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Autore: _Calliope_    07/09/2011    2 recensioni
Il punto è che l'ha sempre affrontato con la rabbia. Non sa come altro fare.
Hibari è morto. Dino angsta e si interroga sulla dubbia pertinenza di un'iscrizione latina.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Dino Cavallone, Kyoya Hibari
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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S.T.T.L

 

Il punto è che l'ha sempre affrontato con la rabbia. Non sa come altro fare. Quando è morto suo padre, si è arrabbiato con lui per il peso enorme che gli stava scaricando sulle spalle, e con le proprie spalle, perché non erano abbastanza forti, all'epoca, e con se stesso, perché non era né Atlante né Ercole e il mondo era pesante, pesante.

(Così si era dimenticato temporaneamente dell'uomo che gli leggeva le Storie della storia del mondo quando era piccolo e che gli aveva insegnato una macchina senza precipitare in un fossato e a distinguere il vino buono da quello cattivo. Quando poi si era ricordato di quell'uomo era tardi, e l'aveva superata e gli era rimasto solo un sapore dolceamaro in bocca, strano ma non del tutto spiacevole. L'aveva superata.)

Ce n'erano stati altri, ovviamente. Lorenzo, che conosceva dalle elementari ed era stato freddato con un colpo di pistola in mezzo agli occhi, e Gaetano, praticamente suo nonno, che a settant'anni si era rifiutato di cedere ad un ricatto ed era stato bruciato vivo dentro casa sua, e Simona, Dio, Simona, la prima cotta della sua vita, ritrovata in un cassonetto con le mani e i piedi legati e un'espressione di puro terrore dipinta sul viso. Come si fa a reagire a tutto questo, sapendo che è sbagliato e che deve finire, subito, ma non può perché tu ci sei dentro, tutti ci sono dentro, l'intera penisola e l'intero pianeta e l'intero universo, tutti ci sono fottutamente dentro e se cerchi di distruggerlo verrai distrutto con lui?

Ma come fai, allora, ad abituartici? Non lo fai. Abituarsi è la fine, è ammettere la sconfitta. Come si può, allora, curare una cosa del genere?

Con la rabbia. E la vendetta.

Dino si è arrabbiato. Più di una volta. E si è vendicato, ampiamente. Ripensandoci, probabilmente all'epoca sembrava un pazzo. Non parlava, non dormiva, combatteva soltanto. Anzi, uccideva soltanto, perché loro leggevano la morte nei suoi occhi e sapevano di non avere scampo e questa era la loro fine, quasi non riuscivano a difendersi. Gli era venuto da ridere, per assurdo, pensando alle parole dette anni e secoli prima. “Se non senti di aver perso, allora non hai perso”.

Quei pezzi di merda erano già morti prima di esalare il loro ultimo respiro. Erano morti quando l'avevano guardato e avevano sentito i suoi passi.

Suggestione? Chissà.

L'altro punto è che nulla di tutto questo ha importanza. È solo in mezzo al sangue dei suoi assassini, ma questo non servirà a riportare Kyoya indietro. Fine.

 

 

Il terzo punto è che non ha nessuno con cui arrabbiarsi. È andato a cercarli uno per uno, quelli che l'hanno ucciso, e li ha uccisi a sua volta, e basta. Non gli ha dato alcun sollievo.

Adesso non c'è più nessuno a cui dare la colpa. Neanche se stesso, perché se non fosse stato a qualche chilometro di distanza ma insieme al suo (ex) allievo, avrebbe sì potuto salvarlo, ma poi non sarebbe riuscito ad evitare una catastrofe nucleare o qualcosa di simile e sarebbe stato peggio. Non per lui, ovviamente, per il resto dell'umanità.

Già già. Il resto dell'umanità. È ridicola come cosa, in fondo: stavano combattendo una guerra giusta. Il che è una contraddizione, naturalmente, ma è stato provato molto tempo fa che le contraddizioni non sono impossibili da realizzarsi ed ecco, Hibari (Hibari!) che impedisce al cattivo di turno di distruggere l'umanità o nonsocosa, Hibari che combatte, che muore per una giusta causa. Ridicolo. Assurdo.

 

Cosa c'è dopo la rabbia e la vendetta? Dino non si è mai avventurato così lontano, ma per lui, di nuovo, espande i suoi limiti. È sempre stata una questione di limiti, comunque.

Dopo la vendetta c'è il ricordo.

 

Ricorda il tetto di una scuola, e sangue e dolore fisico che non hanno importanza ma sono destinati ad un fine superiore, e lunghi monologhi interrotti da pochi monosillabi e ancor più lunghi silenzi, ricorda risate e occhiatacce, e uno sguardo mutevole come il mare, serio o sarcastico, ricorda il sapore del metallo in bocca e di labbra straniere sulle sue. Ricorda di una vita passata a rincorrersi, e un corpo senza vita sul pavimento, e le ultime, insolenti parole del suo proprietario.

Sembri sconfitto”.

Ricorda lacrime annidate proprio dietro ai suoi occhi, che non vogliono saperne di scendere, e la propria risposta.

Lo sono”. Mi hai sconfitto.

Ricorda un sorriso crudele e predatore, l'unico che possedesse, usato al posto di altri sorrisi più gentili.

Bene”.

Ricorda un respiro, l'ultimo. Ricorda il vuoto.

E adesso?

 

 

È una sensazione infantile, in effetti: provare così tanto dolore da non riuscire a pensare ad altro che ad esso e al fatto di non sapere come farlo smettere. Se si fosse rotto una mano, un braccio o una gamba, ci si sarebbe raggomitolato sopra e avrebbe aspettato che passasse. Ma ora è tutto il suo essere a provare dolore, e lui non sa su cosa raggomitolarsi quindi stringe i denti e basta e spera che passi.

Non passa.

Dopo ogni sconfitta, ogni morte, ogni dolore, Caterina ha l'abitudine di stringergli la mano e dire, seria: “Sei ancora qui. È questo l'importante”.

È una cosa davvero semplice, delle parole di conforto, ma ha sempre il potere di farlo sentire un po' meglio e spingerlo ad alzarsi per tentare di raddrizzare un po' lo stupido mondo. Non è finita.

Ma questa volta si chiede se sia davvero importante, essere ancora qui. Se sia davvero importante ora che “qui” non è rimasto nulla, per lui. Non c'è nulla ad ancorarlo a terra.

 

Ricorda due lapidi, e uno sguardo corrucciato.

Cosa vuol dire?”, e una mano che indica quattro lettere.

Ricorda la propria spiegazione, e la sensazione familiare – andata, persa per sempre – di far capire qualcosa e di essere ascoltato. Ricorda di aver concluso: “Molto pessimistico, lo so”.

No”.

Ricorda la propria sorpresa.

No?”

Per niente. Cos'altro vorresti scrivere, su una tomba? Il paradiso non esiste, l'inferno è sulla terra. Questo è il massimo che tu possa augurare ad un morto”.

Ricorda un brivido freddo lungo la spina dorsale, qualcosa che all'epoca si era rifiutato di considerare un presentimento. Ricorda un sorriso crudele e predatore, sempre lo stesso, che aveva trovato più terrificante del solito.

 

Adesso, fissando quei quattro caratteri latini persi in mezzo a parole in un alfabeto straniero, pensa che sia veramente ridicolo il fatto che si trovino su quella tomba, dato che Kyoya è – indiscutibilmenteuna creatura dell'aria.

Dino lo sa perché, guardandolo, provava la stessa sensazione di quando si osserva il volo di una rondine: un misto di invidia, malinconia e quell'indescrivibile struggimento causato dalla vista di qualcosa di bello.

Kyoya è indiscutibilmente una creatura dell'aria, quindi se il suo spirito o la sua anima si trovano da qualche parte, checché ne dica lui stesso, non è sicuramente quella tomba o quella terra. Eppure non ha potuto fare a meno di lasciare una traccia di sé sulla lapide che sta fissando, un segno di appartenenza, forse, o di sconfitta.

Vede – o ricorda? - un uomo che lo guarda, incerto sul da farsi, desideroso di consolarlo ma impaurito dalla possibilità di causare solo danni. Il decimo boss dei Vongola, Tsuna, il suo fratellino. L'uomo e il ragazzo si confondono nella sua mente, così come si confondono il guerriero invincibile e il suo allievo testardo, i segni della battaglia e la pelle bianca, incontaminata, la preoccupazione e l'arroganza, gli insulti e le parole che ne hanno solo l'aspetto, la morte e la vita, l'aldiqua e l'aldi. Dino non è più tanto sicuro di essere ancora qui, come dice Caterina, ma no, non ha importanza, se adesso Kyoya è lì.

L'uomo, che nella sua testa è un ragazzino, una versione più giovane di se stesso, oppure una persona completamente diversa, accarezza con dita delicate i caratteri sconosciuti e chiede: “Cosa vuol dire?”

Il suo tono è incerto, gentile, sbagliato, ma a Dino non importa, perché deve rispondere o forse ha già risposto o forse ha solo bisogno di qualcuno a cui spiegare le cose per capirle lui stesso. Come al solito.

È latino”, mormora. “Un acrostico. S.T.T.L., sit tibi terra levis. Ti sia lieve la terra”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Deliri Post Partum:

Iniziamo con delle precisazioni. First of all, NON HO IDEA di dove o quando si svolga questa cosa. Nel futuro, ovviamente, quando il mondo è in pericolo e come al solito i nostri molluschi devono tirarlo fuori dai guai. Magari in uno degli universi paralleli in cui Byakuran ha vinto. BBOH. POI! http://it.wikipedia.org/wiki/Sit_tibi_terra_levis per coloro che vogliono... avere un riferimento. Non dice nulla di più di quello che ho detto io (cioè lo stretto indispensabile), ma enzomma. It's there. Infine, per chi non lo sapesse già, Caterina è una molto ipotetica, molto immaginaria e molto inventata migliore amica di Dino il cui peso in questa storia è quello di un moscerino anoressico ( = nullo).

Detto questo, OHIBÒ. Che è sta roba? Una specie di... grumo di angst e classicfaggery. MA PERCHÉ NON MI TRATTENGO OGNI TANTO CHE FAREI UN FAVORE A TUTTI OTL. MA! C'è un motivo per l'esistenza di quella che chiameremo “La Cosa”. Anzi, tre. La prima è che vox populi dicet ut (? non so neanche che preposizione ci vada PFFT.) non puoi considerarti una vera scrittrice di D18 se non hai mai scritto un grumo di angst e tristaggini varie in cui uno dei due cretini è morto e l'altro piange la sua scomparsa e si strappa i capelli e si cosparge il capo di cenere e uccide senza pietà il suo assassino e lo lega al proprio carro e traina il suo cadavere intorno alle mura della città per dieci volte. MA PUÒ FARLO ANCHE SOLO INTERIORMENTE! Il che è un sollievo dato che in caso contrario non esisterebbero veri scrittori di D18 a meno che qualcuno non fosse così perverso da fare un crossover folle tra Reborn e l'Iliade (CHE IO LEGGEREI SUBITO BTW. E CON MOLTO PIACERE). But I digress! La seconda ragione: ho appena letto le Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar e e e e e çAAAAAAAç MAI GOD. Mi sento veramente una scribacchina da quattro soldi quando vedo 'ste cose. Leggetelo. Non ve ne pentirete.

Terza ed ultima ragione: sta per ricominciare la scuola. Ditemi pure che non vi sentite anche voi nel mood giusto per angstezze e tristaggini. TANTO SO CHE MENTITE. (?)

Bene! Ho rovinato completamente il pathos (QUALE?), rincoglionito i miei lettori (QUALI?) con i miei vaneggiamenti ed infilato qualche arcaismo e qualche inglesismo qua e là (QUESTO SÌ). Posso ritenermi soddisfatta e ritirarmi nel mio ben noto eremo solitario, anche perché sono le tre di notte *awesomeface*. Shalom!

~ Callie

  
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