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Autore: giughy    15/09/2011    2 recensioni
Chi era?
Da quanto era lì?
Non gli importava.
Gli bastava quel sorriso sadico.
Quella sensazione di amore univoco.
Genere: Sentimentale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Inghilterra/Arthur Kirkland, Spagna/Antonio Fernandez Carriedo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Aveva sentito dire che le segrete inglesi, quelle più buie, tetre e malsane, quelle destinate a loro, loro dal sangue ispanico che combattevano contro la Corona, erano terrificanti.

Correvano voci ben poco rassicuranti, “prigione per topi” la definivano con scherno i popolani dei bassifondi di una Londra Elisabettiana.

L' “Invencibile Armada” era stata sbaragliata da quella inglese, le ultime navi che erano fuggite nel porto di Calais presero fuoco per opera di Drake.

 

Sputò a terra in segno di disgusto, un verme come Drake che era riuscito, non solo a piegare il tentativo di Filippo II di dare uno smacco alla Regina, ma anche ad umiliarli. Distrutti da una flotta armata in così poco tempo, inferiore per numero e forza.

La strategia fu dalla parte del nemico.

O forse lo fu Dio stesso.

 

“Invencibile”.

 

Solo nel nome; il riflesso di un paese ormai tramontato.

 

Antonio non voleva pensare.

Cercava di tenere la mente sgombra, pulita dall'orribile pensiero del damerino inglese che gioiva con risate sadiche della sua disfatta.

Della disfatta di una grande nazione.

 

Non voleva ammettere che era lui il migliore, non avrebbe mai potuto.

Arthur era troppo pieno di sé.

Non poteva permettersi di dirgli che era meglio di lui, ciò che ne sarebbe derivato non sarebbe stato nemmeno lontanamente immaginabile.

 

Sentiva troppo lo smacco che bruciava nelle vene, sui polsi e sulle caviglie feriti dalle pesanti catene di ferro che si vedeva costretto ad indossare, sulla ferita sul braccio che nessuno si era preso il compito di medicare.

 

Non aveva la forza di reagire o forse reputava inutile farlo, un mero tentativo di fuga dalla ragnatela da parte della mosca.

Cosa poteva fare, dopotutto?

Dio aveva deciso per loro.

 

Sentì il rumore degli stivali che calpestavano il pavimento di pietra limaccioso.

Riconosceva il peso della camminata, lo stesso che aveva fatto tremare le assi di legno la sera prima sul suo vascello, poco prima che, con un colpo di spada, gli aprisse lo squarcio sull'arto superiore.

 

La camminata di Arthur.

 

Abbassò lo sguardo lasciando che i suoi capelli castani oscurassero gli occhi smeraldini.

Non voleva neppure guardarlo, tanto era lo sdegno che provava.

Capitano tra i più importanti della flotta britannica, “bimbo” della regina, come lo chiamavano le basse reclute, un aspetto difficile da dimenticare, alto, slanciato, con capelli biondi ribelli e profondi occhi azzurri soliti mietere anche troppe vittime nei porti di tutto il mondo.

Se ne compiaceva. Superbo.

 

Il sarcasmo velava sempre le sue parole; forse un po' troppo schietto, forse padrone di troppe cose per la sua età; Antonio non lo sopportava perchè lui, a differenza, aveva sudato per ottenere il rango e la fama che ora gli venivano negati e calpestati senza alcun tipo di ritegno.

La serratura della cella scattò ed un ratto scivolò impaurito sui piedi del prigioniero.

 

“Ma cosa abbiamo qui?”

 

Tuonò la voce dalla porta.

Se solo avesse potuto balzare in piedi e stringere le sue mani contro quel collo così pallido e fragile.

Sentire le ossa che si spezzavano nella morsa, il terrore intrappolato nei suoi occhi.

 

“A rat in a trap, maybe?” *
 

Disse ridacchiando a bassa voce.

Gli piaceva così tanto la visione di Antonio ridotto ad un inerme verme ai suoi piedi.

Inebriante, l'avrebbe definita in modo decisamente malato.

 

“Perro” **

 

Disse di rimando a denti stretti lo spagnolo.

Perchè Arthur si divertiva così tanto a vedere dipinta la sofferenza sul volto delle persone?

 

“Cosa c'è, Carriedo, ti è caduta forse la lingua? Dov'è tutto il tuo ardore, quello che sfoderavi in battaglia; quello che ha fatto perdere la vita a parecchi tra i miei marinai, my captain, mh?”

 

Gli afferrò la mandibola tra le mani con una stretta ferma e decisa, alzando il volto del ragazzo e inchiodandogli gli occhi con i suoi.

Il prigioniero sentì fremere la pelle al contatto.

 

Antonio vedeva riflessa la superiorità d'animo, l'arroganza che si faceva prepotentemente strada.

Arthur vedeva l'ostinazione che non voleva morire, la voglia di rivincita.

 

L'ispanico sorrise e l'inglese, di rimando, sputò a terra storcendo gli angoli della bocca in una smorfia.

 

“Si può sapere cosa trovi di comico in tutto questo, eh, Carriedo? La tua flotta è annientata, la tua nazione è tramontata, il tuo re si starà disperando e imprecando contro Dio per la cattiva sorte ricevuta, passerai il resto della tua inutile esistenza in questa cella coperta di muffa e tu ridi. Ridi.

Pazzo. Non sei altro che un pazzo o un giovane stolto. “

 

Per tutta risposta il moro inclinò appena la testa assumendo un'espressione seria.

Restò in silenzio per qualche istante e poi prese parola, con voce calma.

Non sapeva nemmeno lui spiegare come facesse a reprimere la voglia di urlargli contro, di insultarlo con tutta la forza che aveva in corpo.

 

“Rido perchè sei solo un giovane stolto, Arthur. E piantala di chiamarmi per cognome, santo cielo. Lo sappiamo entrambi che stai faneticando; certo, la mia Armada è distrutta ma io sono vivo e vegeto, malconcio ma vivo. Non pensare che il vedermi ora, qui, in ginocchio sia pari a vedermi sconfitto, non lo sono, non lo sarò mai. E ora toglimi le tue mani dal volto, Kirkland.”

 

Le parole suonarono dure persino alle sue orecchie, forse era troppo tempo che non metteva su carta chi fosse il vero padrone della situazione; o forse era solo una mera illusione per salvarsi dal baratro esistenziale nel quale stava lentamente scivolando.

 

Il biondo no n potè trattenere un'ulteriore smorfia.

Ma come si permetteva? Chi si credeva di essere? Non si accorgeva della situazione nella quale si trovava?

 

“Pensa quello che ti pare, parla quanto vuoi. Resta di fatto che la caccia l'ho vinta io e il tuo farneticare è vano.
Ah, sì, comunque io faccio quello che voglio, Carriedo.”

 

Diede alla voce una modulazione più pesante.

Più una cosa poteva dargli fastidio più era pronto a riproporla più e più volte fino allo sfinimento.

 

Gli pizzicò una guancia senza delicatezza, allontanandosi con aria di superiorità.

 

Buio.

Silenzio.

No, silenzio no.

C'era quella fastidiosa goccia che continuava a picchiettare sul pavimento dal soffitto, e quel ratto che grattava contro le barre di ferro, i lamenti degli altri carcerati, le risate dei carcerieri.

Era forse l'inferno?

Gli si spalancò davanti la possibilità che quella fosse la sua punizione per aver osato troppo; non era stato forse un devoto servitore di Cristo? Forse no, si era sporcato le mani di sangue e ora stava affrontando il suo inferno, reale e tagibile.

Guardie Inglesi peggiori di Belzebub stesso.

Trattamenti tali da desiderare con maggior fervore le pene tramandate da Dante, la cui fama si estendeva ben oltre alla patria del poeta.

 

Arthur si faceva vedere quasi ogni giorno, sempre con il solito sguardo perfido, sempre con la stessa aria di superiorità, nemmeno Antonio lasciava la sua patina di indifferenza.

Gli stenti della prigionia si facevano sentire e faceva di tutto per evitare che ciò si manifestasse troppo al rivale.

 

I giorni si susseguivano uguali.

 

Un'accozzaglia di finzione per far credere, in superficie, che laggiù non succedesse niente.

I servi arrivavano correndo trasportando sacchi di grano fin laggiù. Fino all'inferno.

Non guardavano mai nelle celle, forse c'era la paura che lo sguardo di qualche detenuto potesse trascinarli, a loro volta, in quel vortice di disperazione e paura tangibili.

 

Qualche volta capitava che qualche giovane incrociasse gli occhi con quelli di Antonio.

Gli dava la possibilità di giocare un po', di distrarsi dalla monotonia che lo avrebbe ingoiato da lì a poco.

Da quel sentimento di odio graffiante e di amore rosso che gli stringeva il cuore, gli fracassava i polmoni ogni volta che entrava in quella cella.

Rompeva la pace che riusciva a ricostruire.

 

Stava forse impazzendo?

 

Non riusciva a capire più cosa fosse la normalità.

Vorticava tutto nella sua mente, un disegno confuso, caleidoscopico di sentimenti, dove amore e odio si confondevano e mescolavano senza dargli tregua.

 

Giocare.

Si era ridotto a “giocare” con le persona per convincersi di non essere perso.

La realtà era, invece, che perso era eccome.

 

Ghignò tetro in quella stanza oscura.

 

“Avvicinati”

 

Sussurrò con la voce grattata dalla permamenza nell'umidità.

 

“Non temere, non ti mangero, ragazzo, avvicinati.”

 

Colse un bagliore nei suoi occhi, qualcosa che li attraversò come una saetta.

Il giovane si avvicinò.

Quindici anni, su per giù.

Un'aria truce e due occhi color nocciola.

 

“Cosa vuoi?”

 

Chiese seccato.

Il capitano rimase spiazzato, abituato ad essere temuto e rispettato.

 

“Non so cosa ci fai qui, vecchio pazzo, ma non ho intenzione di perdere il lavoro perchè tu devi farneticare a vuoto quindi muoviti.”
 

Nessun mezzo termine.

 

Il discorso, la serie di parole complesse, pensate per arrovellargli la giovane mente si dileguarono, sentì una morsa allo stomaco.

 

“Và via”

 

Urlò alzandosi di scatto e cadendo altrettanto in fretta trascinato dalle catene troppo corte.

Quasi a ricordargli quale fosse il suo posto.

 

Gli occhi nocciola se ne andarono.

 

«Ci rivedremo» Sembrava dire mentre con una mano si scompigliava i capelli non tentando nemmeno di aggiustarsi un ciuffo particolarmente ribelle.

 

Sentì un calore diffuso nello stomaco, poi un vuoto.

Nero.

La devastante sensazione che l'annullamento stava arrivando.

 

Sentì delle imprecazioni da lontano.

Sentì la sua camminata.

 

Eccolo.

 

Sentì la porta che si apriva, cigolando.

Forse più del solito, forse peggio del solito.

 

Voleva che si aprisse quella porta, voleva vederlo, incastonare i suoi occhi nelle sue pietre dure color del mare.

Forse era quello, la nostalgia dell'oceano, del blu del cielo, che lo portava a perdersi in quella crudeltà.

 

Avevano visto atrocità, gioivano per esse e le trovava così incantevoli.

 

Zaffiri, al posto degli occhi, come avrebbe scritto molto tempo dopo uno scrittore.

Forse Arthur avrbbe potuto davvero essere un perfetto Happy Prince. ***

 

Sentì le sue mani attorno al volto e un attimo dopo il nulla.

Le labbra le une sulle altre.

Il profumo di brezza sui suoi capelli.

Il profumo di atrocità sulle sue vesti.

Il profumo di vita sulla sua pelle.

 

Se ne andò, come sempre, con un sorriso sghembo sul volto ben curato, lasciandolo in quel mare di disperazione che lui stesso alimentava incontro dopo incontro.

 

Il tempo che passava tra un battito di cuore e l'altro lo sfiniva.

 

Chi era?

Da quanto era lì?

Non gli importava.

Gli bastava quel sorriso sadico.

Quella sensazione di amore univoco.

 

Dove si trovava il limitre tra amore, ossessione e malattia?

Dove?

Non riusciva a scorgerlo.

Si guardava alle spalle nella propria coscienza.

Che lo avesse perso?

Che la strada fosse ormai smarrita?

 

Rise istericamente.

 

Alzò gli occhi e nelle tenebre vide il sole che lo spiava divertito attraverso la grata.

Spiava il suo tormento.

Piegò la testa di lato compiaciuto.

Compiaciuto di non essere il solo a venir straziato da quella situazione.

Curvò le labbra rovinate in un sorriso aggiacciante.


 

“Avvicinati”


 

Gracchiò, mentre la serratura scattava nuovamente e il cuore tornava a soffocare.


 

* Un topo in trappola, forse?

** Cane

*** In riferimento all'opera di Oscar Wilde: "Happy Prince"

  
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