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Autore: VaniaMajor    11/09/2011    5 recensioni
Organizzare da sè le proprie vacanze può essere più rischioso di quanto si pensi...Un mio vecchio racconto horror (2001), nato per un concorso.
Genere: Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Riaprì gli occhi a fatica, confusa. Costrinse le palpebre pesanti ad aprirsi per permetterle di vedere cosa non andava, perché la pervadesse una sensazione di errore, di pericolo. In un primo momento, non vide nulla; poi si rese conto di trovarsi in un vicolo umido e buio. Era notte. Non c’era illuminazione nelle vicinanze che potesse garantirle una visione più chiara. Gemette, sentendo duri spuntoni premerle sulla schiena, mentre tutte le sue ossa protestavano per la posizione in cui era rimasta, immobile, per chissà quanto. Provò ad alzarsi, ma le occorsero diversi tentativi prima di riuscire nell’impresa. Alla fine si alzò in piedi, barcollando, con una smorfia di disgusto e paura sul viso. Era rimasta semidistesa tra due vecchi bidoni dell’immondizia. Parte dei rifiuti le si era rovesciata addosso da sacchetti pieni fino a scoppiare lasciati con incuria nel varco tra i contenitori, e ora era impregnata dell’odore penetrante di marciume. I suoi vestiti macchiati erano lacerati. I leggeri collant che indossava le correvano sulla pelle in fili sottili, tra una smagliatura e l’altra, inducendola a pensare con una smorfia alle tipette punk degli anni ottanta. Aveva perso una scarpa.
«Dio mio…» mormorò, levandosi i capelli dal viso e appoggiandosi alla parete. Il vicolo era cieco. Perché ci si era infilata? E perché dormiva tra due bidoni dell’immondizia ridotta in quello stato? L’orrore la riassalì con prepotenza, riportandole alla memoria gli avvenimenti di quegli ultimi due giorni. Fu scossa da un tremito convulso e serrò le labbra per non gridare. D’un tratto rammentò di essere piombata sui bidoni, quando, troppo tardi, si era resa conto che la sua fuga terminava in quel vicolo cieco. Doveva essere svenuta. Ma lui dov’era?
«Karl…» mormorò, cominciando a camminare verso la buia uscita del vicolo. Barcollando, si tolse l’altra scarpa e continuò a piedi nudi, aprendo nuovi buchi nelle calze ormai da buttare. D’un tratto le girò violentemente il capo. Caracollò e cercò di nuovo la sicurezza del muro umido.
«Karl?» chiamò ancora. Perché non era con lei? Che avesse tirato dritto? L’aria era immobilizzata in un silenzio innaturale, che la fece rabbrividire di nuovo.
«Karl?!» La voce le tremava. Uscì dal vicolo ed entrò in strada. Un unico lampione, sulla sinistra, era acceso; lungo il viale, sembrava che l’elettricità fosse saltata. La donna si diresse verso l’unica, grossa lucciola che rischiarava la notte. Quando giunse sotto l’alone di luce, si guardò attorno, ansiosa. Ricordava di aver percorso il lungomare, prima di infilarsi in quella via e quindi nel vicolo. Rabbrividì di nuovo. Avrebbe dovuto rischiare e tornare indietro. Si passò una mano sugli occhi, scacciando le lacrime che minacciavano di affiorare. Osservò con angoscia il lieve luccichio della fede alla luce bianca del lampione. Si inoltrò di nuovo nella tenebra con passo spedito, impedendosi di pensare a cosa sarebbe successo se l’avessero trovata. La strada vuota era ora spazzata da un vento freddo e umido che veniva dal mare e che infranse il silenzio con la sua voce aliena, straniera. Poteva sentire le onde frangersi sulla costa. L’oceano era agitato, quella notte.
«Mai quanto me, tesoro. Mai quanto me.» sibilò tra i denti. Sbucò in una piazza circolare, che di giorno doveva apparire amena. La pavimentazione in cotto, la fontana con l’aragosta al centro, il lungomare che si allungava a destra e a sinistra, delimitato da un lungo serpente di ringhiera.
«Karl!» chiamò, spazzando la zona con sguardo febbrile. Venne avanti, tenendo stretti al seno i resti della camicetta. La piazza era vuota. Nessuno era in giro. Il vuoto della notte era allarmante, da far gelare il sangue.
Quasi cadde quando inciampò in un ostacolo cedevole ma massiccio. Si tirò indietro con un ansito, cercando di ritrovare l’equilibrio sui piedi scalzi. A terra si allungava una forma scura. Si avvicinò, protendendo una mano tremante. Toccò quella forma fin troppo familiare ed essa compì una mezza rotazione, liberandosi dalla posa scomposta per trovare un equilibrio più solido. Con suo sommo orrore, un corpo umano mutilato alzò gli occhi vuoti al cielo notturno.
Lo stomaco le si chiuse in una morsa crudele. Il cuore compì un balzo doloroso, squassandole il petto, per poi fermarsi per un lungo istante che le fece perdere il fiato. La mandibola ricadde, molle e aperta in un grido afono, mentre le mani salivano ad artigliare crudelmente la pelle delicata delle guance. Sebbene non un suono uscisse dalla sua bocca, la mente era martoriata da grida isteriche, acute e folli, che annullavano qualsiasi pensiero razionale.
Ai suoi piedi giaceva il corpo di Karl, suo marito, l’uomo che aveva sposato appena una settimana prima. Le ombre della notte non potevano nascondere il fatto che l’uomo fosse morto. Un braccio era stato spiccato dal corpo e portato via per chissà quali scopi. Il moncherino insanguinato, da cui sporgeva la bianca cavità della scapola, faceva pensare ad una bambola rotta. Gli mancava un piede. I suoi vestiti erano a brandelli. Metà della faccia era scarnificata; avrebbe potuto giurare di vedere i segni dei denti che avevano compiuto quello scempio. I capelli del morto giacevano inerti sull’asfalto, intrisi di sangue. Gli occhi vitrei erano fissi al cielo.
Mentre un sibilo strozzato cominciava a farsi strada attraverso la sua gola serrata, cadde in ginocchio accanto al corpo. Si schiacciò le mani sulla bocca, fissando ciò che restava dell’uomo che amava. Sapeva che sarebbe finita così. Oh, sì! Lo sapeva da quando avevano visto quella cosa orribile, solo la sera prima. Perché poi avessero scelto di scoprire posti nuovi durante il viaggio di nozze, ancora non riusciva a capirlo…
Tutti avevano sconsigliato un azzardo del genere, ma Karl non aveva voluto sentire il parere di nessuno. No, non faremo il solito viaggio organizzato. No, io e Anita non ci facciamo problemi. Viaggiare ci piace, scoveremo posti nuovi e nascosti. Dio, le pareva di sentirlo mentre ripeteva quella litania ad ogni parente o amico durante la preparazione delle nozze.
Nozze fantastiche, le loro. Lui era bellissimo nel suo abito blu e lei risplendeva di gioia, mentre le damigelle la scortavano all’altare. Aveva pensato con rammarico che suo padre sarebbe stato felice di accompagnarvela, ma un cancro l’aveva portato via due anni prima ed era stato il fratello di lei a ricoprirne il ruolo. Parenti e amici li avevano festeggiati, la giornata era stata perfetta. Quella sera stessa erano partiti per il loro viaggio di nozze sulla costa orientale degli Stati Uniti. Il viaggio si era svolto rigorosamente in auto, benché i due giovani vivessero nell’Indiana. Niente aereo, aveva sentenziato Karl, e lei si era trovata d’accordo.
Avevano tralasciato le grandi città. Per alcuni giorni erano passati di paese in paese, fermandosi una sola notte, godendo dei luoghi caratteristici e del profumo dell’oceano. Poi, solo il giorno prima, erano penetrati in una depressione della costa. La strada asfaltata proseguiva in cima alla scarpata, ma la vista della sterrata era stata un richiamo troppo forte per Karl. L’avevano imboccata, procedendo per mezza giornata in mezzo a fitta vegetazione. Quando davanti a loro era comparso quel piccolo paesino, quasi non ci avevano creduto. Avevano deciso di fermarsi. L’albergo, una pensione di poche stanze, era vuoto. Strano, in alta stagione, ma il paese era così isolato che non vi avevano fatto molto caso.
Quella sera, si erano resi conto che l’entusiasmo verso i nuovi turisti nascondeva qualcosa di macabro. Il personale dell’albergo, a cena, li aveva fissati con espressioni lubriche, fameliche. Lei aveva sentito la pelle accapponarsi, sentendosi scivolare addosso sguardi che non le piacevano. Karl l’aveva derisa per i suoi timori, ma la sua risata suonava falsa e nervosa. Avevano fatto una passeggiata sul lungomare ma avevano capito subito che qualcosa non andava. Le strade erano deserte, non passavano né pedoni né automobili. Quando avevano visto un’ombra furtiva aggirarsi per i vicoli, entrambi avevano avuto un sobbalzo. Era un uomo, con in spalla un fucile. Sulla schiena portava qualcosa che aveva tutta l’aria di essere una persona priva di sensi. Karl aveva fatto per avvicinarsi, pronto a offrire il suo aiuto, ma qualcun altro si era approssimato al cacciatore. Era il portiere dell’albergo. Lo avevano sentito chiedere a bassa voce com’era andata la caccia. Il cacciatore aveva ridacchiato, battendo una mano sul corpo sulla sua spalla, che era scivolato un po’, inerte.
Lei e Karl si erano resi conto con orrore che si trattava di un cadavere. Sotto i loro occhi orripilati, il portiere aveva staccato un dito al morto con un coltello, per poi iniziare a sgranocchiarlo come uno stuzzichino da antipasto.
Ancora si detestava per averlo fatto, ma non aveva potuto frenarsi: aveva gridato. Poi, ricordava solo la fuga. La fuga estenuante, frustrante, piena di terrore nel rendersi conto che era una comunità intera ad essere sulle loro tracce, a seguirli come animali da preda. La giornata era trascorsa ad arrampicarsi nei boschi, sul crinale; tornare a prendere l’auto all’albergo sembrava una follia, mentre sentivano le voci degli abitanti lanciati al loro inseguimento provenire da dietro ogni tronco, ogni cespuglio.
La strada principale era bloccata, i boschi pieni di cacciatori…oh sì: cacciatori, e loro erano le prede! Per qualche miracolo erano riusciti a sfuggire alla cattura, ma non ad allontanarsi dal paese. Karl, all’imbrunire, aveva deciso che dovevano tornare a prendere l’auto. Era l’unica possibilità. Si erano nuovamente avventurati nel paese silenzioso, vuoto; tutti erano a caccia. Erano giunti alla macchina; aveva pensato, per un attimo esaltante, che sarebbero riusciti a fuggire. Poi, quattro di quei cannibali erano usciti da un vicolo. Era iniziato l’inseguimento. Karl l’aveva incitata a correre. Aveva sentito la sua voce allontanarsi alle sue spalle, poi sparire. Si era gettata a capofitto nel vicolo. Era svenuta.
Ed ora, questo. Suo marito era morto. Lei stessa non sarebbe sopravvissuta a lungo, vittima di cannibali nei civilizzati Stati Uniti d’America. Si alzò in piedi, tremando. Mandò un ultimo bacio al corpo mutilato di Karl, poi si avviò verso il mare. Preferiva affidarsi alle onde dell’oceano che morire divorata. Scavalcò la barriera del lungomare e cadde sulla spiaggia, lasciandosi sfuggire un’esclamazione di dolore. Si tirò in piedi per pura forza di volontà e percorse i pochi metri che la separavano dall’oceano. L’acqua gelida le tolse il respiro. Sorrise, una smorfia penosa che le storse la bocca in un ghigno di inconcepibile orrore. Non avrebbero pasteggiato col suo corpo!
Si immerse. L’agonia non durò a lungo.

«Davvero un peccato.» mormorò poco dopo il capo della polizia locale, riunito con gli altri sulla spiaggia. L’oceano si era preso la donna. Se e quando l’avesse restituita, non sarebbe più stata buona a nulla. Tirò fuori dalla tasca un lembo di carne e ne morsicò un pezzo, distrattamente, mentre già cominciava a dare ordini ai suoi concittadini.
«Coraggio, mettiamo in fresco il corpo di quell’altro.- disse, voltando le spalle all’oceano- E liberate la strada. Non si sa mai quando potrebbe capitare il prossimo turista fai-da-te…»

   
 
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