PREFAZIONE:
Sinceramente non so come introdurvi questa shot e
forse farei più bella figura a tacere, mettermi in un angolino e lasciarvi alla
lettura. Potrei anche farlo ma sarebbe troppo facile, quindi qualche delucidazione
ve la devo, giusto per fingere di essere una FanWriter degna di questo nome
(come no).
Allora, rimbocchiamoci le maniche.
Prima nota: quella che state per leggere NON è
una storia triste, malinconica o cavolate varie. No cari lettori.
E’ dramma. Punto. Dramma puro. Fin’ora, questo
almeno per chi mi conosce, avete letto ff d’altro genere, fiction comiche che
al limite vi hanno fatto piangere per le risate. Ecco, sappiate che la
sottoscritta ha cominciato la sua “carriera” di scrittrice col pacchetto dei
clinex accanto al computer e che la
maggior parte delle storie che ha scritto sono a sfondo drammatico. Dicono di
me che “faccio piangere, dilaniare il cuore e male, tanto ma tanto male” (cit.
WR88). Ora, ovviamente io non mi abrogo né il diritto né la presunzione di
ritenere queste parole vere (che tra l’altro devo ancora capire se siano un
complimento), sarete voi lettrici, o lettori (il mio pensiero corre a te caro
Jay) a decidere se lo sia o meno. Dal canto mio vi posso dire che, prima di questa
shot, ho pianto mentre scrivevo solo per un’altra storia, nevvero la mia
“Icaro” (e qui le fan dei GazettE vorrebbero tanto uccidermi).
Quindi siete avvisate/i: la shot è triste, non fa
per le persone depresse (a meno che queste non vogliano deprimersi
ulteriormente, in questo caso è perfetta) e se non volete stare male alla fine
potete benissimo evitare di leggerla, non mi offendo mica. Mi/Ci/Vi fate solo
che un piacere.
Seconda nota: ovvero “Shin si è evoluta” (=
quando la storia non è abbastanza triste di suo, aggiungici una colonna sonora
coi fiocchi).
Ebbene sì: mentre scrivevo ascoltavo
ininterrottamente due canzoni giapponesi (non so se il genere vi aggrada) che
consiglio vivamente di cercare e mettere in modalità “ON” durante la lettura. I
titoli sono:
“Last Song” di Gackt
“Hikari” di Elisa (1st Nabari’s ending)
Allora, se preferite la voce calda e avvolgente
di un uomo, vi indico la prima; se invece decidete di buttarvi su una donna, la
seconda è quella che fa per voi. E se ancora preferite, potete benissimo
ascoltarvele tutte e due (anche meglio).
Terza nota: vi prego, vi supplico, vi imploro, non fatevi spaventare dalla lunghezza della
shot. Ci sono moltissimi spazi e alla fine conta appena poco più di 4500
parole (calcolate che sto scrivendo una storia i cui capitoli sfiorano le
20.000).
Quarta nota: beh sì, questa è scontata, ma
ovviamente vi chiedo di lasciare un commentino alla fine per dirmi che ne
pensate. Credo possiate immaginare quanto sia stato difficile scrivere una… cosa del genere, considerando il fatto
che, ogni cinque righe, mi dovevo fermare perché avevo gli occhi offuscati
dalle lacrime (beh, io non faccio testo dato che sono riuscita a piangere anche
vedendo “Cenerentola” e “Le Follie dell’Imperatore” XD). Quindi occhio.
Quinta nota (IMPORTANTE):
la storia è ambientata in un ipotetico futuro, dove Touko ed N hanno
venticinque anni. Ora, pur essendo che il contesto che ho scelto è
“videogioco”, e che quindi è impossibile determinare l’OOC e l’IC di un
determinato personaggio, sappiate solo che, vista la situazione, il cambio età
e la situazione che ho deciso di narrare, i caratteri dei personaggi potranno
non corrispondere alle aspettative e all’idea che vi siete fatti di loro. Oltretutto ho cambiato anche l'età dei personaggi quando si sono incontrati la prima volta, 10, non 15. Occhio.
Sesta nota: le parti scritte in corsivo a sinistra
sono riferite al passato, quelle normali a sinistra al presente.
Ecco, finito. Scusatemi se mi sono dilungata
forse un po’ troppo, ma credetemi, meglio abbondare che non.
Spero di trovarvi ancora in fondo.
Buona lettura.
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~Unbreakable Love Bond~
C’eri
tu al mio fianco, bene o male c’eri sempre stato, o almeno così
ti ci avevo sempre sentito. Non ho mai smesso di avvertire la tua presenza, il calore
che emanava il tuo corpo, nemmeno quando te ne sei andato, in cerca di
risposte, dopo la nostra ultima battaglia.
Avevo
dieci anni quando ti ho incontrato per la prima volta; pochi mesi in più quando
ho scoperto che eravamo l’implacabile eroina e il cattivo, non così
cattivo, di un agghiacciante gioco ordito da forze che sfuggivano alla nostra
comprensione. Rivestivamo dei ruoli che non ci lasciavano liberi di essere chi
volevamo, di sapere cosa aspettarci dal mondo, di conoscere come questo girasse
e quali leggi regolassero il ciclo delle stagioni. Eravamo bambini, mocciosi
ingenui che, traboccanti di sogni e buone aspettative, spendevano i loro giorni
a inseguire ideali che non sentivano propri e a credere a tutto ciò
che veniva dato loro per oro colato.
Eravamo
semplicemente stupidi, nella più rosea e tenera accezione che può
rivestire questo termine.
Un
flebile raggio lunare squarcia timidamente le tende appena socchiuse,
illuminando la culla ai piedi del nostro talamo nuziale. C’è qualcosa di sinistro
in quei soffici veli di raso bianco perla, di raccapricciante nel legno e nel
fiocco che troneggiano proprio sulla cima, di straziante nel quasi
impercettibile scricchiolio che questa produce di tanto in tanto dondolando su
se stessa.
Mi
stringo nel plaid che ci avvolge, ripiegandomi appena senza avere la forza per
distogliere lo sguardo: lo avverto chiaramente, questo senso d’inadeguatezza,
questo pericolo alle porte, la paura di fallire e di perdere tutto ciò
che mi è più caro. Ed è buffo, sai? Perché, a pensarci bene, noi quel tutto lo
abbiamo già perso. Non è forse così, N?
« Violet, Aleteia, Cecil… »
« Per l’amor del cielo, Cecil no!
Dopo ce la chiameranno “Celil la Petilil!” »
N alza lo sguardo dal tomo che sta
consultando e mi guarda perplesso, le labbra arricciate in un sardonico sorriso
e gli occhi falsamente divertiti.
« Ma dimmi un po’, te le sogni la
notte o ti vengono così dal niente, eh Touko? »
Ricambio l’occhiataccia storcendo
infastidita il naso, continuando a leggiucchiare apaticamente l’interminabile
elenco di nomi che reggo tra le mani, frutto di ore e ore spese a navigare su
Internet e a sorbire le chiacchiere concitate di parenti e amici.
« No, è pura e semplice constatazione
dei fatti. »
« Quella che in pratica la gente
comune chiama pazzia quindi… »
Ho
sempre amato la sottile ironia, mescolata a una buona dose di autocritica, di
cui era ed è tutt’ora intrisa ogni tua singola parola.
Quando
sei tornato, dopo sei anni di totale silenzio, ho capito immediatamente che
avevi trovato le risposte che smaniavi, oltre che esserti fatto carico degli
sbagli e delle ingiustizie che, strada facendo, hai commesso.
Tutti
sbagliamo, nessuno è perfetto, ed ogni volta che ti guardo, che mi specchio nei
tuoi occhi tanto vivi quanto coscienti, sento gravare sulle mie spalle tutta
l’ingenuità e la frivolezza con cui ho guardato il mondo fino a quando non sei
riapparso. E ho pensato lo avessi fatto per me, per insegnarmi, per prendermi
la mano e mostrarmi ciò che avevi scoperto durante la tua lunga assenza,
con occhi nuovi, occhi di un adolescente non più bambino che finalmente
comincia a rendersi conto che ogni cosa ha un suo perché e che sta a noi
stabilire se sia giusta o sbagliata. Hai imparato cosa sia il limite, hai
conosciuto te stesso e mi hai reso la ragazza più felice e fortunata della
Terra quando mi hai permesso di entrare nel tuo mondo.
E
io mi sono lasciata trascinare, questa è la verità. Senza il benché minimo
orgoglio, senza chiedermi se fosse corretto o meno, ho cominciato a credere
ciecamente a quello che mi dicevi.
Dipendevo
morbosamente da ogni tuo piccolo singulto.
« Che ne dici di Lovely? »
Guardo N con cipiglio incerto, come a
voler evidenziare il mastodontico punto interrogativo che aleggia senza pudore sopra
la mia testa.
« Love-che? » gli faccio eco. Io e
l’inglese non siamo mai andati particolarmente d’accordo, come possono
confermare fior fior di pagelle e colloqui genitori-insegnanti che conservo
pressoché intatti nella mia memoria.
« Lovely. » mi ripete lui
pazientemente accennando un sorriso soddisfatto. « Che tradotto nella nostra
lingua vorrebbe dire “Amorevole”, “Ragione d’amore”. »
E Lovely
fu
Scosto
le coperte poggiando delicatamente la punta dei piedi sul pavimento liscio e
freddo della camera. Al contatto con questo rabbrividisco appena, per poi farmi
forza ed alzarmi, rimanendo lì, ferma immobile a fissare il vuoto per un lasso di
tempo indeterminato.
Lovely
è stato amore a primo acchito, mi è piaciuto subito. Ho impiegato dieci minuti per
imparare a scriverlo coi caratteri occidentali, venti a convincermi che fosse
quello giusto, trenta a capire che quella creatura, che cresceva di giorno in
giorno dentro la mia pancia, avrebbe coronato e reso completa la nostra storia
d’amore. Lovely era il nostro traguardo,
la cosa più giusta che potessimo fare, nonché la più meravigliosa. Con
lei, ogni nodo si sarebbe districato, ogni dubbio dissolto, ogni insicurezza
cancellata, facendoci così essere finalmente alla pari. Nessuno avrebbe più
trainato l’altro o ne sarebbe dipeso e avremmo consacrato definitivamente il
nostro legame in quanto tale. Saremmo diventati un tutt’uno, l’uno parte
dell’altra, e io avrei messo a tacere i miei sensi di colpa.
La testa di N grava sul mio pancione
da un po’ di tempo ormai, un peso tutt’altro che spiacevole se devo essere
sincera.
All’improvviso, una contrazione.
Lui sorride cercando il mio sguardo.
« Ha scalciato, hai sentito? »
Tengo per me un commento acido e
sorrido a mia volta.
« Non fa altro dalla mattina alla
sera, credo non veda l’ora di uscire da qui. » rispondo inseguendo la sua mano
e poggiandola lì dove so battere il cuore di nostra
figlia.
Lui annuisce e chiude
gli occhi, concentrandosi per captare ogni più piccolo rumore.
« Vorrà conoscere quella testa calda
di sua madre… »
« …oppure quello stupido di suo
padre. »
Ridacchia appena, silenzioso e
accorto, come a non voler destare la piccola Lovely dal suo sonno lieve.
« Toglimi una curiosità… » si solleva
di un po’ così da potermi fronteggiare più dignitosamente
« Da dove ti esce la convinzione che il bimbo sia una femmina? »
Ci penso un po’ su, aggrotto le
sopracciglia ed infine scrollo ingenuamente le spalle.
« Lo so e basta. Sono una madre e una
madre le sente queste cose. » rispondo cercando più che altro di convincere me
stessa: l’idea che Lovely possa uscire con “qualcosa” di inatteso tra le gambe
non mi ha mai sfiorato l’anticamera del cervello « …e poi sarebbe un bel guaio,
dato che sono all’ottavo mese e non abbiamo mai pensato a un nome maschile. »
N intreccia le mie dita tra le sue
per poi posarvi sopra un delicato bacio.
« No, è femmina, queste cose le sente
anche un padre. Non voler essere per forza sempre tu sotto i riflettori,
egocentrica. »
Io
e te, caro N, siamo cambiati da quando eravamo due semplici bambini, o almeno
io mi sento di esserlo. Mi chiedo se anche tu te ne sia accorto e se per caso
provi la stessa nostalgia e lo stesso dolore che ora ghermiscono il mio cuore.
Ogni mattina, quando mi alzo e mi guardo distrattamente allo specchio, trovo
una venticinquenne ad accogliermi e ricambiare le mie occhiatacce, scavare
nelle viscere del mio cuore e cercare una risposta a tutte quelle
preoccupazioni e quelle ansie che mi assillano da un po’ di tempo a questa
parte.
Ed
è impossibile non chiederselo, impossibile ignorarlo: dov’è finita la Touko
Campionessa della Regione di Unima? Quella ragazzina esuberante, sprezzante del
pericolo, infantile e col sorriso sempre appiccicato alle labbra? E tu, N, ora
così dolce, protettivo, ironico ed inconsapevolmente
pieno di te: perché non mi guardi più, come una volta, dall’alto in basso?
Perché sei sempre così accondiscendente nei miei confronti? Mi ami o lo
fai per redimere i tuoi peccati? In fin dei conti, quella tetra ed annebbiata
notte di quindici anni fa, tipico cliché che ci si aspetterebbe da un film
horror, tu mi hai abbandonato, sei scappato, erigendo così
un muro tra noi che poneva definitivamente te sempre un passo davanti a me. E
ancora adesso, ora che ti guardo dormire seraficamente ed ignaro di tutto,
cerco di raggiungerti e di prenderti nuovamente la mano.
Per
la prima volta mi rendo conto di quanto tu sia stato, e sia tutt’ora,
incredibilmente distante da me.
Un dolore improvviso mi desta nel
cuore della notte, la gola arida come il deserto del Sahara e le corde vocali
attorcigliate in un fastidiosissimo nodo, incapaci di produrre alcun suono.
Mi guardo attorno spaventata,
pensando a un aggressore, un qualcuno che mi possa aver colpito brutalmente
alla pancia, forse un ladro, quando mi rendo conto dell’alone scuro e umidiccio
sopra il quale il mio sedere poggia.
Ed è il panico.
Tendo immediatamente la mano tremula
in direzione del mio compagno cominciando a scuoterlo come fosse una bomboletta
spray.
« N! N svegliati, veloce! Mi si sono
rotte le acque! » urlo in preda al terrore e alle prime contrazioni.
Quello mugugna qualcosa di poco
chiaro, lambendo la propria parte di coperta e nascondendocisi dietro.
«…vuoi dell’acqua? Non puoi aspettare
domani? Adesso ho sonno… » brontola affondando la testa nel proprio cuscino,
più che mai intenzionato a ripiombare a capofitto nel confortevole mondo di
Morfeo.
Non ci vedo più: afferro l’elenco
telefonico che, per un caso della sorte, sta lì,
dimenticato sul mio comodino, e gli colpisco la testa con tutta la forza che
ho, e neanche sapevo di avere, in corpo. E finalmente lui si sveglia,
portandosi le mani alla nuca e lanciandomi un’occhiataccia iraconda.
« Ma si può sapere
che… » comincia, venendo però quasi subito interrotto dalla
sottoscritta.
« MI SI
SONO ROTTE LE ACQUE, CRETINO! E NO, NON POSSO CERTO ASPETTARE FINO A DOMANI!! »
strillo in preda all’ansia cercando inutilmente di darmi un tono e di praticare
la respirazione “cagnolino”, che ho imparato al corso pre-parto.
N mi fissa basito, la mascella che
rasenta il pavimento ed un’immensa sorpresa a deturpargli gli occhi provati,
ultimo coronamento della demenzialità e della tragica comicità di cui è pregna
fino al midollo quella situazione.
« Porca miseria! » esclama infine
ficcandosi le mani tra i capelli.
Penso che mai commento fu più
azzeccato di quello.
In
quell’occasione ho avuto modo di constatare che l’N che conoscevo, o meglio che
credevo di conoscere, sapeva essere anche un gran pasticcione.
Sai,
N: per me che fino a quel giorno ti avevo sempre considerato una creatura
perfetta (una contraddizione dato che comunque avevi, e non facevo finta di
ignorare, un sacco di difetti), è stata una sorpresa scoprirti così
impaziente, così preoccupato, così semplicemente incapace di
tenere ogni cosa sotto il tuo controllo. E’ stata la volta in cui ti ho visto
più umano, non come adesso che, anche se sei lì, steso sul nostro letto e
privo di sensi, ti vedo etereo e terribilmente “sbagliato”.
Sbagliato
per vivere in questo mondo.
Sbagliato
per esser così buono (che troppe volte finisce con l’essere
sinonimo di “stupido”).
Sbagliato
per la tua troppa intelligenza.
Sbagliato…
per stare al mio fianco.
E
mi chiedo: la risposta che cerco, la completezza che bramiamo, alla fine siamo
riusciti a raggiungerla?
Un urlo prorompente si leva per aria
strappando un sorriso entusiasta a tutti i presenti, me compresa.
L’ostetricia e il medico Talker, un
ometto brizzolato dall’aspetto rassicurante, annuiscono col capo maneggiando un
fagotto bianco a tratti macchiato di rosso e acqua. Piccoli lembi e residui
d’epidermide ne solcano la superficie rugosa.
« Complimenti signora, è una bella
bambina. » mi annunciano porgendomi la piccola con una delicatezza che ha del
surreale.
Ignoro l’appellativo obbrobrioso con
cui mi si sono rivolti e, tra le lacrime e i sospiri affaticati, tendo le mani
sfiorando il corpo esile della piccina. Quando poi realizzo compiutamente che
quella che stringo al petto è mia figlia, mia e del mio amato N, sento qualcosa
di intenso e così bello da far paura dilaniarmi il
cuore.
Così felice,
così realizzata, così…
completa. Ora finalmente comprendo le parole di mia madre e tutti quei discorsi
su quanto sia meraviglioso dare alla luce un figlio. E lo comprendo specchiandomi
negli occhietti neri di Lovely, la quale frigna dimenando i pugnetti e
calciando il vuoto anzi a sé come stesse combattendo un misterioso nemico.
E’ viva, è sana e forte (a giudicare
dall’ugola che vanta senza vergogna alcuna) ed io sono così felice
che non trovo neanche le parole per riuscire a dire o pensare quanto bella sia
quell’esperienza. Forse nemmeno Dio sarebbe in grado di comprendere appieno fin
dove la mia gioia arrivi.
« Allora? Come la chiamiamo questa
pulzella? »
Soffoco un risolino incredulo.
E’ semplicemente incredibile: più la
guardo, più mi chiedo come ho fatto a vivere fino a quel giorno senza di lei,
come un corvo che, dopo aver volato e visitato ogni paese del mondo, si rende
conto di avere due ali e della bellezza di cui i suoi occhi si sono beati in
tutto questo tempo.
« Lovely. » rispondo infine coronando
il nostro sogno e comprendendo che, con quel nome, si chiude finalmente un
cerchio fino a quel momento rimasto incompleto.
Tutto è meravigliosamente perfetto.
Mai il mondo mi è sembrato più bello.
Mi
avvicino alla finestra tendendo le mani e sfiorando il vetro umido, bagnato
dalla condensa dovuta allo sbalzo di temperature registrate fra fuori e dentro.
Lentamente, schiudo le tende e mi abbandono impotente ai malinconici raggi
lunari, nulla a che vedere con l’esuberanza e la prepotenza della luce solare.
Anche
quella sera la luna se ne stava là, alta in cielo, a vegliare su di noi. Quella
notte così desiderata, così cercata, così
semplicemente nostra. Niente di tutto ciò aveva fatto pensare o
presagire il più piccolo imprevisto, la più trascurabile pecca. Eppure lo sanno
tutti no? E l’avevo già provato in passato, quando mi hai abbandonato saltando
in groppa al tuo Zekrom e non facendoti sentire per anni e anni. Quando tutto
va così meravigliosamente bene, quando credi che niente
possa andare storto, stai bene attento a non urlare: il dolore ha il sonno
lieve.
Quanto
ho strillato dalla gioia quel giorno. Quanto mi sentivo stupidamente
inviolabile mentre stringevo tra le braccia la mia piccina.
Quanto
sono stata scema.
Chiudo
gli occhi, sopraffatta dal dolore, un artiglio conficcato nel mio cuore e che
non riesco ad estrarre in alcun modo.
Mi
volto appena, dando le spalle al mondo al di fuori e posando il mio sguardo su
di te, chiedendomi come tu faccia a dormire così beatamente, come niente
fosse. E lo fai ogni notte, dopo avermi stampato il bacio della buonanotte
sulla fronte: entri nel letto, chiudi gli occhi e ti addormenti meccanicamente,
seguendo un ciclo naturale che però io non mi sento più di
condividere.
Lascio
che le mie gambe mi conducano, come ogni volta, ai piedi della culla, che le
mani sfiorino il tulle e le paperelle che ho ricamato, col sudore sulla fronte,
sulla copertina. Una delle tante peripezie che ho tentato per il gusto di
mettermi alla prova mentre ti aspettavo, cara Lovely. Anche quel vestitino,
quello rosa coi merletti e il fiocchetto sui polsini, te l’ho cucito sentendoti
vivere e crescere dentro di me.
Quanto
mi mancano quei tempi.
Quanto
mi manca sentirti viva nel mio grembo.
Il
legno del lettino scricchiola appena sotto il mio tocco gentile, lo fa sempre.
Soffoco
un singulto, mi sforzo di non pensare a quanto sia sbagliato tutto questo,
mentre le mie mani cercano e trovano il velo che copre il lettino. Lo sollevo
senza indugi guardandovi dentro.
Vuoto.
Sotto quella maledetta copertina, che ho cucito con tanto amore e dedizione,
non c’è che un flebile ed ormai svanito sogno a riposare beato ed inconsapevole
del dolore che mi procura.
Nessun
corpicino soffice e morbido.
Nessun
visetto d’angelo e guanciotte paffute.
Nessun
urlo improvviso nel cuore della notte a destare me o N.
Quella
culla, così terribilmente fuori posto e sbagliata, non
contiene che il ricordo di una speranza ormai morta e sepolta dentro di me.
Mi sveglio poco dopo grazie alla
flebile luce che filtra dispettosa dalle tende, un N sorridente ed entusiasta
sedutomi accanto e la sua mano incastrata tra i miei capelli.
« Allora? Come stai? Tutto bene? » mi
fa tracciando qualche cerchio concentrico sulla mia fronte madida di sudore. Le
sue dita scorrono eleganti ed aggraziate come stessero tingendo una tela.
Annuisco forzando un sorriso quanto
più disteso possibile.
« E’ femmina… avevo ragione. »
« Avevamo. » mi corregge lui
giocherellando coi miei capelli.
« L’hai già vista? Quando ce la
portano? Voglio stringerla di nuovo. »
Mi sorride, sembra tranquillo,
posato.
« Non saprei, immagino che i medici
la stiano sottoponendo a qualche ultimo controllo, no? »
No
Ricordo
come fosse ieri gli occhi di Lovely, traboccanti di vita.
Ricordo
anche meglio la schiera di lettini che, andandomene dall’ospedale, mi sono
soffermata a guardare. Numero 1, numero 5, numero 28, numero 33… una matassa di
brandine in ferro l’una dietro all’altra dalla quale emergevano braccia vive e
attive, tutte uguali tra loro. Niente a che vedere con quelle di mia figlia,
così uniche, così belle, così
semplicemente perfette. C’è chi dice che la perfezione non sia di questo mondo,
che illudersi di raggiungerla sia da stolti o da pazzi: beh, io dico che quel
qualcuno non è mai diventato né madre né padre.
« Cosa vuol dire che non posso vedere
mia figlia?? »
Il dottor Talker china il capo
incapace di sostenere il mio sguardo, la mano di N stringe delicatamente la mia
nel vano tentativo d’infondermi coraggio.
« Vede signora… »
« SIGNORINA! » lo riprendo infuriata
ignorando le calde lacrime che mi solcano le guance offuscandomi la vista.
Perché piango? Perché, caro N, mi stai
abbracciando e sussurrando parole di conforto all’orecchio?
Non capisco. Forse, più
semplicemente, mi rifiuto di farlo.
L’uomo trattiene il respiro lanciando
un’occhiata supplice al ragazzo, che però lo
ignora.
« Vede, signorina… » comincia di
nuovo sempre evitandomi come fossi appestata e quindi contagiosa « …sua figlia
ha avuto un attacco di ab ingestis, più comunemente chiamata polmonite chimica,
e… »
« NON ME NE FREGA NIENTE DI QUESTO STRAMALEDETTISSIMO ATTACCO DI
AB NON SO COSA! PORTAMI LOVELY IMMEDIATAMENTE CRETINO!! » urlo posseduta da
qualche spirito demoniaco.
Questo idiota: quanto gli ci vuole
per capire che, in quanto madre, ho tutto il diritto di vedere la mia piccina?
E a che cavolo mi serve sapere il nome della malattia che loro, in quanto medici,
sono sicuramente riusciti a guarire?
Sono dottori, no? Salvano le vite,
no? Specie quelle appena affacciate a questo lurido mondo, NO??
L’abbraccio di N si fa più forte, più
soffocante, quasi a volermi sopraffare.
« Touko… » sussurra impercettibile al
mio orecchio.
Mi volto in sua direzione e lo
guardo, lo riguardo ancora senza capire.
« N dì qualcosa!
E’ anche tua figlia, hai tutto il diritto di vederla! » strillo scansandomelo
malamente di dosso.
Talker si avvicina, mi prende la mano
e finalmente i suoi occhi incrociano i miei.
Finalmente capisco.
« …non ce l’ha fatta. » dice
semplicemente.
Accarezzo
l’orecchio dell’orsacchiotto di pezza adagiato sulla mensola rosa anzi a me. Poco
distante, un cavallo a dondolo oscilla appena guardandomi coi suoi occhi freddi
e neri. Una bambola di pezza mi sorride sinistramente tendendo le mani in mia
direzione. Le scarpette di lana, che N mi ha regalato quando mi ha confessato
che gli sarebbe piaciuto avere un figlio, aspettano ancora nel cantuccio vicino
al focolare. Il ciuccio con la catenina di plastica mai usato che attende di
essere mordicchiato. Il libro di favole mai letto e coperto da una patina di
polvere, dimenticato sul tavolino accanto alla culla, mai utilizzata.
Ogni
cosa qui mi ricorda te, piccola Lovely, anche se non hai mai avuto il tempo di
vederle o giocarci.
La
vedi questa camera? Ti sta aspettando, sai?
Te
e nessun altro cuore mio.
« Touko non fare così… » N mi
asciuga l’ennesima lacrima combattendo fieramente per trattenere le sue. «
Avremo altri figli, quanti ne vorremo, te lo prometto. »
…
…
…
Altri
figli?
Rabbrividisco
appena lanciandoti un’occhiataccia di puro odio, perché dormi pacificamente nel
nostro letto e non sei qui, a reggere questo fardello, questo dolore
straziante, con me.
Ripenso
ancora a quella frase, detta così, senza secondi fini, per risollevarmi il morale e
darmi la forza necessaria per dimenticare ed andare avanti. Non ti è mai passato
per la testa che, così facendo, mi avresti demolito e basta.
Hai
liquidato Lovely con due parole messe in croce, ne hai parlato come fosse un
oggetto, un peso che mi legava al suolo impedendomi di volare verso il futuro.
Ma
non capisci N? Per me e te non c’è più alcun futuro. Lovely avrebbe dovuto
coronare il nostro amore e renderlo completo, perfetto, giusto. Senza la nostra
“ragione d’amore”, che motivo abbiamo
per stare assieme?
In
questa stanza, mai vissuta e pregna di morte, io sento mia figlia più vicina di
quanto mi sia tu, viva e vegeta nel mio cuore.
« Le stia vicino: perdere un figlio è
lo shock più forte che possa vivere una donna in tutta la sua vita. Potrebbe
condurla alla pazzia… »
N annuisce, incurante del fatto che
io sia lì e senta tutto quello che lui e
Talker si stanno dicendo.
« Stia tranquillo, ci penso io. »
Nelle
nebbie della follia,
del
dolore,
dell’odio
e della
solitudine,
finalmente
ogni cosa mi fu chiara
Appoggio
delicatamente i giocattoli che gli amici più intimi ci hanno regalato per la
piccina, in particolare il peluche di Emboar di Komor: davvero di pessimo gusto
per la nostra principessina, non trovi N?
Mi
dirigo verso l’armadio e comincio a svuotarlo, a prendere tutti i vestiti e le
mie cose che poi non so come riesco a far stare dentro la mia borsa da
Allenatrice e un borsone da viaggio. Prendo anche il libro di favole che ci ha
prestato Belle, credo che a Lovely sarebbe piaciuto sentirsi raccontare qualche
bella storia. Cenerentola, Biancaneve, la Sirenetta, la bella Addormentata nel
Bosco. Secondo te, N, quale sarebbe stata la sua preferita? Da quale avrebbe
desiderato travestirsi a Carnevale? Quale fiaba ci avrebbe chiesto di
rileggerle cento volte fino a impararla a memoria?
Mi
trascino verso il nostro letto, le borse in spalla: tu dormi, continui
imperterrito a tenere gli occhi chiusi davanti al mio dolore, cerchi un
sollievo che sai di non poter trovare riflesso in questi.
Sorrido
appena e, facendo attenzione, mi siedo affianco a te. No, in verità non sono
arrabbiata, ho semplicemente sbattuto il naso contro il muro della realtà,
proprio come tu hai fatto a tuo tempo.
Ora,
finalmente ho capito.
«
Sai, N… » comincio allungando timidamente una mano verso i tuoi capelli e
sfiorandoli coi polpastrelli sudati per via della tensione « …ieri ho sognato
Lovely, di nuovo. Avrà avuto cinque anni su per giù. »
Improvvisamente,
qualcosa di freddo e viscido solca il mio zigomo sinistro mozzandomi le parole in
gola. Lentamente, mi porto una mano sul volto e lo strofino così
forte che sento la pelle bruciare, ardere viva sotto il mio tocco.
Sto
piangendo. Dopo tanto tempo, sto di nuovo piangendo. E io che credevo
ingenuamente di aver esaurito tutte le lacrime quando mi è stata annunciata la
morte della nostra piccina. Che stupida, eh?
«
Aveva i tuoi capelli. Una cascata di capelli lunghi e verdi, appena un po’
mossi. » continuo studiando, per quella che so sarebbe stata l’ultima volta, il
tuo volto, beatamente addormentato ed innocente. « Eravamo al parco giochi,
passavamo la giornata assieme, proprio come una vera famiglia. »
Mi
interrompo per costringermi a guardarti ancora, per trovare una ragione valida
che mi convinca che sto sbagliando, che il mio posto è qui, con te, nella casa
che abbiamo faticosamente comprato e in questo letto che abbiamo sempre
condiviso. Io ti amo N, ti amo con tutta me stessa e so che non c’è spazio per
nessun altro uomo nella mia vita all’infuori di te. Lasciarsi guidare da una persona
così meravigliosa quale sei è la cosa più bella che ci
sia e sono davvero felice di averti incontrato e imparato a conoscere in tutti
questi anni. Mi hai insegnato così tanto, mi hai reso migliore, hai mitigato il mio
caratteraccio preparandomi ad essere una madre dolce, responsabile e capace
d’amore.
No,
N, non sei tu quello che ha sbagliato. Se c’è qualcuno che l’ha fatto, qualcuno
che davvero non merita perdono, quella sono io. Tu mi hai donato tutto quello
che si può desiderare, mi hai permesso di entrare dentro il
tuo cuore e leggerti l’anima e io, invece, come ti ho ripagato? Mi sono
comportata come fossi un peso, ho approfittato delle barriere che hai
involontariamente eretto per obbligarti a trainarmi, ho sempre capito e
interpretato ciò che mi dicevi come volevo, non per quello che
effettivamente era. E anche adesso sono colpevole perché se la nostra storia
sta per finire, se non ci vedremo più, se farò soffrire egoisticamente
entrambi, il merito è solo mio.
«
So che saresti stato il miglior padre del mondo: sono pronta a scommettere che
Lovely si sarebbe perdutamente innamorata di te. Sei così
buono che è impossibile non amarti, N. » sussurro tra le lacrime piegandomi
appena e cingendo il tuo volto tra le mani « Ed è per questo che ti chiedo perdono.
»
Ti
bacio la fronte, rilassata e liscia, per poi posare le mie labbra un’ultima
volta sulle tue, scoprendole morbide come sempre.
Mi
sollevo, ti rimbocco le coperte e mi sistemo le borse: è tempo di andare,
Lovely mi aspetta…
«
Addio, N. »
Senza
il minimo ripensamento, senza voltarmi un’ultima volta, credo per paura, non
per altro, esco dalla camera chiudendomi delicatamente la porta alle spalle.
Non
odiarmi se puoi e cerca di capirmi: ho finalmente trovato la risposta al vuoto
che corrode il mio stomaco da troppo tempo e, come te prima di me, non posso
fare a meno di andarmene. Tu te ne sei andato anni or sono bramando delle
risposte che, una volta trovate, ti hanno portato da me; io me ne vado perché è
la fuga la risposta che cercavo.
Raggiungo
Lovely, ovunque lei sia.
Per
fare la madre, che tu mi hai insegnato ad essere.
Per
vestirla e coprirla di baci e carezze.
Per
raccontarle le fiabe più belle e di come io e te ci siamo incontrati.
Per
non farle mancare almeno uno dei due genitori e quindi costringerla alla
solitudine.
Per
narrarle di te e rassicurarla sul tuo arrivo.
Perché
tu ci raggiungerai N, ovunque ci troveremo: e noi, per allora, saremo pronte ad
accoglierti a braccia aperte.
Finalmente
potremo essere una famiglia perfetta.
The end
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NOTE SCONCLUSIONATE DELL’AUTRICE:
Dunque se siete arrivati per davvero fin qui,
allora vi devo fare le mie più sincere congratulazioni. Mi auguro di cuore che la
storia non vi sia sembrata noiosa e che vi piaccia più di quanto piaccia a me.
Oh beh, vi posso dire a cuor sereno che ci sono dei pezzi che aborro con tutta
me stessa ed altri invece che più o meno mi soddisfano. Ho lasciato il finale
volutamente aperto, senza dire a chiare lettere che la cara Touko si sta per
suicidare (o almeno così la intendo io, poi ogni lettore può interpretare la
storia come meglio crede, sia chiaro) per il semplice fatto che non volevo
creare “Icaro 2: la vendetta”. Quindi boh, magari se ne sta andando e basta,
chi può dirlo?
Una precisazione sul nome “Lovely”: tralasciando
il fatto che è volutamente scopiazzato da quello che porta la figlia del
cantante giapponese Miyavi, è vero, la traduzione letterale vuole che
all’italiano sia “amorevole”, ma può essere poeticamente tradotto con “ragione
d’amore”, proprio come detto da N (non me lo sono inventata >.<).
Penso di aver riletto questa shot non meno di
dieci volte prima di postarla nella versione che state leggendo: alla fine di
quest’interminabile auto-betaggio ho deciso che questa stramaledettissima
storia (scusate il gergo), che ha cercato di uccidermi svariate volte facendomi
disidratare a suon di pianti, andava bene così com’era e che, diavolo, se
trovate qualche errore o stonatura fatevi avanti, indicatemeli e io li
correggerò. Poi beh, dato che sono quasi le sei del mattino e che finalmente
sto per andare a letto, apprezzate per favore pure questo (e non crediate che
l’abbia scritta in uno giorno solo).
Spero davvero che la storia vi sia piaciuta. Mi
raccomando, fatemi sapere che ne pensate per favore.
Un bacio e alla prossima (che credo sarà o con la
famosa Lance/Sandra, promessa ad Akemi, o con la Green/Blue: in ogni caso il
tono tornerà a farsi leggero e comico, non temete XD).
Shin