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Autore: miseichan    30/08/2011    4 recensioni
Ci sono segreti che è meglio non scoprire.
Ci sono segreti che è meglio non avere.
E ci sono segreti che è meglio lasciare al tempo, perché è ciò che sono.
Segreti del Tempo.
Genere: Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Segreti del Tempo

 

Ci sono segreti che è meglio non scoprire.

Ci sono segreti che è meglio non avere.

E ci sono segreti che è meglio lasciare al tempo, perché quello sono.

Segreti del Tempo.

 

Tell me what you want to hear 
Something that were like those years 
Sick of all the insincere 
So I’m gonna give all my secrets away 
This time, don’t need another perfect line 
Don’t care if critics never jump in line 
I’m gonna give all my secrets away 

 

 

“Non voglio avere più niente a che fare con te

- Ha detto proprio così? –

- Esattamente – rispose Michele, il tono di voce incolore. Attizzò il camino, prendendo posto sul divano ed aspettando una qualche reazione dall’altro capo del telefono.

- Mi dispiace – era stato appena un sussurro quello di Luciano. Un mormorio indefinito.

Michele si strinse nelle spalle, immaginando l’espressione al tempo stesso preoccupata e divertita dell’amico. Luciano era fatto così. Non riusciva a restare serio a lungo.

- E di cosa? Non sei stato tu a lasciarmi -

- Non ha avuto molto tatto, eh? – chiese l’altro, ridacchiando.

- Tatto? No, non direi proprio –

Michele sospirò, stringendo convulsamente le dita attorno al telecomando del televisore.

Con un gemito poi lo lasciò, afferrando invece il cucchiaio.

- Non ci pensare, Michele -

Lui rise, di una risata isterica. Come diavolo faceva a non pensarci?

- E’ un bene in fin dei conti. Non è quello che volevi anche tu? Non eravate fatti l’uno per l’altro, vedila così. Prima cominci a vedere altre persone meglio è, fidati -

Michele ebbe l’improvviso impulso di chiudere la conversazione. Riuscì a trattenersi.

- Meglio? Credi ci sia qualcosa di positivo in tutto questo? Mi ha lasciato, Luciano. Per telefono! In meno di dieci minuti, senza lasciarmi aprire bocca. Per telefono! – gridò, agitando il cucchiaio.

- Lo hai già detto – ribattè l’altro, pacato.

Michele si accasciò sui cuscini, vinto.

- Cosa? – chiese, chiudendo gli occhi per l’esasperazione.

- Che ti ha lasciato per telefono – rise l’altro.

- Credo sia la parte più importante –

- Importante o deprimente? – si informò Luciano, svagato.

Michele sospirò, arreso.

- Entrambi -

Luciano grugnì in segno di assenso, ponderando bene cosa fosse più giusto dire poi.

- Che fai? – chiese alla fine, improvvisamente attento.

- Meditavo il suicido

- Bene. Ti consiglio il veleno – concordò, rilassandosi.

- Non saprei dove trovarlo e… - si interruppe, continuando poi a voce più alta – porca miseria, no!-

- Che succede? E comunque posso sempre procurartelo io, eh? L’arsenico va bene? –

Michele aveva continuato ad imprecare, borbottando parole irripetibili.

- E’ andata via la corrente e che cacchio! – esalò alla fine, stizzito e incollerito.

- Strano. Da me c’è. Vuoi venire qui? –

- No. Mi ero già organizzato e che diavolo! – ribattè, contrariato.

Luciano aspettò che continuasse, cosa che l’altro non fece.

- In che senso? -

- Nel senso che avevo acceso il camino, preso il gelato e messo “Frankenstein Junior” nel dvd! –

Dopo qualche istante di silenzio una risata contagiosa esplose da parte di entrambi i ragazzi.

- Fattelo dire, Michè. Se il film fosse stato “I segreti di Brockeback Mountain” avrei cominciato a preoccuparmi seriamente per te – chiocciò Luciano, non riuscendo a trattenersi.

Michele sorrise, rilassandosi poco a poco. Poggiò la vaschetta di gelato ai piedi del divano e lasciò lì anche il cucchiaio. Niente film niente dolce. Sospirando si sdraiò scompostamente.

- E allora cosa hai intenzione di fare? – continuò l’altro, tornando alla carica.

- Non lo so ancora – rispose, lasciando che lo sguardo si perdesse. Fissò le fiamme, i giochi di luce che si creavano, il fumo che saliva, lento ed incoerente. Si distrasse, rapito dalle ombre che si rincorrevano sul tappeto, arrivando a lui, pronte a catturarlo nella loro lotta sfrenata.

- Michele? – si sentì richiamare, riportato bruscamente alla realtà.

- Sì? –

- Sicuro di star bene, amico? – chiese Luciano, prendendo in considerazione l’idea di raggiungerlo.

Michele avvertì la preoccupazione nascosta nel suo tono e cercò di sembrare vivace.

- Certo! E sai che faccio, visto che sono tagliato fuori dal mondo? -

- Ti uccidi per davvero? –

- No. Vado ad ordinare la soffitta – rispose, alzandosi a fatica in piedi.

Luciano rimase momentaneamente senza parole, stentando a credere a quello che aveva sentito.

Michele ne approfittò, dirigendosi prudentemente verso la credenza della cucina. Con una certa esitazione frugò fra i contenitori delicati e i libri antichi, riuscendo alla fine a trovare quello che stava cercando.

Le candele.

- Non mi morire, Michè

Riprestò attenzione all’amico, tentando di capirne la logica.

- Sono l’ultima persona con cui hai parlato. Se lassù, come nei migliori film horror, un pazzo con la motosega ti fa a fettine non ci tengo ad essere sospettato – spiegò Luciano, sarcastico.

- Starò attento alle motoseghe, allora –

- Bravo. Sicuro non vuoi che venga? – tentò ancora, non convinto.

- Ci saranno i ragni, lassù –

Luciano squittì, mugugnando qualcosa.

- Divertiti, Michele -

- Cercherò – rispose, chiudendo lo slide del cellulare.

Un sorriso incerto sulle labbra, attraversò il salone, diretto alle scale. Non avrebbe saputo dire come gli era venuta quell’idea. Non era da lui. Proprio no. Eppure stava salendo, candela alla mano.

Cos’era stato a spingerlo?

Probabilmente l’assenza di altre possibilità: niente televisore, niente computer, niente luce.

L’ultima spiaggia sarebbe stata fare un pisolino sul divano, idea non così malvagia vista l’ora tarda.

E invece no. Da testa matta quale era aveva deciso di andare a mettere il naso nella soffitta di famiglia.

Era arrivato all’ultimo piano, proprio sotto la scaletta che gli interessava. Saltò, cercando di afferrare la corda che pendeva dal soffitto. Al terzo tentativo vi riuscì, stringendo saldamente la presa.

La tirò a sé, con uno sforzo notevole. Diversi respiri e cigolii dopo la scaletta in legno era stata aperta, tirata interamente verso il basso. Michele sollevò lo sguardo, cercando di scorgere qualcosa.

Non era facile: dopo l’ultimo scalino vi era solo il buio. Il nero più totale.

Si disse che quella era l’ultima opportunità per cambiare idea e fare dietrofront. Non aveva neanche finito di pensarlo che già aveva preso a salire, tenendo in equilibrio precario la candela.

Il fascio di luce era esile, quasi irrisorio. Illuminava a stento qualche palmo oltre la sua figura.

Mosse qualche passo su quel pavimento a lui nuovo con cautela, temendo di sentirselo franare sotto i piedi. Fu con un sorriso che lo identificò quale solido parquet di noce. Non rischiava di sfondarlo, se non altro. Alzò la candela, cercando di vedere qualcosa di più. Riusciva a scorgere poco: pile di scatoloni, ragnatele, cianfrusaglie ovunque. Dominava il disordine più totale.

Ricordava di essere stato lì solo anni prima, dieci anni prima per la precisione, quando i nonni erano ancora vivi. Era salito con loro, eccitato come un esploratore alla sua prima ricerca.

Ora non riusciva a provarla quell’eccitazione, riservata forse solo ai bambini di otto anni.

Camminò, muovendosi con cautela, diretto alla parete in fondo. Se non ricordava male, avrebbe dovuto esserci… sì, c’era: scorse il piccolo lucernario sopra di sé con un moto di esaltazione. Lo aprì, facendo fronte alla resistenza del tempo, per lasciar entrare l’aria fresca e pulita della notte.

Il fascio di luce lo investì in pieno. Chiara, quasi bianca, lo inondò.

Guardò lo spicchio di luna che sembrava sorridergli, bianco e lucente al punto da far impallidire le stelle. A malincuore gli voltò le spalle, tornando ad osservare la soffitta: riusciva a vedere meglio adesso. Non era sicuro che fosse meglio, con quella luce che rendeva tutto ancora più spettrale, ma non se la sentì di lamentarsi. Si aggirò in quello spazio ridotto, attento a non urtare con la testa le travi in legno non così distanti del tetto, togliendo con mano sicura le ragnatele che gli intralciavano il cammino.

Da dove cominciare?

Si fermò, girando più volte su se stesso. Non aveva davvero intenzione di mettere in ordine. Per quello ci sarebbero volute ore, se non giorni. No, semplicemente gli andava di mettere il naso in quelle che, in fondo, erano cose di famiglia. La casa era la sua, no? Da poco meno di un anno, ma l’aveva ereditata.

Era suo diritto perciò, o meglio, poteva sicuramente farlo. Nessuno glielo impediva.

Sorrise, rendendosi conto di star delirando. Con un atto di coraggio si avvicinò ad un vecchio mobile: in legno, ricoperto di polvere, sembrava perfetto a creare l’ambientazione da casa dei fantasmi. Aprì i cassetti, uno alla volta, rovistando tra le tovaglie bucate e le posate d’argento sbiadite. Nell’ultimo a destra lo trovò: un piattino in porcellana. Vi fece colare un po’ di cera per posizionarvi quindi la candela.

Poggiandola sul ripiano si accorse dello specchio poco lontano: con la coda dell’occhio vide il riflesso della fiammella e si voltò, rischiando di sbattervi contro. Era grande, a figura intera. Si guardò, diciottenne pallido e distrutto. Appena lasciato dalla ragazza, pupille dilatate, labbra socchiuse. Era proprio lui.

Soffiò verso l’alto, scostando la ciocca di capelli neri che come al solito gli cadeva davanti agli occhi. Non lo faceva spesso, impedendo così agli altri di accorgersi di quella piccola discordanza di colore. In pochi lo sapevano. In pochi avevano avuto l’onore di vedere entrambi gli occhi: uno verde e l’altro azzurro. Luciano era tra questi e gli aveva assicurato più volte che quasi non si notava: i colori erano così lucidi e chiari che sembravano della stessa tonalità. Lui però si era affezionato alla frangia e la lasciava lì, incurante.

Prese un bel respiro e si diresse verso la montagna di scatoloni. C’era una panca, con dei cuscini, su cui avrebbe potuto sedersi. Michele preferì non farlo, afferrando solo un cuscino. Lo sbattè, togliendo un po’ di polvere e gli eventuali animaletti occupanti, poi lo lasciò cadere a terra, sedendoci subito dopo.

Piegò le gambe sotto di sé, allungando esitante le dita verso la prima scatola.

Era piena di robaccia: da vecchie scarpe a vestiti inutilizzabili… riviste illeggibili, copricapo bucati, modellini di automobili, vecchie monete, poster e polvere. Soprattutto quella. Pulviscolo. Tanto, troppo.

Starnutì, allontanando il sesto, noioso ed infruttuoso scatolone. Socchiudendo gli occhi sospirò, chiedendosi cosa mai si aspettasse di trovare. Era una soffitta, non l’isola del tesoro.

E lui era Michele, quindi nessuno. Che cosa mai poteva trovare?

Con frustrazione uccise il ragno nero che gli zampettava vicino alla scarpa. Allungò ancora una volta la mano, stringendo le dita sui bordi di un’altra scatola. Era l’ultima, si disse. Se non avesse trovato niente, basta. Fine dei giochi e diritto a letto. Aguzzò la vista, frugando e dividendo. Peluche, cartoline, chiavi, bambole, orologi… niente di niente. Stava per alzarsi quando lo notò. Si confondeva con il fondo dello scatolone: era dello stesso colore, un marrone scambiato e devitalizzato dal tempo, eppure c’era.

Lo prese in mano con poche aspirazioni: era sì un album fotografico, ma a quel punto il sonno stava avendo la meglio su di lui. Lo posò in grembo, troppo stanco anche per soffiar via la polvere. Ne sfogliò le prime pagine con indolenza, osservando senza curiosità foto che conosceva già. Rivide la nonna, il nonno, persino i genitori. Pose classiche, preparate, noiose. Sbadigliò, facendo per chiuderlo. Fu un caso.

Se ne accorse per puro caso. C’era un dislivello. Lo sentì al tatto e, sollevando l’album verso il fioco fascio di luce, riuscì anche a vederlo. Assottigliò gli occhi, rendendosi conto di aver sfogliato solo mezzo album.

L’altra metà era stata incollata all’ultima pagina.

Con una rapida mossa estrasse il taglierino che aveva in tasca e cercò di aprirle, con delicatezza. La colla era stata applicata solamente sugli angoli esterni delle pagine, così da non rovinarne il contenuto.

Cominciò a mordersi l’interno guancia, preso com’era dal lavoro. Dopo qualche minuto lasciò cadere il coltellino, infilando esitante l’unghia del pollice fra le prime due pagine. Ci volle poco: un minimo di pressione e i fogli si separarono. Sorrise, curioso suo malgrado di scoprire il motivo di tanta segretezza.

Dopo aver compiuto la stessa operazione anche con le restanti pagine prese a sfogliarle, sorpreso da come, in confronto con quelle precedenti, sembrassero molto più vecchie. Erano ingiallite, spiegazzate. Davano l’impressione di essere state girate tante e tante volte, prima di essere poi sigillate.

Michele aguzzò la vista, studiando le rare foto che vi erano, rade e quasi insignificanti rispetto alle altre.

Pochissime, sbiadite e rovinate, i bordi sgualciti. Le guardò, non riconoscendo alcun volto.

Immortalavano per lo più singole persone: uomini, donne, bambini. Non ne conosceva neanche uno. Cercò inutilmente di capire a che anno potessero risalire. A parte il fatto che erano tutte in bianco e nero, non era mai presente alcun indizio che lo potesse aiutare nella datazione. Sbirciò ancora per un po’, poi si ritrovò a sbadigliare, senza nemmeno rendersene conto. Si decise così a lasciar perdere.

Chiuse l’album, girandoselo fra le mani, indeciso se lasciarlo lì o portarlo giù con sé.

Quasi non sentì il fruscio. Quasi non si accorse del foglio che cadeva. Quasi non lo vide. Quasi.

Con la coda dell’occhio lo aveva notato però, quel movimento. E rapido aveva riportato lo sguardo ai suoi piedi. Strinse le labbra, confuso. Poggiò di nuovo l’album sulle gambe, allungando le dita verso il foglio.

Era caduto dall’album, probabilmente da una delle pagine a cui non era arrivato. Lo strinse nella mano destra, riaprendo il libro per capire da dove fosse scivolato. Trovò lo spazio vuoto e sbiadito nella penultima pagina, esattamente prima di una grande foto di gruppo conclusiva. La osservò di sbieco, senza prestarvi attenzione. Erano gli stessi visi di prima, sempre quelli che non conosceva.

Così, lasciando passare, si concentrò sul foglio che ancora stringeva. Era piegato in quattro parti, così sciupato da fargli temere che gli si potesse sbriciolare fra le dita. Lo aprì con delicatezza, cauto ed attento.

Lo poggiò sulla foto di gruppo, lisciandolo per leggere meglio: una vecchia pagina di giornale, risalente al 1933. Al 12 novembre del 1933. L’articolo cui era dedicata quasi tutta la pagina era su un matrimonio.

 

“ E’ con grande gioia che annunciamo le tanto attese nozze fra Sergio Vittori ed Elisabetta Tersi. Con una magnifica cerimonia al Desire Hotel, alla quale sono intervenuti non meno di trecento invitati…”

 

Michele si limitò a leggere i primi righi, per poi passare invece al piccolo articolo di cronaca relegato nell’angolo destro della pagina. Non occupava molto spazio, un niente in confronto all’altro articolo, eppure per qualche motivo attirava prepotentemente la sua attenzione.

 

“ Tragedia alle nozze. Uno degli invitati, amico dello sposo: Gabriele Gertiso, si toglie la vita. Suicidio che mai sarebbe stato sospettato, avvenuto a poche ore dalla fine della cerimonia. La polizia elimina con…”

 

Michele interruppe la lettura, distratto dal paio di occhi che lo fissavano attraverso la piccola foto laterale all’articolo. Con un sussulto lesse il nome che vi era scritto sotto: Gabriele Gertiso. Era lui ad essersi suicidato. Lui con quei suoi enormi occhioni scuri così magnetici e tristi. Li fissò per un tempo indefinito, colpito senza sapersi spiegare il perché. Il ragazzo portava i capelli tagliati poco sopra le spalle, sfilzati sul davanti, che gli cingevano dolcemente il viso. Una frangetta lunga e laterale a coprirgli parte della fronte.

Fissava ancora la fronte quando il dolore lo colpì. A sorpresa.

Non se lo aspettava, forte e pungente, proprio nel petto. Era forte, al punto da mozzargli il respiro.

Socchiuse gli occhi, reggendosi con una mano al pavimento.

Cercò di prendere un bel respiro, ma era come se qualcuno lo avesse e stesse ancora prendendolo a pugni nello stomaco. Una fitta più forte delle altre, all’altezza del cuore, dell’intensità simile a quella di una coltellata incandescente, lo costrinse a chiudere gli occhi.

Tentò ancora di respirare, la testa che gli girava vorticosamente. Cosa diavolo…?

E così come era cominciato finì. Di colpo. All’improvviso.

Michele continuò a tenere gli occhi chiusi, sopraffatto da quello che era successo. Non riusciva in alcun modo a spiegarselo, non gli era mai capitato. Sorrise fra se e se, sollevato che in ogni caso fosse tutto finito e, finalmente, si decise a riaprire gli occhi. Il buio.

Questo vide: niente.

Il sorriso gli morì sulle labbra, fulmineo come vi era apparso. Perché non vedeva un accidenti?

Non aveva prestato attenzione al venticello che prima aveva sentito in soffitta, ci pensò in quel momento però, valutando l’idea che la corrente potesse aver fatto spegnere la candela. Decise di alzarsi, così da tentare la sorte. Fece per togliersi dalle gambe l’album ma non lo trovò. Sgranò gli occhi nel buio.

Non c’era niente sulle sue gambe. E il pavimento non era in legno, era in marmo.

Si alzò in piedi di scatto, improvvisamente terrorizzato.

Prese diversi respiri, ipotizzando che forse era solo la stanchezza a fargli brutti scherzi, o, ancora più semplicemente, aveva soltanto perso definitivamente il senno. Mosse qualche passo, cercando un punto di appoggio. Non lo trovò, non quello che si aspettava. Tastò ancora, sperando di sbagliarsi.

Strinse le dita, convincendosi di star toccando scaffali di ferro.

- Eccoti finalmente! -

Trasalì, il cuore che si fermava al suono squillante di quella voce. Si voltò, trasecolato, verso il punto da cui proveniva. Il punto da cui proveniva anche la luce improvvisa.

Realizzò come al rallentatore, canalizzando ogni particolare fin troppo lentamente.

Vide la porta che si era aperta davanti a lui, il viso della bambina che aveva parlato, la stanza sconosciuta.

Non era nella sua soffitta, non era in casa sua. Arretrò, trovandosi ben presto con le spalle al muro. Aprì più volte la bocca per dire qualcosa ma non ne uscì niente al di fuori di rantoli terrorizzati.

La bambina entrò, avvicinandosi a lui sorridente. Aveva un caschetto di lucidi capelli biondi e due enormi e languidi occhi verdi. Lo fissava, il sorriso furbo. Come se niente le sfuggisse. Gli si fermò di fronte.

Gli arrivava appena alla vita, non poteva avere più di sette anni.

- Dobbiamo andare, Michele. Siamo in ritardo – disse, come se fosse lei l’adulta e lui il bambino.

- Dove? – chiese, incredulo, Michele.

Non pensò a chiederle come lo conoscesse, come sapesse il suo nome. Non ragionava, non ci riusciva.

La bimba lo prese per mano, tirandolo con sé fuori la stanza. Michele si lasciò trascinare, fuori di sé. Stranito al punto da non vedere niente al di fuori della nuca della bambina. Nemmeno si accorse di star entrando con lei in un ascensore, se ne rese conto solo grazie al segnale acustico che diedero le porte una volta che si furono chiuse.

Michele trasalì a quel suono inaspettato. Identificò l’ascensore, capì di essere un idiota e ancora non pensò a niente. Vide la bambina che tendeva le braccia verso l’alto, verso di lui, e la prese in braccio. Lei sorrise ancora, arrampicandosi su di lui, premendo le mani sulle sue spalle per raggiungere la griglia con i tasti.

Allungò il ditino, la punta della lingua appena visibile fra le labbra, e premette un tasto. Il 23.

Michele vide il numero che si illuminava, sentì l’ascensore che cominciava piano la salita. Inesorabile.

Scosse la testa, poggiandosi con la schiena alla parete. Non era possibile.

Con due dita si pizzicò, sperando di scoprire che era tutto un sogno, che era tutto falso. Sarebbe stato divertente poi, raccontarlo. Così reale, vivido, da sembrare vero. Si pizzicò ancora, acuendo il dolore.

Non successe niente. Era sempre lì, nell’ascensore, con quella bambina in braccio.

Lei smise di sorridere, passandogli le braccia attorno al collo e avvicinando il viso al suo.

- Devi stare tranquillo -

Michele continuò a fissare quelle iridi verdi, così rassicuranti, e sorrise sarcastico.

- Tranquillo? – chiese, vicino all’isteria.

La bimba annuì, poggiando le manine sulle sue guance. Erano gelate.

- Perché dovrei? Come potrei?! – si accalorò Michele, vicino al panico.

- Tranquillo – ripeté lei, sorridendo di nuovo.

Gli carezzò la guancia, procurandogli un brivido sulla schiena. Tranquillo. Tranquillo. Tranquillo?

Michele sobbalzò, sentendo di nuovo il suono di prima. L’ascensore si fermò, le porte si aprirono. La bimba scese dalle sue braccia, riprendendolo per mano. Fu lei a spingerlo fuori, liberandolo dallo stato catatonico in cui era caduto. Mentre le porte si chiudevano alle loro spalle, lei si sistemò l’ampia gonna del vestito bianco che indossava, portando poi una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio.

- Ora andiamo – disse, sorridendo.

Alle orecchie di Michele suonò come un consiglio, un consiglio cui non poteva disubbidire.

La seguì, percorrendo con il cuore in gola il lungo corridoio deserto. Era poco illuminato, le pareti imponenti e i pavimenti in marmo bianco. Alla fine del corridoio c’era una porta in vetri enorme, da cui filtrava la luce. Michele la fissò, in silenzio. Poi guardò la bambina.

- Sono morto? – chiese, laconico.

- No – rispose lei, ridacchiando divertita.

- Sei sicura? –

Lei annuì, senza guardarlo. Erano ormai arrivati alla porta. Michele sentiva la musica provenire dall’interno della sala, il mormorio indefinito, il profumo di rose.

- Sei a un matrimonio – mormorò la bambina, spingendo la porta.

Michele l’aveva fissata, sentendo la risposta, ma poi risollevò lo sguardo davanti a sé. Dischiuse le labbra, sorpreso da ciò che vedeva. Guardò l’immensa sala, i tavoli imbanditi, il palco con l’orchestra, i fiori… si perse in quel bianco accecante, nel profumo invadente delle migliaia di rose e fra gli invitati.

I tanti invitati, troppi. Persone su persone, sparse nella sala. Michele era pietrificato, le dita strette attorno a quelle della bambina, suo unico punto di riferimento.

- Hai detto che è un matrimonio? –

Non aveva finito la frase che sentì un braccio avvolgergli le spalle. In qualsiasi altra occasione si sarebbe scostato, sorpreso e diffidente. In quel momento però, non riuscì a muoversi di un centimetro.

La presa attorno alle sue spalle aumentò, mentre una voce prorompente gli esplodeva vicino all’orecchio:

- Ti avevo dato per disperso, Michele! -

Quello che aveva parlato gli si piazzò davanti, affibbiandogli una pacca scherzosa sulla spalla.

Michele non riusciva a distogliere lo sguardo dal ragazzo che gli era di fronte, lo fissava, come si fissa un fantasma. Non era possibile. Non stava accadendo.

- Ho dovuto mandare Giulia a recuperarti – berciò il giovane, indicando di sfuggita la bambina.

Lei sorrise, lasciando la mano di Michele. Lui avrebbe voluto fermarla, impedirle di andar via, ma non lo fece. Perché non sembrava esserne in grado.

- Gabriele? -

Era stato lui a chiederlo, senza neanche sapere come. Il sorriso dell’altro ragazzo si smorzò, così come l’espressione dei suoi occhi si fece più seria. Annuì, scostando la lunga frangia dalla fronte.

- Chi altri se no? – chiese, divertito.

Erano neri gli occhi, neri i capelli. Capelli lunghi fino alle spalle, sfilzati davanti. Occhi tristi, di chi porta il mondo sulle spalle. Un viso che aveva già visto. Il volto di un morto.

Gabriele lo prese a braccetto, incamminandosi sicuro fra i tavoli. Passeggiava leggiadro, senza una meta precisa. E parlava, senza che Michele lo ascoltasse. Pensava ad altro Michele.

- In che anno siamo? – chiese, di punto in bianco, interrompendolo.

Gabriele lo guardò, sgranando gli occhi.

- 1933 – rispose, esitante.

- Mese? – continuò, Michele, le labbra che tremavano.

- Novembre –

Gabriele si era fermato, allarmato. Lo fissava, il viso corrucciato.

Michele respirava con affanno, il cervello che andava per conto proprio. Finalmente attivo.

- E’ il 12? – chiese ancora, sicuro questa volta della risposta.

Gabriele annuì, seriamente preoccupato.

- Sicuro di star bene? Sei pallido da far paura. Hai bisogno di qualcosa? – domandò, indeciso e attento.

- Sì – mormorò Michele.

Aveva bisogno di tornare alla realtà, alla sua realtà.

- Qualcosa di forte – suggerì Gabriele, riprendendo a camminare.

Lo spinse verso il tavolo più lontano, verso quello più sfarzoso. Sorridendo si appropriò di una sedia e vi ci fece sedere Michele, tamburellando poi con le dita sul tavolo.

- Qualcosa di forte – continuava a ripetere, concentrato e pensoso. Di colpo si fermò, sorridendo soddisfatto.

- Trovato! – si esaltò, allontanandosi di qualche passo. Tornò poco dopo, una bottiglia in mano.

Era elegante, lunga e sottile. Nera e rossa. Finemente decorata.

La porse a Michele che l’afferrò curioso. Se la rigirò fra le mani, studiandone l’etichetta. Non l’aveva mai vista prima, era convinto non esistesse un liquore del genere.

- Winter Allory – disse Gabriele, orgoglioso.

- Partita unica, liquore eccellente. Sono solo cento bottiglie. Godiamocela – concluse, gli occhi brillanti.

Michele annuì, trovando contagioso il sorriso di Gabriele. Era un bellissimo sorriso, oscurato appena dalla barbetta di pochi giorni. Barba che lo rendeva ancor più luminoso. Afferrò due bicchieri, porgendoglieli.

Gabriele li riempì, con calma e soddisfazione. Prese il suo, avvicinandolo a quello di Michele e lo urtò.

- A cosa brindate? -

Si voltarono entrambi, in direzione della nuova voce. Era pacata, con un pizzico di irriverenza divertita.

Gabriele sospirò, il sorriso che si affievoliva.

- Parli del diavolo… - mormorò, uno strano luccichio negli occhi.

L’altro giovane era ormai vicinissimo, in piedi di fronte a loro. Sorrise, inarcando le sopracciglia in una finta espressione sorpresa. Aveva lunghi capelli biondi, legati in una coda. Un viso tagliente, rasato e ben curato. Gli occhi erano castani, pieni di una luce furba che sembrava farne parte.

- Brindate a me? – chiese, con un sottinteso che Michele non capì. Era come se lui fosse solo una comparsa in quel momento, come se gli altri due stessero tenendo una conversazione silenziosa, che non gli era dato di sapere. Si ritrasse di qualche centimetro, sentendosi più che mai fuori luogo.

- Proprio così – rispose Gabriele, sollevando il bicchiere – a te, Sergio, e alla tua bellissima futura sposa

Michele strinse le labbra, colpito dal tono che aveva usato Gabriele. C’erano tante emozioni racchiuse in quella voce, a mala pena riflesse dagli occhi: dolore, rabbia, frustrazione, risentimento.

Se ne accorse anche Sergio, che arretrò improvvisamente, il sorriso scomparso.

Era un brutto miscuglio quello che teneva in sé Gabriele, Michele lo sapeva, un miscuglio letale.

Si alzò in piedi, lasciando il bicchiere sul tavolo, frapponendosi tra i due. Dava le spalle a Sergio, gli occhi fissi in quelli di Gabriele. Ne catturò l’attenzione sfuggente, la mano ferma sulla sua spalla. Lo fece voltare, sospingendolo piano, lontano da Sergio. Si fermò solamente quando sentì che Gabriele respirava di nuovo.

- Stai bene? – chiese, senza però ottenere risposta. Sospirò, schiaffeggiandolo sulla guancia.

- Bevi – gli ordinò, mordendo l’interno guancia. Gabriele ubbidì, vuotando il bicchiere in un colpo.

Michele gli sorrise, nella speranza vana che l’altro si riprendesse.

- E’ uno stronzo – ringhiò fra i denti, per nulla intenzionato a sorridere. Non c’era bisogno di accennare a chi si riferisse. Michele ripensò alla figura di Sergio e si disse che, sì, ce l’aveva l’aria da stronzo.

- Lo preferirei morto –

Michele si guardò attorno, rispondendo ai sorrisi di circostanza che gli rivolgevano.

- Perché? – chiese, sperando seriamente di ricevere una risposta.

Gabriele sgranò gli occhi, fissandolo con un’espressione impossibile da equivocare. Lui sapeva. O meglio, avrebbe dovuto sapere. Avrebbe dovuto sapere. Ma non era così. Non sapeva.

Gli mancava un tassello importante, fondamentale. Non sapeva perché Gabriele odiava Sergio, perché lo volesse morto e men che meno perché poi, a fine serata, a morire sarebbe stato Gabriele…

Guardò il ragazzo che gli stava davanti, si perse ancora in quei buchi neri e tormentati. Sarebbe morto. No. Si sarebbe ucciso. E lui non sapeva perché. Sentì la rabbia che gli saliva dentro, un’onda improvvisa e perentoria, impossibile da ignorare. Non doveva morire.

- Avete sentito, ragazzi? -

La voce gli giunse ovattata, quando si girò lo fece automaticamente, senza rendersene conto.

Con sorpresa si accorse di non essere più solo con Gabriele, focalizzò il gruppo di giovani che li aveva circondati: visi allegri, colorati dall’alcol, entusiasti ed eccitati. Vedeva le bocche che si muovevano, sentiva le risa ma realizzava poco. Molto poco.

- Si dice che anche gli esattori siano stati invitati – continuò lo stesso ragazzo di prima, la voce impastata.

- Chi lo dice, Vittorio? – chiese, poco interessato, Gabriele.

A rispondere non fu Vittorio, ma un tipo minuto, dall’aspetto cascante, con gli occhi nascosti dagli occhiali.

- Li ho visti – esclamò – erano nella hall, non ho capito cosa e da chi lo volessero, però –

Gabriele rise, innescando un processo a catena che contagiò tutti. Nessuno più prestava attenzione al tipo con i fondi di bottiglia davanti agli occhi. Lui era l’unico a non ridere, risentito per la reazione che aveva scatenato. Si guardava attorno, le braccia incrociate. – Vi dico che è vero – continuava a mormorare.

Michele sorrideva per osmosi, cercò di afferrare la manica di Gabriele ma non fece in tempo. Qualcuno, più veloce, afferrò la sua. Si girò, incontrando gli occhi svegli di Giulia, in piedi di fianco a lui.

- Vieni – disse, sorridente come sempre.

Michele sgranò gli occhi, alzandosi suo malgrado. La bambina lo tirava con dolcezza, guidandolo attraverso la sala, lontano da Gabriele.

- E’ impegnato – disse lei, senza guardarlo.

- Chi? –

- Gabriele – mormorò, con ovvietà – E’ in compagnia, non preoccuparti –

E chi è preoccupato, avrebbe voluto rispondere Michele. Non lo fece, tuttavia, perché qualcosa dentro di sé gli diceva che ad aver ragione era Giulia. Sgusciava rapida ed elegante fra gli invitati, ruotando a destra, scavalcando a sinistra. Camminava, decisa ed imperturbabile.

- Dove andiamo? – si decise a chiedere, Michele.

- Ti devo presentare una persona – rispose lei, un attimo primo di fermarsi, poco lontano dal centro della sala, al tavolo più bello. Vi era seduta una ragazza, dava loro le spalle e Michele riuscì a vederne solo la cascata di ricci biondi che le copriva la schiena.

- Elis – chiamò Giulia, facendo girare la ragazza – posso presentarti un mio amico? –

Michele rimase abbagliato. Schiuse le labbra, pietrificandosi sul posto.

Guardava la ragazza, la più bella che avesse mai visto e si dimenticò di tutto il resto. Era come se in quel momento esistesse solo lei. Lei con i suoi riccioli biondi, con i suoi occhioni azzurri e le sue labbra rosse.

Erano labbra a forma di cuore, labbra che volevano essere baciate.

Michele si morse forte l’interno guancia, cercando di tornare in sé e sentire cosa stesse dicendo Giulia.

- Lei è Elisabetta, mia sorella – spiegò a Michele, ammiccando con un sorrisetto.

La ragazza sorrise, carezzando i capelli della bambina con affetto. Si avvicinò a Michele, tendendo la mano:

- Infastidisci ancora le persone? – chiese, guardando il ragazzo con aria di scuse.

- Solo quelle che devo – rispose Giulia, enigmatica. – Fate i bravi – continuò, allontanandosi rapidamente.

Michele si voltò per seguirla con lo sguardo, la mano ancora stretta in quella della sorella.

- E’ sparita! – disse poi in un singulto.

Elisabetta annuì, con un sorriso sconfortato: - Non so come fa, ti distrai un secondo e non c’è più

Si era alzata, parlando. Michele lo vide solo in quel momento, il battito che improvvisamente aumentava.

Il vestito da sposa.

Si diede dello stupido. Ci poteva arrivare prima. Elisabetta. La sposa.

Sorrise mestamente in risposta all’espressione interrogativa della ragazza. Non c’era niente da dire.

- Che facevi quando Giulia ti ha trascinato via? – chiese lei, decisa a riempire il silenzio.

- Ero lì, con i ragazzi – rispose, indicando il gruppo con un cenno del capo. Elisabetta annuì, interessata.

- Di che parlavate? –

Michele si strinse nelle spalle, accennando un sorriso imbarazzato.

- Esattori – disse, ridendo poi dell’espressione sorpresa di Elisabetta. Lei strinse gli occhi, avvicinandosi.

- Esattori? – chiese, il sarcasmo nella voce – E per chi sono venuti? –

Michele scosse la testa, deciso a non indietreggiare. Incatenato dagli occhi di lei.

- Non lo so – mormorò, la voce spezzata.

Elisabetta sorrise, prendendolo improvvisamente a braccetto.

- Spero non per me – ridacchiò lei, - sarò anche milionaria, ma gli esattori non li sopporto lo stesso -

Michele si irrigidì, non intendendo le intenzioni della ragazza. Sentiva il contatto con il piccolo braccio di lei, il suo profumo, e temette di star per prendere fuoco. Elisabetta cominciò a camminare, tenendolo con sé.

- Cosa…? – chiese Michele, nascondendo la paura nella voce -

- Non mi inviti a ballare? – ribattè lei, mettendo su un finto broncio.

Michele credette di svenire, vedendo il centro della pista avvicinarsi, sentendo la musica farsi più alta.

- Io… non credo sia una buona idea – esalò, gli occhi sgranati.

- Sergio non è il tipo geloso, non temere – scherzò lei, fermandosi e mettendosi in posizione.

Era riuscita a strappargli un sorriso. Michele la assecondò, stringendole una mano e poggiando l’altra sul fianco della ragazza, delicatamente. Iniziarono a ballare, occhi negli occhi.

- Sei sicura? – sussurrò lui, - Perché è alto il tuo futuro marito, e forte. Non vorrei farlo arrabbiare -

Elisabetta scosse piano la testa, bisbigliando anche lei:

- Sicura. E poi non è qui, o sbaglio? -

Michele respirava a fatica, il battito così forte da essere probabilmente udibile in tutta la sala.

Non sapeva perché era lì, perché stava ballando con una donna fidanzata. Non voleva saperlo. La sola cosa che invece voleva sapere era perché lei gli facesse quell’effetto.

Si accorse in ritardo delle dita di lei che gli sfioravano la fronte. Non aveva scorto in tempo il movimento e trasalì mentre lei gli scostava con delicatezza la frangia dall’occhio. Michele si sentì arrossire, colpito in quello che era il suo punto debole. Eppure Elisabetta lo sorprese ancora una volta.

- Hai degli occhi bellissimi – mormorò, le labbra distese.

Il ragazzo sorrise in risposta, cercando le parole migliori per ricambiare. Lei però non lo guardava più.

Si voltò, controvoglia, per seguirne lo sguardo. Vide un uomo sui cinquanta, decisamente alticcio, che si dirigeva verso di loro. Aveva i capelli neri, con qualche ciocca bianca, il fisico asciutto, gli occhi cattivi.

Sorrise, una volta che li ebbe raggiunti. Un sorriso falso. Ipocrita.

- Scusate il disturbo. Non sapreste per caso dirmi dov’è mio nipote? – chiese, la voce grave.

Elisabetta si scostò da Michele, smettendo di ballare.

- Sergio? – chiese, la mano ancora in quella del ragazzo – No, mi spiace, l’ho perso di vista -

- Non preoccuparti cara, lo troverò – rispose quello, allontanandosi svelto.

Michele aveva seguito lo scambio di battute, cercando al tempo stesso Gabriele con gli occhi. Non lo trovò.

Dove diavolo si era andato a cacciare? Si guardò attorno, perlustrando la sala. Niente.

- Ci sono altre stanze? – chiese ad Elisabetta.

- Su questo piano? –

Michele annuì, lasciandole la mano. Non andava bene. Non era possibile che fosse andato a…

- Mi sembra che ce ne sia un’altra – rispose lei, pensando – Nel corridoio, ma ci si può accedere da lì -

Elisabetta gli indicava una porta a vetri laterale. Sul fondo destro della sala.

Michele annuì, improvvisamente teso. Doveva andare. Subito.

- Cerchi qualcuno? – chiese lei, un po’ delusa.

- Devo trovare qualcuno. Assolutamente- rispose, muovendo già qualche passo – Scusami

Elisabetta scosse la testa, facendogli capire che non era niente, ma lui già non la guardava più. Con lunghe falcate attraversò la stanza, dirigendosi verso la porta a vetri. Sentiva come un serpente dentro di sé.

Un serpente che aveva iniziato ad agitarsi. Si muoveva, instancabilmente. A momenti lentamente, altri con forza. E sembrava star risalendo lungo il suo stomaco. Era paura quella che sentiva.

Probabilmente era in quella stanza che Gabriele si sarebbe suicidato. Probabilmente. Ma come? E perché?

Si maledisse lungo tutto il percorso per non aver continuato a leggere quel dannato articolo.

Quando raggiunse la porta lo vide, dietro di essa. E sospirò. Era vivo. Almeno per ora.

La porta era aperta, così fece per entrare. Fu in quel momento che se ne accorse. Gabriele non era solo.

La stanza era piccola e per niente illuminata: l’unica illuminazione proveniva dalla sala grande.

Non c’erano mobili e Gabriele inizialmente gli era sembrato l’unico occupante. Riusciva appena a scorgerne le spalle. Ci aveva messo un po’ ad accorgersi dell’altro movimento: c’era qualcuno, appoggiato al muro, che parlava con Gabriele. Michele aguzzò lo sguardo, poggiandosi con la spalla allo stipite della porta.

Forse non sarebbe dovuto essere lì, non avrebbe dovuto vederli né ascoltare la loro conversazione. Del resto parlando in forse, non si arrivava a niente di concreto.

- Mi continuo a chiedere per quale motivo sei venuto, Lele -

Un sussurro, appena un sussurro. Michele tuttavia lo sentì e riconobbe la voce. Sergio.

- Lo sai, no? Sono masochista di professione – rispose Gabriele, il sorriso nella voce. Solo nella voce.

- Non sei l’unico a soffrire però. Lo vuoi capire o no?!

Sergio si era staccato dalla parete, avvicinandosi di qualche passo all’altro ragazzo.

- Ah, no? Vorresti dire che soffri anche tu? Il grande Sergio prova anche emozioni, adesso? -

Provocazione, rabbia, ma soprattutto afflizione e turbamento. Ecco cosa Michele aveva avvertito. Socchiuse gli occhi per osservare meglio la scena: si erano invertiti di posizioni adesso. Gabriele, mani nelle tasche, arretrava lentamente verso la parete. Sergio, l’espressione imperscrutabile, lo incalzava.

- Perché lo stai facendo, allora? – domandò Gabriele, emettendo appena un soffio.

Sergio continuò a tallonarlo, la mano sinistra stretta a pugno. E fu con quella mano che colpì la parete, a pochi centimetri dal volto di Gabriele.

- Perché devo, Cristo! – sbottò, piegandosi poi verso di lui. I visi ormai quasi si toccavano.

Michele vide i loro occhi rincorrersi e alla fine trovarsi. I respiri incatenati, i corpi uniti nel dolore.

- Non devi – mormorò Gabriele, il tono diverso, dolce, quasi supplichevole.

- Andiamocene. Adesso. Vieni via. Con me –

La risata che partì subito dopo quelle parole appassionate era l’ultima cosa che Michele si sarebbe aspettato di sentire in quel momento. Men che mai visto che partiva dalle sue spalle.

Era una risata di scherno. Cattiva. Orrenda.

Michele si sentì spintonare e un uomo lo superò, entrando nella stanza. Lo riconobbe subito, nonostante non lo avesse guardato in faccia. Era l’uomo di prima, quello che cercava Sergio. Lo zio di Sergio.

- Ma che bravi! – esclamò, applaudendo le mani sarcasticamente – E’ una recita? -

I due ragazzi si erano separati, allontanandosi di poco l’uno dall’altro. Non si guardavano.

- Zio – mormorò, Sergio, guardandolo cupo.

L’uomo sogghignò, avvicinandosi di un passo. Allargò le braccia, con fare di impotenza e incredulità.

- Prima ero fiero di te, sai? Di essere chiamato zio – fece una pausa, per poi riprendere – Ora invece, no. Posso tornare ad esserlo, però. Tu ora prendi la porta e vai in sala. Dalla tua futura moglie -

Un tono perentorio. Caustico. Terrificante.

- Vai, Sergio - concluse lo zio, senza smettere di guardarlo.

- Non posso –

Non era stata una replica, ma una semplice constatazione. Un qualcosa che gli era uscito da dentro.

- Hai ragione – rispose lo zio, - Non puoi, devi -

Michele sapeva di essere invisibile agli occhi dell’uomo, che sembrava non averlo notato neanche nel momento in cui lo urtava. Si limitava perciò a guardare i due ragazzi, non sapendo cosa altro fare.

Le ultima parole riecheggiarono nella stanza, procurando un’eco che risvegliò il serpente che sembrava aver finalmente trovato pace nello stomaco di Michele. Il senso di disagio ricominciò a crescere, fino a formare un groppo amaro nella gola del ragazzo. E le espressioni degli altri due non aiutavano.

Se sul volto di Gabriele si era accesa appena una luce di fastidio, su quello di Sergio era divampato un fuoco di collera incontenibile. Il giovane fece un passo indietro, nella direzione di Gabriele.

- Non ho alcuna intenzione di tornare in sala – disse Sergio, senza la minima traccia di indecisione nella voce. Lo zio gli sorrise, alzando gli occhi al cielo. Nessuno si accorse del movimento della sua mano.

- Lo farai, invece – ribattè, sicuro di sé. Sergio scosse la testa, con caparbietà e irriverenza.

- Che fai altrimenti? – chiese, sfidandolo.

La mano destra dell’uomo che, senza essere vista, si era spostata verso la tasca interna della giacca, si alzò in quel momento impugnando una pistola. Piccola, nera e tutt’altro che innocua.

- Uccido il tuo amichetto – rispose lo zio, rivolgendo la canna verso Gabriele.

Michele boccheggiò, non riuscendo più a pensare con razionalità. Non doveva andare così. Gabriele non doveva essere ucciso. No. C’era qualcosa di sbagliato, porca miseria! Fece per muovere un passo ma le gambe non gli ubbidivano più. Tornò ad osservare la scena: Gabriele non si era mosso, solamente il sangue aveva preso a defluirgli dal viso, lasciandolo pallido più di quanto già era. Sergio invece tremava, schiumante di rabbia. La collera di prima sembrava uno scherzo in confronto a quella che c’era ora.

- Non lo farai – sibilò, i pugni stretti e i denti digrignati.

- Sei tu che mi costringi – rispose lo zio, con ovvietà, senza abbassare la pistola – Stai dimenticando la tua famiglia, Sergio. Non si fa. Non è corretto. Tu devi sposarti –

Sergio mosse un passo verso lo zio, la cui mano salda teneva ancora sotto tiro Gabriele.

- Perché?- chiese il ragazzo, cercando di prendere tempo e pensare.

- Perché sì. Perché è della famiglia Tersi che parliamo. Una famiglia importante. E noi Vittori abbiamo bisogno di loro, che tu lo voglia o meno – spiegò, vagamente. Sergio scosse la testa, abbassando gli occhi.

- Io non ho bisogno di loro – affermò – Tu invece sì, vero? Sono vere le voci, allora? E’ te che cercavano gli esattori?- Lo zio sorrise, annuendo con un sorriso malato.

- Esattamente – disse – Vedi che sei un ragazzo intelligente. Ora torna in sala –

Sergio scosse la testa. – Non ne ho la minima intenzione –

- E allora mi costringi ad eliminare il tuo amichetto. Così non avrai più distrazioni – concluse l’uomo.

- Tu sei pazzo – inveì il giovane, mentre il dito dello zio premeva sul grilletto.

Michele iniziò a tossire, sentendo il dolore aumentare nel petto. Con terrore lo riconobbe, lo aveva già provato. Sgranò gli occhi sempre più, sperando di sbagliarsi. Non fu così. L’immagine sbiadiva sotto il suo sguardo e i suoni si attutivano. Michele gridò, vedendo come in un fotogramma la figura di Sergio lanciarsi davanti a quella di Gabriele. Il rumore dello sparo gli trafisse le orecchie, ma lui non riuscì a vedere niente.

Era tornato al buio, era di nuovo seduto. Sentiva puzza di bruciato attorno a sé, la sensazione di freddo, l’odore fastidioso della polvere e quello della cera. E sentiva il peso di qualcosa sulle gambe irrigidite.

Una vibrazione gli percorse la gamba, a stento e con mano tremante ne estrasse il cellulare. Ne osservò il piccolo schermo, il nome di Luciano che vi lampeggiava. Non rispose. Studiò la soffitta attorno a sé, la candela ormai spenta, i fogli sparsi. Aprì lo slide del cellulare ma solo per fare luce. L’articolo…

L’articolo di cronaca era cambiato.

 

“ Tragedia alle nozze. Samuele Vittori, zio dello sposo, assassina Gabriele Gertiso, semplice invitato. Apparentemente la causa potrebbe essere momentanea infermità mentale, ma Vittori afferma di…”

 

Michele lasciò cadere il cellulare, il foglio di giornale che gli scivolava dalle mani.

- No, no, no! Porca della miseria, non doveva andare così! No! – continuò a gridare, fissando con occhi lucidi e labbra tremanti la foto di Gabriele. Era morto. Sembrava che in un modo o nell’altro dovesse morire… No! Michele afferrò l’immagine con entrambe le mani. Doveva morire…

Chiuse gli occhi, sperando di risentire quel dolore cui ormai anelava. Voleva ritentare, cambiare le cose.

Il dolore non venne. Respirava normalmente. Senza problemi.

- Devi sbrigarti -

Michele serrò ancora di più gli occhi. Stava sognando. Non poteva essere la voce di Giulia.

- Hai poco tempo – continuò la voce, tranquilla.

E a quel punto Michele spalancò gli occhi. Era seduto. Davanti al viso gli occhioni di Giulia, sorridente.

Sentì la musica, il vociare degli invitati… e scattò in piedi. Non aveva tempo. Non aveva il tempo di riflettere, né sul fatto che non aveva sentito dolore né su ciò che aveva detto la bambina.

Poteva solo correre. E lo fece.

Attraversò la porta a vetri senza frenare, fermandosi solo quando ebbe raggiunto i due ragazzi. Si aspettava di trovarli vicini, oppure di scontrarsi con lo zio di Sergio, o ancora di trovarne uno morto. Invece no.

Ancora non avevano cominciato a parlare.

Si voltarono entrambi verso Michele, guardandolo interrogativi e confusi. Lui prese a parlare, subito, senza pensare o riprendere fiato. Gridava quasi.

- Dovete andarvene. Ora. Non pensate, non parlate. Andate via e basta! -

I due lo fissarono come se avesse perso il senno. Probabilmente è vero, pensava Michele, ma andatevene…

- Che stai dicendo? – gli chiese Gabriele, basito.

- Che se avete degli attributi è il momento di cacciarli! Andatevene! Per favore… -

Sergio scambiò un’occhiata con Gabriele, sconvolto quanto e più di lui.

- Eccoti finalmente. Cos’è, un ritrovo fra amici? Torna in sala Sergio, Elisabetta ti aspetta -

Michele si voltò con il cuore in gola, lo sguardo fisso in quello dell’uomo appena entrato.

Non era possibile. Perché…?

La conversazione che seguì si svolse senza che lui ne prendesse parte. Sergio si rifiutò, di nuovo. Lo zio estrasse la pistola, di nuovo. E la puntò su Gabriele, di nuovo. Non c’era niente da fare, in qualunque modo la metteva sembrava che qualcuno dovesse morire… Michele in quel momento capì, illuminandosi.

- Spari – disse, sotto tre paia di occhi incredule, - Mi spari se ne ha il coraggio -

Era come se la sua lingua avesse fatto tutto da sola. Come se avesse capito prima ancora di lui.

Qualcuno doveva morire. Lui poteva? Lui, che avrebbe assistito a tutto poi, poteva morire?

Non lo sapeva. Era questa la domanda.

Lui che apparteneva a un’altra epoca, avrebbe dovuto ritornarci. O poteva morire?

L’uomo sorrise, sardonico, spostando la canna della pistola verso Michele.

Probabilmente allora poteva morire.

Michele questa volta aveva ancora il pieno controllò di sé, delle sue azioni, della sua mente. Eppure non aveva paura, non scappò, non si mosse. Semplicemente soffiò verso l’alto per scostare i capelli dall’occhio.

Fissava le pupille dilatate dell’uomo che aveva davanti.

Avvertiva la presenza della canna della pistola che incombeva su di sé.

Sentiva i respiri accelerati dei ragazzi alle sue spalle.

L’unica cosa di cui non si accorse fu quella che lo avrebbe salvato.

Non vide la bottiglia fino al momento in cui si abbatté dietro la nuca dell’uomo che lo minacciava.

Lo colpì brutalmente. E lui cadde rovinosamente, quasi senza far rumore. La pistola abbandonata accanto…

Accadde al rallentatore. Poi tutto riprese a scorrere normalmente, se non più veloce di prima.

Sergio e Gabriele lo superarono a passo di corsa, il primo fiondandosi sullo zio e il secondo afferrandone la pistola. Guardavano Michele di sfuggita, alternativamente. C’era solo riconoscenza nei loro sguardi.

Michele però non se ne accorse, gli occhi puntati su chi lo aveva salvato.

Attraversò rapido la stanza, raggiungendo Elisabetta. Lei si appoggiò a lui, tremante. Si lasciò guidare fuori, verso i tavoli, verso la luce. Michele le stringeva la mano, cercando di trasmetterle sollievo, supporto…

- Grazie -

Solo questo riuscì a dire, bisbigliandolo all’orecchio di lei. Si erano fermati, al limitare dell’immensa sala  festosa. Elisabetta, spalle al muro, fissava assente il ragazzo che aveva di fronte.

Michele con una mano le portò una ciocca di ricci dietro l’orecchio, perso negli occhi blu di lei.

- Aveva una pistola – mormorò lei, ancora scossa.

Il ragazzo annuì, avvicinandosi di più a lei, quasi temesse di vederla svenire da un momento all’altro. Calò il silenzio fra di loro, contrastante e per questo più vivo del chiasso opprimente che li circondava.

- Sono andati via? –

Elisabetta lo aveva chiesto con un filo di voce, il tremore del corpo che aumentava, seguito dalle labbra.

Michele non ebbe bisogno di chiederle di chi parlasse. La guardò negli occhi e capì che sapeva.

- Perché lo hai fatto? – chiese, riferendosi al matrimonio.

Se sapeva di Sergio e Gabriele, perché mai aveva accettato di sposarlo?

Lei si strinse nelle spalle, gli occhi che si riempivano di lacrime pronte ad essere versate.

- Potrei dirti qualunque cosa – sussurrò, mordendosi le labbra.

- Ma la verità è che ne sei innamorata – finì per lei Michele.

Una prima lacrima si fece strada fra le ciglia della ragazza, rigandole la guancia.

- Sono una stupida – disse lei, mentre altre lacrime seguivano il percorso della prima. Tante, troppe.

Michele scosse la testa, prendendola fra le braccia. La strinse forte, cullandola. Le carezzava i capelli, baciandole le palpebre chiuse, quindi le guance bagnate.

- No, no non lo sei – rispose, bisbigliando, all’orecchio della ragazza.

Lei si lasciò stringere di più, gettandogli le braccia al collo ed affondando il viso sul suo petto. I singhiozzi si andavano affievolendo, Michele allora con due dita le sollevò il viso, costringendola a guardarlo.

- Non lo sei – affermò, sicuro.

Studiò quegli oceani azzurri, ora increspati, che lo osservavano curiosi e affranti. Si distrasse, perso nella contemplazione delle labbra arrossate e sorrise… come gli sarebbe piaciuto potersi innamorare di lei.

Attese solo qualche altro secondo, immergendosi nel profumo di lei, ascigandole con i pollici le lacrime non ancora scese, poi la baciò. Con ardore, desiderio e disperazione. Giocò con le sue labbra, tuffandosi in esse.

Il bacio più bello che avesse mai dato.

Sapeva di more, di liquore e di sale.

Sapeva di lei, della festa e del dolore.

Sapeva di loro.

Michele aveva chiuso gli occhi, così come aveva fatto Elisabetta. Quando però si sentì tirare un lembo della giacca dovette riaprirli. Si staccò dalla ragazza, girandosi verso chi lo aveva chiamato. Giulia.

Lo salutava con la mano, allontanandosi all’indietro.

Era il momento dell’addio.

Michele tornò a guardare Elisabetta. Lo fissava, gli occhi fermi e carichi di triste consapevolezza.

- Devo andare – disse lui, prendendole le mani per sciogliere l’abbraccio.

Lei annuì, carezzandogli il viso. Michele si piegò un’ultima volta verso quel viso incredibilmente bello.

- Addio -

Lo avevano sussurrato insieme, allontanandosi l’uno dall’altra.

Michele fece dietro front, pronto a sparire, ad uscire definitivamente di scena. E così accadde.

Senza che sapesse come era di nuovo in soffitta, la vibrazione del cellulare unico rumore. Un venticello freddo entrava nella stanza, tagliandola per intero. Michele sorrise al buio, gli occhi lucidi.

Afferrò il cellulare, dirigendo la luce sull’album. Guardò prima il giornale: l’intera pagina era cambiata.

 

“ Annullato all’ultimo momento il matrimonio Vittori - Tersi. Cause sconosciute. Nozze che si sarebb…”

 

Michele rise, da solo. Una risata liberatoria, di sollievo. Una risata che veniva dal cuore.

Ripiegando il giornale guardò la foto, quella della pagina precedente, quella in cui non conosceva nessuno.

Ora non era più così. Conosceva qualcuno, nella folla di persone.

Vide Gabriele e Sergio, al centro, il braccio l’uno sulle spalle dell’altro. Elisabetta, alla sinistra di Sergio, la mano in quella del ragazzo. Non si vedeva il blu degli occhi, sostituito da uno spregevole nero, ma erano quegli occhi. Quelli di cui stava per innamorarsi, quelli di cui forse si era innamorato… E vide Giulia, con il suo caschetto e il suo vestitino di tulle, al centro, fra tutti gli invitati. Giulia che faceva l’occhiolino.

Lo salutava anche attraverso la foto.

Michele chiuse l’album, con mani tremanti. Il cellulare squillava ancora. Fu per stanchezza che lo prese, decidendosi a rispondere. La voce di Luciano gli perforò l’orecchio, invadente.

- Stai bene? Sei vivo?! Santo Dio, Michè, mi stava venendo un infarto! E’ la quinta volta che chiamo in mezz’ora, perché non rispondevi?! – gridava, ma Michele lo ignorava.

Si alzò, poggiando l’album sul mobile dietro di sé. Dovette reggersi, aspettando che la circolazione si riattivasse nelle gambe. Stava per rispondere alle domande che l’amico ancora gli rivolgeva quando improvvisamente si ricordò di una cosa. Piegandosi sulle ginocchia aprì il penultimo cassetto del mobile.

E la vide, lì dove l’aveva vista. Una bottiglia, una bottiglia di liquore.

La prese, soffiando per togliere la polvere. E lesse.

Winter Allory

Michele sospirò, rimettendola a posto. Sogno o non sogno…

- Non avevo sentito il cellulare, Luciano – rispose, senza davvero intendere. Non ancora cosciente.

- Sicuro di star bene? –  chiese, preoccupato – Vuoi che ti raggiunga? –

Michele ridacchiò, chiudendo il cassetto e avviandosi piano verso le scale che lo dovevano riportare al piano di sotto. Luciano era sempre Luciano, anche a distanza di secoli.

- Sono sicuro. Sto bene – mormorò, scendendo gli scalini.

- Ma è successo qualcosa? Sei inciampato in una motosega? –

- Nessuna motosega –

Michele afferrò la corda fra le dita e sollevò un po’ la scala pieghevole.

Lanciò un’ultima occhiata al buio, alla forma indefinita di ciò che si nascondeva lì sopra…

… e sorrise, spingendola e lasciando che finalmente si chiudesse.

 

Ci sono segreti che è meglio non scoprire.

Ci sono segreti che è meglio non avere.

E ci sono segreti che è meglio lasciare al tempo, perché quello sono.

Segreti del Tempo…

Non sempre però, è il Tempo ad avere la meglio.

 

*

 

 

   
 
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