No
one knows what it's like
to feel these feelings, like I do.
And I blame you.
No one bites back as hard on their anger,
none of my pain and woe can show through.
But my dreams they aren't as empty,
as my conscience seems to be.
(Behind blue eyes - Limp Bizkit)
Era una mattina piena di nuvole come
tante altre mattine in cui non avevo nemmeno tempo da perdere dietro al corso
prematrimoniale. Mi si prospettava un dolce far niente così lungo davanti che l’idea
quasi mi metteva angoscia. Il caffè continuava ad arrovellarsi rincorrendo il
cucchiaino nella mia tazza; il tintinnio dei piatti che Milla sciacquava
accuratamente riempiva l’aria fresca della cucina.
“Tesoro, quanto altro ancora vuoi girare quel caffè?”, mi chiese, un sorriso
materno sulle labbra mentre si asciugava le mani in uno straccio. Ecco,
materno. Milla mi ricordava tanto la mia mamma.
Aveva quei capelli, non rossi, ma vaporosi e avvolgenti come i suoi. E mi
fissava sempre dal basso del suo metro e sessantacinque con l’autorità di una
montagna. Più che una colf che compariva ogni mattina in casa mia preparandomi
pasti e pulendo casa a destra e a manca, era come una seconda mamma.
La mia quasi moglie continuava a gridarmi dietro che ero un uomo e che avrei
dovuto liberarmi di lei, che non avevo bisogno di qualcuno che stirasse le mie
camicie e mi preparasse da mangiare. “Sei grande, grosso e vaccinato.”, mi
rincorreva la sua voce penetrante. Ma come avrei potuto rinunciare a Milla solo
per quell’assurdo sbraitare?
“Sto aspettando che si sfreddi.”, risposi mentre la piccola donna spalancava il
forno rovente e ci infilava dentro una crostata.
“Non hai il corso, oggi?”, scossi il capo in segno di negazione e lanciai
un’occhiata alla lavagnetta oltre il frigo per assicurarmi che fossi davvero
libero. Poi mi frullò un’idea per la testa. Senza pensarci troppo su presi il
cellulare e cercai velocemente un numero in rubrica. Lasciai squillare e
attesi, paziente.
“Pronto? Chi parla?”
“Sono io.”, sorrisi di riflesso nel percepire quella voce familiare oltre la
cornetta. Milla roteò gli occhi dolcemente e mi lasciò telefonare il solitudine
sparendo oltre la porta a vetri.
“Tom, ti ho detto mille volte che non devi chiamarmi a lavoro. Sto lavorando.”,
provava ad avere un tono di rimprovero, che non le riuscì. Tradiva quasi una
risata.
“Stavo pensando…”, la ignorai. “Che oggi mi piacerebbe davvero pranzare con la
mia fidanzata.”
“La tua fidanzata potrebbe controllare i suoi impegni e farti avere una
risposta il prima possibile…”, scherzò. Immaginai i suoi occhi azzurri percorrere
la parete di fronte a sé e brillare. “Oh, che peccato. Oggi deve pranzare con
il Presidente. Mi dispiace.”
“Pranza con me.”, risi.
“Cosa fai, Kaulitz, usi l’imperativo con la donna che sposerai? Che fine ha
fatto «l’amarti e onorarti finché morte non ci separi»?”. Scherzavamo su quel
matrimonio che ogni minuto sembrava essere più vicino per quanto distasse mesi
da noi.
“Vorrei presentarti una persona.”, buttai lì.
“E chi sarebbe questa persona?”, indagò.
“Hai presente la ragazza dell’incidente?”
“Quale incidente?”
“L’incidente che ho avuto un mese fa!”
“Oh, giusto. Scusami. Bé? Vorresti presentarmi questa ragazza?”
“Sì.”
“E perché?”
“Perché… ho scoperto… che era una mia vecchia conoscente.”
“Ma non avevi detto che aveva circa diciotto anni?”
“Infatti.”
“Una vecchia conoscente che hai conosciuto quando aveva sei anni?”
“Potresti evitare di fare la fidanzatina gelosa, tesoro?”, la rimbeccai con un
sorriso. La immaginai roteare gli occhi.
“Non lo stavo facendo! Dove ci vediamo?”
“Al solito posto alle 12.30.”
“Il Presidente sarà molto dispiaciuto di non avermi a pranzo.”, scherzò.
“Ma immagino che è un impegno che potrai rimandare.”
“Certo… tesoro, scusa. Ho un’altra chiamata. Ci vediamo
a pranzo.”
“D’accordo. Ciao.”
“Ti amo.”
Riagganciai scuotendo il capo e sorridendo. Rapidamente composi un altro numero
di telefono e attesi nuovamente con pazienza. La risposta arrivò dopo un bel
po’ di tempo, e la voce di Cassandra dall’altra parte fu vagamente sorpresa.
“Tom.”
“Ciao.”
“Dimmi…”, sembrava incerta, o forse distratta. Ma riuscii a strapparle un
sorriso prendendola in contropiede.
“Hai da fare oggi a pranzo?”
***
Entrai nel bar, la porta si aprì con uno scampanellio;
davanti al bancone c’era una coda di poche persone, mentre altre erano sedute
ai tavolini, intente in conversazioni e sorrisi. Mi guardai attorno, alla
ricerca di Tom. D’un tratto vidi una mano sventolare nella mia direzione e
incontrai il suo sorriso invitarmi a raggiungerlo. Percorsi la sala fino al suo
tavolo, dove lo vidi seduto di fronte ad una donna. Una donna molto bella che
si voltò a guardarmi solo nell’istante in cui fui in piedi davanti a loro e mi
sorrise, curiosa.
Fui investita e spiazzata.
I suoi capelli erano seta corvina che le ricadeva sulle spalle in sottili
ciocche ondulate; il viso, leggermente squadrato ma dai lineamenti curvilinei e
dolci, veniva rafforzato dagli zigomi alti. Aveva labbra ampie e carnose, e un
sorriso enigmatico. Era bella, bella da mozzare il fiato. Considerai che avesse
all’incirca un paio d’anni meno di Tom. Non riuscii a sorriderle, ero
pietrificata.
“Cassandra, ciao. Ce ne hai messo di tempo per arrivare.”, mi sorrise Tom. Non
riuscivo a distogliere l’attenzione dal sorriso perfetto di quella donna. Non
lo guardai.
“Si, si perdonami per il ritardo. Ho avuto un imprevisto.”, riuscii a
giustificarmi con un filo di voce.
Non era stata la sua bellezza spiazzante a immobilizzarmi in quel modo, non era
stato il suo sorriso che sicuramente trasmetteva una certa soggezione. Ero una
modella, una donna così bella raramente riusciva ad intimorirmi. Ma lei…
La cosa che mi aveva raggelato, era stato del ghiaccio. Già, ghiaccio. Due enormi blocchi di ghiaccio
incastonati sul viso luminoso di quella donna. I suoi occhi erano enormi,
enormi e azzurri. Ma no, che dico, non azzurri. Blu. Devastanti. Raggelanti. Il mio respiro cessò per svariati
secondi quando, con uno sfarfallio di palpebre, li inchiodò nei miei. Due
zaffiri affilati, contornati da un rado strato di nero. Due enormi occhi
assottigliati e in qualche inspiegabile modo, terribilmente… diversi.
Diversi da come li avevo immaginati, diversi da quel vago ricordo che era solo
un ombra nelle mie memorie, diversi da come Tom li aveva descritti. Sentii una
fitta nel petto. Delusione.
Non erano dolci, non erano materni, non erano sbarazzini. Ma erano severi,
maliziosi, e in qualche strano modo troppo eleganti e adulti.
Roxanne. Eppure quegli occhi glaciali e quei capelli corvini riuscivano a
suggerirmi solo un nome. Roxanne. Mia madre.
Davanti a me c’era la donna che mi aveva messo al mondo, quella donna che in
diciotto anni non era stata altro che uno strano ricordo che riuscivo ad
associare solo ad un sogno durato molti anni. Quella donna che avevo
dimenticato quasi, di cui ignoravo persino l’esistenza prima che Tom me la
confermasse. Donna che credevo frutto delle mie fantasie.
“Cassandra, vieni, siediti.”, mi invitò gentilmente Tom, mentre prendevo
silenziosamente posto su una sedia, lisciandomi il vestito. “Come ti ho scritto
per sms ti ho invitata per presentarti una persona… e come avrai capito questa
persona è lei, la mia fidanzata.”, disse, indicandomi con un cenno la donna
dagli occhi glaciali. Ero pronta a stringere quella mano, pronta a creare un
laccio con il mio passato sfumato e vago. Inspirai. In attesa che dalle labbra
di Tom uscisse quel nome, Roxanne. Attesi
poche frazioni di secondi. Trattenni il fiato quando Tom riaprì la bocca per
parlare. Credo di aver chiuso gli occhi per un istante. “Cassie,”, rabbrividivo nel sentirmi chiamare così. “ti presento Suze.”.
Silenzio. Mi sembrò che persino nella caffetteria cessò qualsiasi tipo di
suono. Il tintinnio delle tazze sui piattini, il vociare dei clienti, il
fischio delle caffettiere.
Dischiusi le labbra dallo stupore e da un’altra fitta di irrazionale delusione.
Avevo frainteso. La donna dagli occhi glaciali… non era Roxanne. Non era mia
madre.
Tom non stava per sposare Roxy. Bensì Suze.
“Molto piacere.”, mi sembrò sibilasse, nello stringere la mia mano. La guardai
in silenzio, sentendo le braccia formicolare e gli occhi pizzicare.
La donna dagli occhi glaciali era Suze.
“Piacere mio.”, riuscii a soffiare dopo un attimo. Non feci in tempo ad
ammortizzare quello che avevo appena vissuto che Suze si alzò in piedi,
scusandosi.
“Amore, devo tornare al lavoro, si è fatto tardi.”, Tom le sorrise ed annuì
accondiscendente. “E’ stato un piacere, Cassandra.”, fece un sorriso strano,
obliquo; in qualche modo il ghigno dei suoi denti mi parve stridere di falsità.
“Molto breve, ma un piacere.”, ridacchiò. “Ci vediamo un’altra volta. Così
potremo farci una chiacchierata.”, mi sorrise di nuovo, e questa volta parve
sforzarsi di sembrare un poco più dolce. La sua aria maliziosa e severa sembrò
apparire più luminosa solo per pochi attimi. Poi la maschera di ghiaccio le
raggelò di nuovo i lineamenti. “Ci vediamo a casa.”, si rivolse a Tom e gli
sfiorò le labbra con le sue per qualche attimo. Lui ricambiò e sembrò di
qualche anno più giovane e in qualche strano modo più leggero mentre la
guardava allontanarsi dal nostro tavolo e sparire oltre la porta a vetri.
Quando non la vide più, si voltò finalmente verso di me con quello sguardo
particolare che sembrava avere solo nei miei confronti. E che ora capivo essere
uno sguardo, anche se in qualche contorta maniera, paterno. Evitai di
incrociare i suoi occhi tenendo lo sguardo basso, fisso sulle mie ginocchia. La
sua voce mi costrinse a sollevarlo. “Volevo presentartela.”
“E’ molto bella.”, riuscii a malapena a bisbigliare.
“Già.”, Tom aveva una luce negli occhi vagamente sognante. Restammo in silenzio
per qualche attimo, poi lui parve tornare con i piedi per terra e, padrone di
quella strana empatia che aveva nei miei confronti, mi interrogò, confuso.
“Cosa c’è che non va, Cassandra? Sembri…”, prese un attimo per trovare il
termine giusto, corrugando le sopracciglia dalla concentrazione. “Delusa.”,
proclamò infine.
“Oh, no.”, mentii. “E’ solo che…”
“Che?”
“Ecco, io… avevo frainteso.”, abbozzai un sorriso.
“Cioè?”
“Credevo… avevo capito… insomma io pensavo che Suze fosse Roxanne. Cioè dalle
tue parole io avevo capito che tu stessi per sposare mia madre.”, le
sopracciglia di Tom saettarono verso l’alto, si sollevarono in maniera
esagerata e i suoi occhi a mandorla si sgranarono, sorpresi. Rimase appena a
bocca aperta.
“Roxy? Tu credevi che io stessi con Roxy?”, sembrava trattenere una risata. “Cassandra…
mi dispiace che tu… non volevo fraintendessi…”, farfugliava qualcosa, imbarazzato.
“Non volevo illuderti, ma pensavo che tu avessi capito che… bé
che io e tua madre ci siamo lasciati da tempo, ormai… insomma sono sei anni che
io e Suze siamo fidanzati ed evidentemente devo essermi spiegato male e… devi
aver capito che tua madre e la mia quasimoglie
fossero la stessa persona. Ma…”, allargò impercettibilmente le braccia,
come per scusarsi. “Ma non è così. Mi spiace.”, la sua voce si era ridotta ad
un soffio colmo di imbarazzo.
“Certo. Non preoccuparti, Tom, ci mancherebbe. Sono… io, ad aver frainteso. Sta
tranquillo.”
“Mi dispiace.”, ribadì, rivolgendomi uno strano sorriso.
“Ma non capisco.”
“Cosa?”
“Perché allora hai deciso di presentarmela? Che senso ha?”, involontariamente
le parole uscirono dalla mia bocca in tono accusatorio. Questo fece irrigidire
Tom, che però parve non scomporsi più di tanto.
“Nessuno.”, confermò. “Semplicemente io le ho parlato di te, le ho spiegato la
situazione. Lei fa parte della mia vita, tu anche. Volevo che vi conosceste.
Tutto qui.”
“Ma io non ho nulla a che vedere con lei. Lei è il tuo presente io… si può dire
a malapena che faccio parte del tuo passato.”, lui pareva confondersi ad ogni
mia parola.
“Che vuoi dire con questo?”
“Voglio dire che io non faccio parte della tua vita come credi, Tom. Tu hai
conosciuto una Cassie che ora non c’è più. Hai conosciuto una bambina e…”,
risi, amara. “Come puoi vedere ora non lo sono più. Piacere, Cassandra
Schmitt.”, gli porsi ironicamente una mano, che lui non strinse, basito. Dopo
un attimo corrugò le sopracciglia e si rabbuiò. “Io facevo parte della tua vita
quando anche mia madre ne era parte. Ma ora lei non c’entra più nulla con te. E
lo stesso dovrebbe valere per me.”, Tom dischiuse appena la bocca in un’espressione
di stupore.
“Ma cosa stai dicendo?”
“La verità, Tom.”
“Se pensi questo sei una stupida.”, le parole uscirono dalle sue labbra in un
ringhio. “Ti ho persa, anni fa. Ora ti ho ritrovata e tu mi vieni a dire che
non sei parte della mia vita? Come puoi dire una cosa tanto sciocca?”
“Non lo so.”, ammisi, sentendomi improvvisamente in colpa. Tom sembrava ferito.
“È solo che è tutto così confuso…”, mi presi la testa tra le mani. “Allora mia
madre chi è? E dov’è, soprattutto?”, mi accarezzò una spalla, addolcendosi.
“Non lo so.”, ammise scrollando il capo. “Ci siamo persi di vista anni fa.”
“Perché vi siete lasciati?”
“Non riuscii ad accettare il fatto che lei ti avesse dato in adozione…”
“Ma perché lo ha fatto? Io non capisco…”
“Era giovane, ingenua e malata.”
“Questo me l’hai già detto, ma cosa aveva? Era qualcosa di grave?”
“Era qualcosa da cui stava guarendo. Soffriva di… una specie di epilessia.
Aveva delle crisi nervose, crisi di panico… diciamo che era…”, gli occhi di Tom
vagavano lungo la superficie del tavolo, sembravano sforzarsi di ricordare,
senza riaprire ferite. “…era impazzita.”, bisbigliò.
“Ah.”
Restammo in silenzio, gli sguardi fissi su due punti diversi ed imprecisati
davanti a noi.
“Vorresti conoscerla?”, mi chiese d’un tratto. Scrollai le spalle.
“Non lo so. Diciamo che mi sarebbe piaciuto che oggi al posto di Suze… ci fosse
stata lei.”, Tom contrasse involontariamente tutti i muscoli, serrò la mascella
e strinse i pugni. Ebbi l’impressione di aver detto qualcosa di sbagliato.
“Non ce l’hai con lei?”, domandò, monocorde.
“Un po’. E tu?”, Tom mi piantò di colpo gli occhi in faccia, un’espressione
vagamente sconvolta.
“Un po’.”, mi fece eco. Non sembrava convinto di quella risposta, parve
pronunciarla come se non avesse altra scelta.
La nostra conversazione continuò per lunghi minuti, a tratti impacciata e più
fluida in altri punti. Provammo più volte a non parlare più di Roxy, ma non ci
riuscimmo. Tom mi invitò al suo matrimonio; accettai. Gli dissi che mi sarebbe
piaciuto vederlo in giacca e cravatta. Lui aveva riso abbassando timidamente lo
sguardo.
Mi disse che gli aveva fatto piacere avermi rivisto, e che aveva avuto paura di
non vedermi più dopo che mi aveva raccontato la verità su di lui, su mia madre
e su tutto il resto. Mi disse che aveva avuto paura che non gli credessi. Scoprii
che Tom Kaulitz aveva paura di un sacco di cose. Anche di sposarsi. Mi aveva
mostrato l’ombra di una lunga cicatrice che gli solcava la guancia, e a cui non
avevo mai fatto caso. Mi disse che era stata mia madre a fargliela, e mi disse
che era l’unico ricordo che ancora possedeva di lei. Gli risposi che avrebbe
potuto lasciargli un ricordo più piacevole. Tom Kaulitz aveva riso di nuovo di
quella sua strana risata un po’ bisbigliata e spezzettata.
Mi chiese perché avevo pensato che Suze potesse essere Roxy. Gli risposi che
avevo solo pensato ai suoi occhi blu e confessai di essere rimasta delusa
perché non erano come me li aveva descritti lui. Ammisi senza imbarazzo che
Suze aveva degli occhi molto cattivi; Tom si limitò a descriverli severi. Disse che Suze era una persona
che metteva molto in soggezione per via della sua bellezza e dei suoi occhi. Mi
spiegò che quelli di Roxanne non erano come quelli di Suze. Però disse che
anche Roxanne metteva una certa soggezione. Mi disse che probabilmente era per
via di quella sua pelle troppo bianca. Parlò un sacco degli occhi di Roxy.
Capii che aveva dovuto amarli molto.
Quel giorno scoprii un sacco di cose su Tom Kaulitz.
Scoprii le sue paure, le sue gioie, i suoi dolori. Scoprii, senza
meravigliarmi, che gli piacevano le more con gli occhi blu. Anche se a lui non
mettevano soggezione come agli altri. Scoprii che sembrava volermi bene
davvero. Questo non me lo disse, ma fu una sensazione che ebbi. Scoprii che era
diverso da come l’avevo immaginato.
Scoprii che, incredibilmente, nonostante la maschera da superuomo che vestiva
perennemente… era umano anche lui.