il tipo geloso, non
temere – scherzò lei, fermandosi e mettendosi in posizione.
Era riuscita a strappargli un
sorriso. Michele la assecondò, stringendole una mano e poggiando l’altra
sul fianco della ragazza, delicatamente. Iniziarono a ballare,
occhi negli occhi.
- Sei sicura? – sussurrò
lui, - Perché è alto il tuo futuro marito, e forte. Non vorrei farlo arrabbiare
-
Elisabetta scosse piano la testa,
bisbigliando anche lei:
- Sicura. E poi non è qui, o
sbaglio? -
Michele respirava a fatica, il
battito così forte da essere probabilmente udibile in tutta la sala.
Non sapeva perché era lì, perché
stava ballando con una donna fidanzata. Non voleva saperlo. La sola cosa che
invece voleva sapere era perché lei gli facesse quell’effetto.
Si accorse in ritardo delle dita
di lei che gli sfioravano la fronte. Non aveva scorto in tempo il movimento e
trasalì mentre lei gli scostava con delicatezza la frangia dall’occhio.
Michele si sentì arrossire, colpito in quello che era il suo punto debole.
Eppure Elisabetta lo sorprese ancora una volta.
- Hai degli occhi bellissimi
– mormorò, le labbra distese.
Il ragazzo sorrise in risposta,
cercando le parole migliori per ricambiare. Lei però non lo guardava più.
Si voltò, controvoglia, per
seguirne lo sguardo. Vide un uomo sui cinquanta, decisamente alticcio, che si
dirigeva verso di loro. Aveva i capelli neri, con qualche ciocca bianca, il
fisico asciutto, gli occhi cattivi.
Sorrise, una volta che li ebbe raggiunti.
Un sorriso falso. Ipocrita.
- Scusate il disturbo. Non
sapreste per caso dirmi dov’è mio nipote? – chiese, la voce grave.
Elisabetta si scostò da Michele,
smettendo di ballare.
- Sergio? – chiese, la mano
ancora in quella del ragazzo – No, mi spiace, l’ho perso di vista -
- Non preoccuparti cara, lo
troverò – rispose quello, allontanandosi svelto.
Michele aveva seguito lo scambio
di battute, cercando al tempo stesso Gabriele con gli occhi. Non lo trovò.
Dove diavolo si era andato a
cacciare? Si guardò attorno, perlustrando la sala. Niente.
- Ci sono altre stanze? –
chiese ad Elisabetta.
- Su questo piano? –
Michele annuì, lasciandole la
mano. Non andava bene. Non era possibile che fosse andato a…
- Mi sembra che ce ne sia
un’altra – rispose lei, pensando – Nel corridoio, ma ci si
può accedere da lì -
Elisabetta gli indicava una porta
a vetri laterale. Sul fondo destro della sala.
Michele annuì, improvvisamente
teso. Doveva andare. Subito.
- Cerchi qualcuno? – chiese
lei, un po’ delusa.
- Devo trovare qualcuno.
Assolutamente- rispose, muovendo già qualche passo – Scusami –
Elisabetta scosse la testa,
facendogli capire che non era niente, ma lui già non la guardava più. Con
lunghe falcate attraversò la stanza, dirigendosi verso la porta a vetri. Sentiva
come un serpente dentro di sé.
Un serpente che aveva iniziato ad
agitarsi. Si muoveva, instancabilmente. A momenti lentamente, altri con forza.
E sembrava star risalendo lungo il suo stomaco. Era paura quella che sentiva.
Probabilmente era in quella stanza
che Gabriele si sarebbe suicidato. Probabilmente. Ma come? E perché?
Si maledisse lungo tutto il
percorso per non aver continuato a leggere quel dannato articolo.
Quando raggiunse la porta lo vide,
dietro di essa. E sospirò. Era vivo. Almeno per ora.
La porta era aperta, così fece per
entrare. Fu in quel momento che se ne accorse. Gabriele non era solo.
La stanza era piccola e per niente
illuminata: l’unica illuminazione proveniva dalla sala grande.
Non c’erano mobili e
Gabriele inizialmente gli era sembrato l’unico occupante. Riusciva appena
a scorgerne le spalle. Ci aveva messo un po’ ad accorgersi
dell’altro movimento: c’era qualcuno, appoggiato al muro, che
parlava con Gabriele. Michele aguzzò lo sguardo, poggiandosi con la spalla allo
stipite della porta.
Forse non sarebbe dovuto essere
lì, non avrebbe dovuto vederli né ascoltare la loro conversazione. Del resto
parlando in forse, non si arrivava a niente di concreto.
- Mi continuo a chiedere per quale motivo sei venuto, Lele -
Un sussurro, appena un sussurro.
Michele tuttavia lo sentì e riconobbe la voce. Sergio.
- Lo sai, no? Sono masochista di
professione – rispose Gabriele, il sorriso nella voce. Solo nella voce.
- Non sei l’unico a soffrire
però. Lo vuoi capire o no?! –
Sergio si era staccato dalla
parete, avvicinandosi di qualche passo all’altro ragazzo.
- Ah, no? Vorresti dire che soffri
anche tu? Il grande Sergio prova anche emozioni, adesso? -
Provocazione, rabbia, ma
soprattutto afflizione e turbamento. Ecco cosa Michele aveva avvertito.
Socchiuse gli occhi per osservare meglio la scena: si erano invertiti di
posizioni adesso. Gabriele, mani nelle tasche, arretrava lentamente verso la
parete. Sergio, l’espressione imperscrutabile, lo incalzava.
- Perché lo stai facendo, allora?
– domandò Gabriele, emettendo appena un soffio.
Sergio continuò a tallonarlo, la
mano sinistra stretta a pugno. E fu con quella mano che colpì la parete, a
pochi centimetri dal volto di Gabriele.
- Perché devo,
Cristo! – sbottò, piegandosi poi verso di lui. I visi ormai quasi si
toccavano.
Michele vide i loro occhi
rincorrersi e alla fine trovarsi. I respiri incatenati, i corpi uniti nel
dolore.
- Non devi – mormorò
Gabriele, il tono diverso, dolce, quasi supplichevole.
- Andiamocene. Adesso. Vieni via.
Con me –
La risata che partì subito dopo
quelle parole appassionate era l’ultima cosa che Michele si sarebbe
aspettato di sentire in quel momento. Men che mai visto che partiva dalle sue
spalle.
Era una risata di scherno.
Cattiva. Orrenda.
Michele si sentì spintonare e un
uomo lo superò, entrando nella stanza. Lo riconobbe subito, nonostante non lo
avesse guardato in faccia. Era l’uomo di prima, quello che cercava
Sergio. Lo zio di Sergio.
- Ma che bravi! – esclamò,
applaudendo le mani sarcasticamente – E’ una recita? -
I due ragazzi si erano separati,
allontanandosi di poco l’uno dall’altro. Non si guardavano.
- Zio – mormorò,
Sergio, guardandolo cupo.
L’uomo sogghignò,
avvicinandosi di un passo. Allargò le braccia, con fare di impotenza e
incredulità.
- Prima ero fiero di te, sai? Di
essere chiamato zio – fece una pausa, per poi riprendere – Ora
invece, no. Posso tornare ad esserlo, però. Tu ora prendi la porta e vai in
sala. Dalla tua futura moglie -
Un tono perentorio. Caustico.
Terrificante.
- Vai, Sergio - concluse lo zio,
senza smettere di guardarlo.
- Non posso –
Non era stata una replica, ma una
semplice constatazione. Un qualcosa che gli era uscito da dentro.
- Hai ragione – rispose lo
zio, - Non puoi, devi -
Michele sapeva di essere
invisibile agli occhi dell’uomo, che sembrava non averlo notato neanche
nel momento in cui lo urtava. Si limitava perciò a guardare i due ragazzi, non
sapendo cosa altro fare.
Le ultima parole riecheggiarono
nella stanza, procurando un’eco che risvegliò il serpente che sembrava
aver finalmente trovato pace nello stomaco di Michele. Il senso di disagio
ricominciò a crescere, fino a formare un groppo amaro nella gola del ragazzo. E
le espressioni degli altri due non aiutavano.
Se sul volto di Gabriele si era
accesa appena una luce di fastidio, su quello di Sergio era divampato un fuoco
di collera incontenibile. Il giovane fece un passo indietro, nella direzione di
Gabriele.
- Non ho alcuna intenzione di
tornare in sala – disse Sergio, senza la minima traccia di indecisione
nella voce. Lo zio gli sorrise, alzando gli occhi al
cielo. Nessuno si accorse del movimento della sua mano.
- Lo farai, invece – ribattè, sicuro di sé. Sergio scosse la testa, con
caparbietà e irriverenza.
- Che fai altrimenti? –
chiese, sfidandolo.
La mano destra dell’uomo
che, senza essere vista, si era spostata verso la tasca interna della giacca,
si alzò in quel momento impugnando una pistola. Piccola, nera e
tutt’altro che innocua.
- Uccido il tuo amichetto –
rispose lo zio, rivolgendo la canna verso Gabriele.
Michele boccheggiò, non riuscendo
più a pensare con razionalità. Non doveva andare così. Gabriele non doveva
essere ucciso. No. C’era qualcosa di sbagliato, porca miseria! Fece per
muovere un passo ma le gambe non gli ubbidivano più. Tornò ad osservare la scena:
Gabriele non si era mosso, solamente il sangue aveva preso a defluirgli dal
viso, lasciandolo pallido più di quanto già era. Sergio invece tremava,
schiumante di rabbia. La collera di prima sembrava uno scherzo in confronto a
quella che c’era ora.
- Non lo farai – sibilò, i
pugni stretti e i denti digrignati.
- Sei tu che mi costringi –
rispose lo zio, con ovvietà, senza abbassare la pistola – Stai
dimenticando la tua famiglia, Sergio. Non si fa. Non è corretto. Tu devi
sposarti –
Sergio mosse un passo verso lo
zio, la cui mano salda teneva ancora sotto tiro Gabriele.
- Perché?- chiese il ragazzo,
cercando di prendere tempo e pensare.
- Perché sì. Perché è della
famiglia Tersi che parliamo. Una famiglia importante. E noi Vittori
abbiamo bisogno di loro, che tu lo voglia o meno
– spiegò, vagamente. Sergio scosse la testa, abbassando gli occhi.
- Io non ho bisogno di loro
– affermò – Tu invece sì, vero? Sono vere le voci, allora? E’
te che cercavano gli esattori?- Lo zio sorrise, annuendo con un sorriso malato.
- Esattamente – disse
– Vedi che sei un ragazzo intelligente. Ora torna in sala –
Sergio scosse la testa. –
Non ne ho la minima intenzione –
- E allora mi costringi ad
eliminare il tuo amichetto. Così non avrai più distrazioni – concluse
l’uomo.
- Tu sei pazzo – inveì il
giovane, mentre il dito dello zio premeva sul grilletto.
Michele iniziò a tossire, sentendo
il dolore aumentare nel petto. Con terrore lo riconobbe, lo aveva già provato.
Sgranò gli occhi sempre più, sperando di sbagliarsi. Non fu così.
L’immagine sbiadiva sotto il suo sguardo e i suoni si attutivano. Michele
gridò, vedendo come in un fotogramma la figura di Sergio lanciarsi davanti a
quella di Gabriele. Il rumore dello sparo gli trafisse le orecchie, ma lui non
riuscì a vedere niente.
Era tornato al buio, era di nuovo
seduto. Sentiva puzza di bruciato attorno a sé, la sensazione di freddo,
l’odore fastidioso della polvere e quello della cera. E sentiva il peso
di qualcosa sulle gambe irrigidite.
Una vibrazione gli
percorse la gamba, a stento e con mano tremante ne estrasse il cellulare. Ne
osservò il piccolo schermo, il nome di Luciano che vi lampeggiava. Non rispose.
Studiò la soffitta attorno a sé, la candela ormai spenta, i fogli sparsi. Aprì
lo slide del cellulare ma solo per fare luce. L’articolo…
L’articolo di cronaca era
cambiato.
“ Tragedia alle nozze.
Samuele Vittori, zio dello sposo, assassina Gabriele Gertiso, semplice invitato. Apparentemente la causa
potrebbe essere momentanea infermità mentale, ma Vittori afferma di…”
Michele lasciò cadere il
cellulare, il foglio di giornale che gli scivolava dalle mani.
- No, no, no! Porca della miseria, non doveva andare così! No! – continuò a
gridare, fissando con occhi lucidi e labbra tremanti la foto di Gabriele. Era
morto. Sembrava che in un modo o nell’altro dovesse morire… No! Michele
afferrò l’immagine con entrambe le mani. Doveva morire…
Chiuse gli occhi, sperando di
risentire quel dolore cui ormai anelava. Voleva ritentare, cambiare le cose.
Il dolore non venne. Respirava
normalmente. Senza problemi.
- Devi sbrigarti -
Michele serrò ancora di più gli
occhi. Stava sognando. Non poteva essere la voce di Giulia.
- Hai poco tempo – continuò
la voce, tranquilla.
E a quel punto Michele spalancò
gli occhi. Era seduto. Davanti al viso gli occhioni di Giulia, sorridente.
Sentì la musica, il vociare degli
invitati… e scattò in piedi. Non aveva tempo. Non aveva il tempo di
riflettere, né sul fatto che non aveva sentito dolore né su ciò che aveva detto
la bambina.
Poteva solo correre. E lo fece.
Attraversò la porta a vetri senza
frenare, fermandosi solo quando ebbe raggiunto i due ragazzi. Si aspettava di
trovarli vicini, oppure di scontrarsi con lo zio di Sergio, o ancora di
trovarne uno morto. Invece no.
Ancora non avevano cominciato a parlare.
Si voltarono entrambi verso
Michele, guardandolo interrogativi e confusi. Lui prese a parlare, subito,
senza pensare o riprendere fiato. Gridava quasi.
- Dovete andarvene. Ora. Non
pensate, non parlate. Andate via e basta! -
I due lo fissarono come se avesse
perso il senno. Probabilmente è vero, pensava Michele, ma andatevene…
- Che stai dicendo? – gli
chiese Gabriele, basito.
- Che se avete degli attributi è
il momento di cacciarli! Andatevene! Per favore… -
Sergio scambiò un’occhiata
con Gabriele, sconvolto quanto e più di lui.
- Eccoti finalmente. Cos’è,
un ritrovo fra amici? Torna in sala Sergio, Elisabetta ti aspetta -
Michele si voltò con il cuore in
gola, lo sguardo fisso in quello dell’uomo appena entrato.
Non era possibile. Perché…?
La conversazione che seguì si
svolse senza che lui ne prendesse parte. Sergio si rifiutò, di nuovo. Lo zio
estrasse la pistola, di nuovo. E la puntò su Gabriele, di nuovo. Non
c’era niente da fare, in qualunque modo la metteva sembrava che qualcuno
dovesse morire… Michele in quel momento capì, illuminandosi.
- Spari – disse, sotto tre
paia di occhi incredule, - Mi spari se ne ha il coraggio -
Era come se la sua lingua avesse
fatto tutto da sola. Come se avesse capito prima ancora di lui.
Qualcuno doveva morire. Lui
poteva? Lui, che avrebbe assistito a tutto poi, poteva morire?
Non lo sapeva. Era questa la
domanda.
Lui che apparteneva a
un’altra epoca, avrebbe dovuto ritornarci. O
poteva morire?
L’uomo sorrise, sardonico,
spostando la canna della pistola verso Michele.
Probabilmente allora poteva
morire.
Michele questa volta aveva ancora
il pieno controllò di sé, delle sue azioni, della sua mente. Eppure non aveva
paura, non scappò, non si mosse. Semplicemente soffiò verso l’alto per
scostare i capelli dall’occhio.
Fissava le pupille dilatate
dell’uomo che aveva davanti.
Avvertiva la presenza della canna
della pistola che incombeva su di sé.
Sentiva i respiri accelerati dei
ragazzi alle sue spalle.
L’unica cosa di cui non si
accorse fu quella che lo avrebbe salvato.
Non vide la bottiglia fino al
momento in cui si abbatté dietro la nuca dell’uomo che lo minacciava.
Lo colpì brutalmente. E lui cadde
rovinosamente, quasi senza far rumore. La pistola abbandonata accanto…
Accadde al rallentatore. Poi tutto riprese a scorrere normalmente, se non più veloce di
prima.
Sergio e Gabriele lo superarono a
passo di corsa, il primo fiondandosi sullo zio e il secondo afferrandone la
pistola. Guardavano Michele di sfuggita, alternativamente. C’era solo
riconoscenza nei loro sguardi.
Michele però non se ne accorse,
gli occhi puntati su chi lo aveva salvato.
Attraversò rapido la stanza,
raggiungendo Elisabetta. Lei si appoggiò a lui, tremante. Si lasciò guidare
fuori, verso i tavoli, verso la luce. Michele le stringeva la mano, cercando di
trasmetterle sollievo, supporto…
- Grazie -
Solo questo riuscì a dire,
bisbigliandolo all’orecchio di lei. Si erano fermati, al limitare
dell’immensa sala
festosa. Elisabetta, spalle al muro, fissava assente il ragazzo
che aveva di fronte.
Michele con una mano le portò una
ciocca di ricci dietro l’orecchio, perso negli occhi blu di lei.
- Aveva una pistola –
mormorò lei, ancora scossa.
Il ragazzo annuì, avvicinandosi di
più a lei, quasi temesse di vederla svenire da un momento all’altro. Calò
il silenzio fra di loro, contrastante e per questo più
vivo del chiasso opprimente che li circondava.
- Sono andati via? –
Elisabetta lo aveva chiesto con un
filo di voce, il tremore del corpo che aumentava, seguito dalle labbra.
Michele non ebbe bisogno di
chiederle di chi parlasse. La guardò negli occhi e capì che sapeva.
- Perché lo hai fatto? –
chiese, riferendosi al matrimonio.
Se sapeva di Sergio e Gabriele,
perché mai aveva accettato di sposarlo?
Lei si strinse nelle spalle, gli
occhi che si riempivano di lacrime pronte ad essere versate.
- Potrei dirti qualunque cosa
– sussurrò, mordendosi le labbra.
- Ma la verità è che ne sei
innamorata – finì per lei Michele.
Una prima lacrima si fece strada
fra le ciglia della ragazza, rigandole la guancia.
- Sono una stupida – disse
lei, mentre altre lacrime seguivano il percorso della prima. Tante, troppe.
Michele scosse la testa,
prendendola fra le braccia. La strinse forte, cullandola. Le carezzava i
capelli, baciandole le palpebre chiuse, quindi le guance bagnate.
- No, no non lo sei –
rispose, bisbigliando, all’orecchio della ragazza.
Lei si lasciò stringere di più,
gettandogli le braccia al collo ed affondando il viso sul suo petto. I
singhiozzi si andavano affievolendo, Michele allora con due dita le sollevò il
viso, costringendola a guardarlo.
- Non lo sei – affermò,
sicuro.
Studiò quegli oceani azzurri, ora
increspati, che lo osservavano curiosi e affranti. Si distrasse, perso nella
contemplazione delle labbra arrossate e sorrise… come gli sarebbe piaciuto
potersi innamorare di lei.
Attese solo qualche altro secondo,
immergendosi nel profumo di lei, ascigandole con i pollici le lacrime non
ancora scese, poi la baciò. Con ardore, desiderio e disperazione. Giocò con le
sue labbra, tuffandosi in esse.
Il bacio più bello che avesse mai
dato.
Sapeva di more, di liquore e di
sale.
Sapeva di lei, della festa e del
dolore.
Sapeva di loro.
Michele aveva chiuso gli occhi,
così come aveva fatto Elisabetta. Quando però si sentì tirare un lembo della
giacca dovette riaprirli. Si staccò dalla ragazza, girandosi verso chi lo aveva
chiamato. Giulia.
Lo salutava con la mano,
allontanandosi all’indietro.
Era il momento dell’addio.
Michele tornò a guardare
Elisabetta. Lo fissava, gli occhi fermi e carichi di
triste consapevolezza.
- Devo andare – disse lui,
prendendole le mani per sciogliere l’abbraccio.
Lei annuì, carezzandogli il viso.
Michele si piegò un’ultima volta verso quel viso incredibilmente bello.
- Addio -
Lo avevano sussurrato insieme,
allontanandosi l’uno dall’altra.
Michele fece dietro front, pronto a sparire, ad uscire definitivamente di
scena. E così accadde.
Senza che sapesse come era di
nuovo in soffitta, la vibrazione del cellulare unico rumore. Un venticello
freddo entrava nella stanza, tagliandola per intero. Michele sorrise al buio,
gli occhi lucidi.
Afferrò il cellulare, dirigendo la
luce sull’album. Guardò prima il giornale: l’intera pagina era
cambiata.
“ Annullato all’ultimo
momento il matrimonio Vittori - Tersi. Cause
sconosciute. Nozze che si sarebb…”
Michele rise, da solo. Una risata
liberatoria, di sollievo. Una risata che veniva dal cuore.
Ripiegando il giornale guardò la
foto, quella della pagina precedente, quella in cui non conosceva nessuno.
Ora non era più così. Conosceva
qualcuno, nella folla di persone.
Vide Gabriele e Sergio, al centro,
il braccio l’uno sulle spalle dell’altro. Elisabetta, alla sinistra
di Sergio, la mano in quella del ragazzo. Non si vedeva il blu degli occhi,
sostituito da uno spregevole nero, ma erano quegli occhi. Quelli di cui stava
per innamorarsi, quelli di cui forse si era innamorato… E vide Giulia,
con il suo caschetto e il suo vestitino di tulle, al centro, fra tutti gli
invitati. Giulia che faceva l’occhiolino.
Lo salutava anche attraverso la
foto.
Michele chiuse l’album, con
mani tremanti. Il cellulare squillava ancora. Fu per stanchezza che lo prese,
decidendosi a rispondere. La voce di Luciano gli perforò l’orecchio,
invadente.
- Stai bene? Sei
vivo?! Santo Dio, Michè, mi stava venendo un
infarto! E’ la quinta volta che chiamo in mezz’ora, perché non
rispondevi?! – gridava, ma Michele lo ignorava.
Si alzò, poggiando l’album
sul mobile dietro di sé. Dovette reggersi, aspettando che la circolazione si
riattivasse nelle gambe. Stava per rispondere alle domande che l’amico
ancora gli rivolgeva quando improvvisamente si ricordò di una cosa. Piegandosi
sulle ginocchia aprì il penultimo cassetto del mobile.
E la vide, lì dove l’aveva
vista. Una bottiglia, una bottiglia di liquore.
La prese, soffiando per togliere la
polvere. E lesse.
Winter Allory
Michele sospirò, rimettendola a
posto. Sogno o non sogno…
- Non avevo sentito il cellulare,
Luciano – rispose, senza davvero intendere. Non ancora cosciente.
- Sicuro di star bene? – chiese, preoccupato
– Vuoi che ti raggiunga? –
Michele ridacchiò, chiudendo il
cassetto e avviandosi piano verso le scale che lo dovevano riportare al piano
di sotto. Luciano era sempre Luciano, anche a distanza di secoli.
- Sono sicuro. Sto bene –
mormorò, scendendo gli scalini.
- Ma è successo qualcosa? Sei
inciampato in una motosega? –
- Nessuna motosega –
Michele afferrò la corda fra le
dita e sollevò un po’ la scala pieghevole.
Lanciò un’ultima occhiata al
buio, alla forma indefinita di ciò che si nascondeva lì sopra…
… e sorrise, spingendola e
lasciando che finalmente si chiudesse.
Ci sono segreti che è meglio non scoprire.
Ci sono segreti che è meglio non avere.
E ci sono segreti che è meglio lasciare al tempo, perché quello sono.
Segreti del
Tempo…
Non sempre però, è
il Tempo ad avere la meglio.
*