3. Brave New World
“Wilderness, house of pain, makes no
sense of it all
Close this mind, dull this brain, Messiah before his fall
What you see is not real, those who know will not tell
All is lost, sold your souls to this brave new world”
Iron Maiden, Brave New World
Colin
si recò alle stalle che il
sole non era ancora sorto.
Quell’anticipo
era dovuto – oltre
ad un suo desiderio di scambiare qualche parola con Jared prima del
cambio di
forma – alla necessità di accordarsi sulla
destinazione della prima tappa del
viaggio. Se aveva ben capito, era da parecchio tempo che il ragazzo non
viaggiava all’est, e lui non aveva la mini ma idea di come
fosse il territorio,
da quelle parti; non possedeva nemmeno una mappa.
Le
I-Qëndrue erano grossi
edifici in pietra scura, che si
abbarbicavano su un fianco di Piccobuio con la loro geometria greve e
sgraziata; non avevano finestre, e le entrate, enormi archi rivestiti
di
piastrelle, erano privi di porte. All’interno, si trovavano
degli
scompartimenti abbastanza grandi per ospitare la mole di un drago,
divisi l’uno
dall’altro con delle pareti spesse circa due metri (questo
per evitare che gli
animali potessero abbatterle inavvertitamente) e chiusi con delle porte
d’acciaio temprato. Accanto ad ogni cubicolo c’era
poi una sorta di sgabuzzino
in cui i cavalieri sistemavano la sella e tutte le bardature dei
draghi.
Colin,
camminando nel corridoio tra
due file di celle, rabbrividì nell’udire i respiri
asincroni di centinaia di
animali, e si chiese cosa sarebbe successo se, per errore, li avesse
svegliati.
Per fortuna non era mai stato un tipo particolarmente rumoroso, e,
percorrendo
il corridoio in punta di piedi, riuscì a non destare
nessuno; naturalmente,
sapeva dove dirigersi: alla nascita, ad ogni uomo di Doruath-henn
veniva
riservato un posto nelle stalle, con tanto di nome e cognome,
nell’attesa che
riuscisse a trovare un drago. Il posto di Colin era stato occupato
tempo
addietro da qualche altro compaesano, visto che a tutti sembrava
sciocco
sprecare uno spazio che – quasi sicuramente –
sarebbe rimasto inutilizzato, ma
non si poteva dire lo stesso di quello di Eamon Farrell.
La
tradizione voleva, infatti, che
portasse sfortuna occupare la cella di un cavaliere morto in
circostanze non
naturali, e non erano pochi i posti inutilizzati da decenni. A Colin
quella
diceria non aveva mai fatto particolarmente paura, e non avrebbe avuto
comunque
altra scelta che prendere il vecchio alloggiamento del padre.
Si
trovava quasi in fondo al
corridoio, a sinistra. Una volta arrivato davanti alla porta, Farrell,
non
sapendo cosa fare, bussò delicatamente sulla superficie di
metallo, dandosi
dello stupido per tutta quella timidezza.
«Jared,
sei sveglio?»
«Entra
e non fare l’idiota».
I
chiavistelli gemettero sotto la
pressione delle sue dita. Spalancò la porta quel tanto che
bastava per farlo
passare, poi se la richiuse alle spalle; nella semioscurità
della stanza, gli
occhi azzurri di Jared brillavano a pochi centimetri da terra, segno
che il
ragazzo lo stava aspettando seduto sul pavimento di pietra (nelle
stalle non
c’era la paglia, materiale troppo infiammabile).
«Possibile
che tu debba essere
sempre così scorbutico?»
«Cerco
di farti diventare un po’
meno cretino, bifolco, anche se rischi seriamente di farmi perdere ogni
speranza. Con tutto il rumore che hai fatto si sarebbe svegliato
persino uno
Snaul... sai cos’è uno Snaul, vero?»
«Be’,
io...»
«Avrei
dovuto immaginarlo. Spera di
non incontrarne mai uno».
«Perché?»
«Non
so se riuscirò ad abituarmi
alle tue domande stupide».
Colin
sbuffò, alzando gli occhi al
cielo, e Jared si mise in piedi; l’azzurro degli occhi si
assottigliò
nell’oscurità, e la sua voce fendette nuovamente
l’aria.
«Quella
cos’è?» Non gli era
sfuggita la borsa rigonfia che Colin portava a tracolla;
annusò l’aria e
ridacchiò «Carne secca, gallette... acqua di
pozzo. Hai portato il cibo, vedo.
E... delle pezze di cotone?»
«Non
sono pezze...» disse Colin,
stringendo a sé la sacca «... ma vestiti. Per te,
visto mai dovessimo fermarci
in qualche villaggio per la notte. Non puoi andare in giro
nudo».
«A
questo non avevo pensato,
effettivamente. Ti ringrazio, Colin...» lo
sorpassò, aprendo la porta – che
ruotò sui cardini senza un cigolio – e avanzando
nelle tenebre con i passi
felpati di un felino predatore «... e sarei felice di poter
ricambiare il
favore, ma non abbiamo tempo. All’alba i tuoi amichetti
libereranno i draghi
perché possano cacciare, quindi non ci conviene farci
trovare qui. Si
insospettirebbero, e non voglio che qualche compagno troppo affezionato
ci
segua, o, peggio, tenti di riportarti indietro».
«Oh,
tranquillo, non credo di avere
compagni particolarmente affezionati... comunque, ci serve una
sella».
«E
suppongo che tu non l’abbia».
«No,
non una mia. Di solito vengono
fatte su misura per il drago e il cavaliere che le richiedono, ma temo
che
dovremo adattarci. Senza sella non posso volare, rischierei di
scorticarmi se
rimanessi seduto per troppo tempo sulle tue squame».
«E
noi non vogliamo che i gioielli di famiglia
subiscono traumi,
no? Ai miei tempi, i primi voli dei cavalieri erano senza alcun tipo di
protezione, per far sì che il legame tra uomo e drago fosse
più stretto e
cementato anche col dolore. C’erano anche cavalieri
più abili, però».
Ignorando
quell’ultima frecciata,
Colin si avvicinò alla porta dello sgabuzzino, al quale si
accedeva
dall’interno della cella. La chiave era andata persa anni
prima, e forse fu una
fortuna che, per tutti quegli anni, nessuno si fosse occupato della
serratura:
vetusta, cedé con uno schianto ad un calcio di Farrell.
Jared sibilò, seccato
da tutto quel fracasso.
L’interno
della stanzetta – un
cubicolo di tre metri quadri al massimo – era ingombro di
oggetti che emanavano
un pesante odore di cuoio marcio; Colin infilò il braccio
nel mucchio,
riemergendo, pochi secondi dopo, con una grossa sella
dall’apparenza robusta.
Era ancora intatta e aveva un odore gradevole, ma il cuoio sembrava
liso,
logorato in più punti per il troppo uso.
«Da’
qua». Jared la prese, e
Farrell si stupì di come, nonostante la costituzione minuta,
riuscisse a
sostenerne il peso senza il minimo tremito.
«È
bella... tuo padre doveva essere
molto ricco, per potersi permettere un lavoro simile».
Colin
annuì, osservando le dita
pallide di Jared che vagavano sul ricamo d’oro –
ormai pallido e sbiadito -
che correva su tutto il bordo della sella.
Era un motivo floreale di grande bellezza, eseguito da sua madre quando
lui era
ancora molto piccolo.
«L’anima
è fatta del legno dei pini
di Piccobuio... mio padre diceva sempre che nulla avrebbe potuto
spezzarla».
«E
forse è vero, ma... non è giusta
per te. Appena raggiungeremo una città dell’est
provvederò a fartene fare una
nuova».
«Perché?
Io sono alto all’incirca
come mio padre, per me va bene. Semmai è per te che non
va».
«Indubbiamente
non è adatta alle
mie dimensioni quando mi trasformo, ma c’è
qualcosa in questo oggetto che lo
rende inadatto anche a te, Colin. Non credere che la sua anima sia
soltanto
quella fatta di legno, perché c’è una
forza autentica che lo pervade... c’è
troppa solidità, in
questa sella,
perché tu possa usarla».
Colin
corrugò le sopracciglia, poi
disse:« Fammi capire... io non vado bene perché
non ho un animo solido?»
«Oh,
non è solo la tua mollezza
intellettiva il problema... questo discorso non varrebbe se la sella
fosse di
fattura comune, ma non lo è. È stata costruita
usando la magia, sono pronto a
giurarlo, e riconosce l’animo del suo utilizzatore. Sarebbe
consigliabile non
usarla affatto, ma non abbiamo molte alternative».
«Oh,
meraviglioso. Credi che ci sia
qualche sorta di antico sortilegio anche sulle briglie, o possiamo
usarle
tranquillamente?»
«Non
provarci nemmeno per scherzo».
«Eh?
Non saranno maledet-»
«No,
non sono maledette, ma ci sono
tre buoni motivi per non mettermele. Innanzitutto, quelle
non sono magiche, ma, forse proprio per questo, si sono
rovinate: la puzza di cuoio marcio arriva fin qui. Secondo poi, non
c’è motivo
per cui tu debba guidarmi, visto che sono io a conoscere il percorso e
non ho
bisogno di suggerimenti. Inoltre, e questa è la motivazione
più importante, mi
rifiuto categoricamente di farmi
infilare
un morso in bocca come qualsiasi stupida bestia».
Colin
lo fissò per qualche secondo,
allibito. Poi scosse la testa.
«Ok,
ok. Andiamo fuori, starà
sorgendo il sole».
«Tu
aspetti qui dentro finché non
ho finito, poi esci ad un mio segnale».
«Eh?!
E perché?»
«Non
voglio che tu mi veda mentre
mi trasformo».
Uscì
dalla stanza senza nemmeno
prestare attenzione alle proteste di Farrell, che rimase impalato con
la sella
tra le braccia. Quando, dopo una logorante attesa durata dieci minuti,
un
ruggito scosse fin nelle fondamenta le stalle, Colin, per paura che
qualcuno, a
quel richiamo, potesse accorrere, si precipitò verso
l’uscita; ad attenderlo,
sul declivio fuori le I-Qëndrue, stava
la mole scura di Jared, illuminato dai raggi del primo Sole.
Si
avvicinò al garrese del drago e
vi gettò sopra la sella, nell’intervallo
più largo tra uno spuntone e l’altro;
la parte in cuoio gli stava leggermente stretta (fortunatamente,
Jared-drago
manteneva le proporzioni sottili di Jared-umano), ma le sei cinture di
cuoio
che dovevano fissarla al corpo della creatura erano –
fortunatamente – lunghe
abbastanza per assicurarla bene. Dopo averla sistemata, Colin
saltò in groppa e
sistemò le staffe perché fossero
all’altezza giusta, poi si assicurò al corpo
le numerose cinghie che, in volo, servivano a tenerlo incollato al
drago anche
durante le evoluzioni più complesse. Afferrò
l’arcione con sicurezza, visibilmente
più tranquillo rispetto al primo volo, e
raddrizzò la schiena.
«Puoi
andare, Jared».
Non
fece in tempo a pensare al
suono dolce di quel nome, che il drago decollò con una
spinta ascensionale
fortissima, da fargli attorcigliare lo stomaco; si appiattì
il più possibile
sulla sella, seguendo i dettami dell’istinto, e, dopo qualche
minuto di volo
verticale, iniziò a scorgere attorno a sé le scie
vaporose delle prime nuvole
basse.
Bucarono
un velo compatto di nubi,
bianche come la prima neve autunnale, e solo a quel punto Jared
gonfiò le ali,
fermandosi a mezz’aria con un sobbalzo. Il panorama che si
scorgeva da lassù
era diverso da qualsiasi cosa Colin avesse mai visto prima: coltri di
nuvole di
ogni forma e dimensione si stendevano a perdita d’occhio, e
venivano
progressivamente illuminate dalla luce dorata del Sole nascente.
Brillavano
come gioielli preziosi, e qua e là si scorgevano sfumature
variopinte dove la
luce colpiva direttamente il vapore sospeso nell’aria; quello
spettacolo aveva
in sé una tale magnificenza che per qualche attimo Colin si
commosse, e
comprese, finalmente, che il suo viaggio era iniziato, e che da quel
momento
nulla sarebbe più stato come prima.
«È
magnifico... come puoi tornare a
terra, dopo aver ammirato uno spettacolo del genere?»
Il
drago descrisse un ampio,
lento cerchio orizzontale, forse – o,
almeno il cavaliere sperò che fosse così
– per permettergli di godere ancora un
po’ di quel panorama, poi, dandosi la spinta con contrazioni
possenti delle
ali, iniziò a volare velocissimo in direzione del Sole.
Colin si schermò gli
occhi con una mano, e rabbrividì: lassù,
nonostante il Sole sembrasse
infinitamente più vicino che a terra, faceva molto freddo;
avrebbe dovuto
prevederlo e vestirsi di conseguenza.
Procedettero
in quella direzione
per circa un’ora, tra le correnti d’aria a tratti
così fredda che Farrell
temeva di congelare e le vertiginose evoluzioni di Jared, perfettamente
a suo
agio in quell’ambiente. Il cavaliere si chiese come fosse
poter volare con le
proprie forze e solcare i cieli secondo la propria volontà,
andare a caccia
sulle montagne e nutrirsi di carne cruda; come faceva Jared a
destreggiarsi tra
due nature praticamente opposte senza impazzire? Come poteva piegarsi
ai
bisogni di una natura bestiale, ma divina e tornare poi a sguazzare
nell’iniquità umana come se nulla fosse?
Doveva
possedere un animo
incredibilmente forte, per sopportare quella situazione.
«Sai,
forse in fondo sei meno
stronzo di quello che sembri».
Senza
nemmeno dargli il tempo di
protestare, Jared emise un ruggito e inarcò la schiena, il
muso puntato verso
il terreno. Precipitò.
Lo
stava facendo apposta, quello
era chiaro, e si avvitava a velocità vertiginosa con la ali
premute contro il
corpo, sputando fiamme; Colin, sulla sua groppa, si era attaccato con
tutte le
proprie forze all’arcione, e malediceva il drago in tutti i
modi più coloriti
che conosceva, sperando che, una volta arrivati a terra – non
prima, altrimenti
sarebbe morto anche lui – gli si strappasse un’ala.
Jared
si stufò di quel gioco solo
quando ebbero oltrepassato l’ultima barriera di nuvole, e
ricominciò a volare
dritto con un ritmo lento e regolare. Colin, verde di nausea,
tirò comunque un
gran sospiro di sollievo.
Si
astenne dai commenti salaci per
la restante parte di viaggio.
In
compenso, a distrarlo dalla
frecciatine che gli premevano sulla punta della lingua, c’era
il paesaggio,
cambiato ancora una volta. Non si era reso conto della distanza che
avevano
percorso, immersi tra le nuvole, ma dovevano aver oltrepassato di molto
il
confine delle montagne: sotto di loro si stendeva un infinito mare di
verde
impregnato di nebbia grigiastra, che saliva al cielo sotto forma di
pigre
volute. Alberi altissimi bucavano a tratti quella coltre uniforme,
svettando
nella loro mole incredibile sui loro fratelli, visibilmente
più piccoli; Colin
udì distintamente le grida cavernose di molte creature, al
loro passaggio, e
vide stormi di strani volatili levarsi in volo centinaia di piedi
più in basso.
In certi punti, però, la cupola di miasmi era
così fitta da impedirgli di
distinguere qualcosa, salvo quell’onnipresente luminescenza
verde che sembrava
permeare l’intera foresta.
«Questa
parte di Storgronn ha un
aspetto più malato di quella che cresce sulle
montagne». Commentò. Si sentiva
un odore quasi impercettibile, ma ugualmente sgradevole, un misto di
foglie
marce e acqua putrida, che evidentemente saliva dalla vegetazione,
giù in
basso. Per qualche strana ragione quella percezione fece venire i
brividi al
cavaliere, che levò lo sguardo al cielo.
Fu
un attimo.
Colin
vide qualcosa sfrecciare
verso di loro ad una velocità folle, prima che quello che
sembrava un ago
piumato si infilasse con uno schiocco nel fianco di Jared; il drago
emise un
grugnito infastidito, e continuò a tirare dritto, ma non
durò per molto:
improvvisamente, Colin vide la testa scivolare verso il basso, seguita
inesorabilmente da tutto il corpo. Cadde in picchiata con un verso
lamentoso,
tentando debolmente di sbattere le ali che, inerti, si agitavano ai
lati del
corpo secondo la spinta del vento. Poi, sconfitto, chiuse gli occhi.
Il
cavaliere gridò come un ossesso,
incollato alla sella e schiaffeggiato violentemente dalla pressione del
vento.
La caduta di prima lo aveva spaventato, sì, ma quella era
una questione
completamente diversa: fuori controllo, il mondo gli vorticava intorno
in un
caleidoscopio di colori freddi, e le mani, unico punto ancora caldo del
corpo,
bruciavano per l’attrito con le cinghie, che aveva stretto
violentemente per la
paura – seppur immotivata – di staccarsi e
precipitare da solo.
Il
manto verde si avvicinava a
velocità vertiginosa, con tutti i suoi rumori stridenti e
l’odore di
putrefazione, che si faceva sempre più forte.
L’ultima
cosa che Colin riuscì a
percepire fu una boccata di aria afosa e mefitica, poi più
nulla.
***
Il
mondo era diventato nero.
Colin
aprì entrambi gli occhi,
assicurandosi che funzionassero ancora, e scrutò
l’immensa cupola vegetale che,
qualche metro sopra la sua testa, si apriva sul cielo buio;
inspirò, e l’aria
umida e calda fischiò nei suoi polmoni, quasi soffocandolo:
era densa,
sgradevole, sapeva di marcio e viscidume. Sembrava quasi che gli
togliesse le
energie.
Cercò
di tirarsi in piedi, scandagliando
con occhiate rapide e ansiose la penombra bagnaticcia in cui era
immerso.
Quando vide i legacci ancora saldamente attaccati al suo corpo,
realizzò
l’assenza della mole scura di Jared.
Si
guardò intorno, e vide subito la
sella, a mezzo metro da lui. Sotto la spessa struttura di legno e
cuoio,
abbandonato come una bambola bianca sul terreno coperto di felci
abbattute, il
corpo di Jared riluceva del bagliore della luna e della luminescenza
verde
della foresta.
Colin
trasalì, affrettandosi a
slegarsi, poi si alzò in piedi – le ossa gli
facevano un male terribile, ma non
si era rotto niente – e scostò la sella con un
calcio, scoprendo del tutto il
corpo del compagno.
A
parte un grosso livido
all’altezza della spalla, sembrava illeso. Il cavaliere gli
si avvicinò,
sfilando con un colpo secco il minuscolo dardo, ancora conficcato sul
suo
fianco; Jared sussultò, socchiudendo leggermente gli occhi.
«Ehi,
stai bene?» Colin,
guardandosi intorno, notò che gran parte degli alberi
attorno a loro erano
scorticati o abbattuti. Evidentemente, nella caduta, il gigantesco
corpo del
drago si era aperto quel varco tra gli alberi.
Jared
emise un mugugno, sollevando
un braccio. Brancolò nel vuoto per qualche secondo, poi
afferrò l’ago che Colin
ancora stringeva tra le dita; se lo portò davanti agli
occhi, mezzelune celesti
innaturalmente chiazzate di luce verdognola, e contrasse il viso in un
ghigno
rabbioso.
«Merda...»
ringhiò, tirandosi a
sedere con una smorfia di dolore. Trasalì, stringendosi una
gamba, quando tentò
di alzarsi in piedi, e si rimise immediatamente seduto.
«Che
succede?»
«La
gamba... ho paura che sia
rotta». Indicò un punto in cui la pelle era tesa,
lucida e visibilmente gonfia,
pochi centimetri sotto il ginocchio «Ma forse posso fare
qualcosa».
Colin
trattenne il respiro, mentre
Jared poggiava le dita sul gonfiore e mormorava delle parole in una
lingua
stranissima, piena di sibili e sospiri; lentamente, una luce bianca
sembrò
illuminargli le dita, ma, dopo un certo aumento
d’intensità, svanì miseramente
nell’arco di pochi secondi. La gamba era tale e quale.
«Che
significa?»
«Significa
che quella maledetta
freccia era avvelenata... merda!»
Urlò, battendo un pugno a terra «Mi ha tolto tutta
l’energia. Se non troviamo
alla svelta un modo per andarcene di qui, chi mi ha tirato quella cosa
ci verrà
a prendere... anzi, strano che non l’abbia già
fatto».
«Ma...
non possiamo muoverci. La
tua gamba, e poi la sella...»
«Lascia
lì quel maledetto affare.
Che il cielo mi fulmini se non è anche sua la
responsabilità di questo
disastro... sono stato un idiota a permetterti di usarla».
«Vuoi
dire che quella cosa porta
sfortuna?»
«Sì,
e sarà meglio lasciarla a
marcire nel bel mezzo di questa foresta. Adesso aiutami, dobbiamo
scappare».
Aggrappandosi
a Colin – che, nel
frattempo, sembrava sprofondato in stato catatonico – Jared
riuscì a tirarsi in
piedi, senza appoggiare la gamba. Provò a muovere un passo,
ma un piede solo
non ce la faceva a mantenerlo in equilibrio, e, se Farrell non
l’avesse
afferrato in tempo, sarebbe caduto a terra.
«Non
ce la fai, così... devo
portarti in braccio».
Jared
sgranò gli occhi.
«Non
se ne parla. Non sono ancora
diventato una donnicciola, e...»
«Senti,
posso tollerare che tu mi
interrompa quando parlo, posso chiudere un occhio sulle tue prese in
giro da
rompicoglioni e posso far finta che tu non cerchi in ogni momento di
mettermi
in difficoltà, ma non posso accettare di rischiare la vita
per causa tua.
Quindi...» Si piegò, passando le braccia sotto le
ginocchia di Jared e
sollevandolo come se si trattasse di un fuscello «...
sta’ zitto e fatti
portare. Potrai vendicarti di questo terribile
affronto quando starai meglio».
Il
ragazzo, sorprendentemente, non
si ribellò. Rimase immobile, seppur vagamente imbronciato,
e, se una qualsiasi
persona avrebbe potuto trovare la situazione divertente – un
ragazzino nudo
come un verme incastrato malamente tra le braccia di un tipo che era il
doppio
di lui – Colin iniziò a sudare freddo.
Come
avrebbero fatto, senza un
dottore?
L’unica
speranza era che Jared
recuperasse le forze.
«In
che direzione vado?»
«Credi
forse che abbia una bussola
incorporata? Uh, aspetta...» alzò lo sguardo verso
il cielo, corrugando le
sopracciglia «... dovrei essere capace di orientarmi con le
stelle. Tanto,
anche se sbagliassimo, dubito che riusciremmo ad allontanarci troppo
dalla
nostra meta».
«Quindi...
qual è il piano?»
«Cerchiamo
di allontanarci da
questo posto e di evitare che gli abitanti del posto usino le nostre
teste per
ornare le loro capanne – no, non fare domande –
poi, se all’alba siamo ancora
vivi, ce ne voliamo via da
qui. Avevo
pensato di fare tappa in un posto sicuro a qualche miglio da qui, ma,
evidentemente, i miei programmi slitteranno di un giorno. Ah, da quella
parte».
Colin
seguì docilmente la direzione
indicata dal dito del ragazzo, facendosi largo come meglio poteva tra
la
vegetazione fittissima e le liane che intrecciandosi esattamente
all’altezza
dei suoi occhi, sembravano avere tutta l’intenzione di
accecarlo. Jared cercava
di aiutarlo, ma non poteva muoversi troppo per non infastidirlo e il
raggio
d’azione delle sua braccia era troppo breve per servire
realmente a qualcosa.
Ad
ogni passo, percepiva
distintamente un animato strisciare attorno ai suoi piedi, come di
creaturine
che si davano alla fuga percependo la sua presenza. Quel posto, poco ma
sicuro,
era il luogo peggiore in cui fosse mai stato in tutta la sua vita...
Camminò
a lungo, resistente alla
fatica come potevano esserlo solo le genti di montagna, abbattendo gli
ostacoli
che riusciva a buttare giù ed evitando quelli troppo
resistenti. Alla fine,
però fu costretto a riposare.
Trovò
una larga pietra piatta,
completamente ricoperta di muschio ed erbetta, e, dopo averci
appoggiato Jared,
si sdraiò accanto a lui; il ragazzo sembrava stanco,
spompato: sudava, a tratti
qualche brivido scuoteva le sue spalle sottili.
«Ehi,
tutto ok?»
«T-tutto
a posto,» serrò i denti «anche
se non credo sarà così per molto».
«È
il veleno? Ti fa star male?»
«No...
non credo fosse un veleno fatto
per uccidere. Ma mi toglie ogni forza, e non riesco ad usare la magia
per curarmi...
di questo passo, la ferita finirà per infettarsi».
«Magia...
non c’è, che so, qualche erba
medicinale che potremmo usare?» Gli toccò la
fronte con il palmo della mano, preoccupato
«Scotti. Sulle montagne crescono certe piante che ti
abbassano la febbre, se le
mangi, ci fai un infuso o un impacco. Qui, invece...»
«Non
troverai nulla di buono in questa
foresta, nulla che possa curarti. Solo nel suo centro, dove vivono gli
abitanti,
ci sono stagni di acqua pura e cibo commestibile... qui è
tutto putrido».
«Tranquillo,
dobbiamo solo resistere
fino a domani. Ce la faremo, Jared».
_Angolo
del Fancazzismo_
Dunque...
buongiorno :D! Spero che questo
capitolo vi sia piaciuto (cominciamo ad entrare nella parte
più avventurosa della
storia, preparatevi al peggio) e vi ringrazio per le stupende
recensioni dello scorso
capitolo.
Ci
vediamo al prossimo chap!
See
you soon,
Roby