Almeno Un Milione di Scale
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
You disappear with all your good intentions
and all I am is all I could not mention:
like who will bring me flowers when it's over?
And who will give me comfort when it's cold?
Era una splendida notte, di quelle che vengono
dipinte dalle parole di un poeta maledetto; un tetto di stelle proteggeva
sorridente la distesa di boschi e montagne di quella regione, danzando quasi a
ritmo di una musica spontaneo e delicata: la brezza
che muoveva le nere fronde degli alberi, lo scrosciare dei torrenti e dei
numerosi fiumi, i versi acuti degli animali notturni; tutto conduceva ad un
paesaggio di pace, che ispirava una serenità ben distante dal cuore di molti.
La casetta nei pressi del monte Paoz era ancora
illuminata, nonostante l’ora tarda: gli animali che avevano costruito la
propria tana attorno a quella struttura non erano abituati a vedere ancora le
luci accese degli abitanti, che da cinque anni a quella parte andavano a letto
irrisoriamente presto.
Ma la normalità era stata brutalmente recisa da
quella graziosa casetta. Insidiatasi in silenzio, benvoluta e coccolata, ora
l’abitudinaria tranquillità di quegli anni appariva come una mostruosa
illusione che aveva trafitto tutti quanti nel giro di un giorno: nessuno era
stato pronto ad impatto così improvviso con una nuova battaglia.
“Avanti,
vieni a stare da me per un paio di giorno. Ti farà bene, ti
aiuterà a distrarti…”
“Ti siamo
vicini, devi tenere duro. Tutto si sistemerà, vedrai.”
“Tornerà, un giorno,
tutto come prima… Tornerà indietro! Abbiamo la soluzione…”
“Gohan starà
bene, Chichi, ha la forza di suo padre e la tua tempra!”
“Questa è la
nostra resistenza. Non abbatterti!”
C’era chi non aveva mai smesso di combattere, in
quell’effimera tranquillità.
Chichi ripose l’ultimo piatto appena asciugato
nella credenza, tirano un sospiro che non odorava del sollievo che si è soliti
esprimere. Aveva fatto presto, quella sera, a lavare le stoviglie, nonostante
avesse cercato di prolungare il più possibile quel
necessario rito domestico. Non aveva idea di che ora fosse: era da svariate
sere, che aveva scambiato per secoli, che seguiva i bisogni del proprio copro
senza più darsi la pena di seguire gli orari rigorosi che lei stessa aveva
stabilito. Aveva inventato una nuova routine che la spingeva in avanti, che
manteneva attorno a lei una parvenza di ciò che era stato e per cui aveva
lottato. Il pensiero di fingere più di così però, senza più niente fra le mani
e nel cuore, era animalesco, orripilante.
Inconcepibile.
“Gohan
tornerà presto, Goku tornerà presto.”
Gohan, Goku.
Goku.
Lei.
Loro.
Quando tutti quei concetti, tutte quelle verità
avevano iniziato a scivolare dalla sua presa?
A volte, si svegliava nel cuore della notte, o del
giorno, o semplicemente di un sonno senza più regole, dopo aver sognato o
immaginato mani fredde ed occhi neri e vuoti come mai, mai prima. A volte,
persino gridava per quelle immagini che non l’abbandonavano davvero per delle
ore. Nonostante cercasse continuamente di ricordarsi, con un rigido distacco
che pensava le servisse per non tremare, che non le era stato concesso nemmeno
di vedere il corpo di suo marito, e che quindi quelle non erano altro che
fantasie. Solitamente, quando si soffermava su particolari come quelli, un
piatto si fracassava sul pavimento, dei cuscini si
stappavano fra le sue mani, del cibo si sbriciolava in mille pezzettini,
nonostante lei non sapesse assolutamente ricordare il momento esatto in cui
aveva deciso di distruggerli.
Conviveva con un turpe dolore che, nei momenti di
massima noia, si trasformava in un
prurito regolare, un battito di tamburi che scandiva il ritmo dei suoi passi e
movimenti; agiva per pura autoconservazione. Ed attendeva con ansia
inconsapevole anche, quei momenti in cui si trasformava in un morto vivente: li preferiva a
quell’incontrollabile sensazione di essere viva, sola. Ed impotente.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Chichi si appoggiò al bordo del piccolo tavolo, che
era stato fabbricato per quattro persone, ne aveva ospitate tre ed ora
raccoglieva i pezzi di una metà vagabonda. Alzò lo sguardo al soffitto,
fissandone le piccole crepe nascenti, per non dover essere costretta a posare
gli occhi sui mazzi di fiori, le coccarde e le pile di lettere che componevano,
in un ordine quasi maniacale, il tetro teatrino sopra alcunii mobili a lato della stanza.
Dopo che era
successo, ne erano arrivati parecchi,
di doni simili. Aveva stretto mani su mani e ricevuto le più disparate
condoglianze, e i meno sentiti auguri: la morte di Son Goku non aveva suscitato
uno scalpore a livello mondiale, poiché i suoi più intimi conoscenti avevano
optato per un riserbo rispettoso. Ma, anche dopo cinque anni, restava pur
sempre un campione di arti marziali ed il noto salvatore di catastrofi ormai
riposte in vecchi cassetti. Di lui, si sarebbero ricordati in molti.
Ma quanto era giusta quella
falsa memoria di lui? Chi l’aveva conosciuto meglio di lei?
Un tenero
bimbo.
Un ingenuo
adulto.
Un pessimo
marito.
Un padre
irresponsabile.
Un uomo
meraviglioso.
Lei aveva stretto i denti e risposto, ricevuto,
stretto e accolto con marziale controllo delle emozioni quella consapevolezza
di abbandono. Una gentilezza dopo l’altra, aveva imparato a sopportare oggetti
e parole che costantemente le sbattevano in faccia la verità; che Goku era
morto per proteggere la Terra ed un figlio che ora era chissà dove, fra le mani
di un mostro che avevano sempre denigrato. Che ancora una volta, l’aveva
delusa.
Lontano.
She took a plane to somewhere out in space
to start a life and maybe change the world.
See, I never meant for you to have to crawl.
No, I never meant to let you go at all.
Don't ever say goodbye.
Ma Chichi era forte.
C’era stato un momento, tempo prima, in
cui lo aveva creduto con tutta sè stessa. Si era sentita forte, e aveva
conservato i lati negativi e le responsabilità di una tale qualità con un
cipiglio militaresco ed un sorriso nel cuore. Erano stati brevi attimi di piena
consapevolezza, alternati a giornate d’indiretta conoscenza.
S’era sentita forte tra le braccia di
Goku, credendo di poter realizzare i propri sogni d’infanzia anche con una
scimmia d’uomo come quella. Un eterno bambino, l’unico uomo della sua vita in
fantasia da principesse, castelli e giornate assolate. Il fanciullo che le
aveva promesso la mano senza nemmeno sapere cosa volesse dire, che poi l’aveva
accettata quando era tornata a bussare con impazienza alla sua porta, il
massiccio lottatore che le aveva salvato la vita, insieme alla Terra intera.
Suo marito, il padre del suo piccolo fiore Gohan.
Vedova,
orfano.
Si era sentita forte delle sue parole e
della sua presenza, e della propria capacità di tradurre i suoi sogni in
materia, ed ora lui non c’era più.
Chichi si mosse all’interno della
stanza, guidata dallo stesso istinto debole ma pragmatico che l’aveva spinta,
in quei giorni, a non abbandonare tutto e a continuare ad esistere, se anche non si sentiva ancora pronta a vivere. La casa era spaventosamente
vuota da esattamente tre settimane. Il suo riflesso nel grazioso specchio
all’ingresso era vuoto di rimando, la fissava senza alcun cipiglio particolare.
“Sono forte.” quelle settimane avevano trasformato la sua affermazione più
certa in una domanda che si perdeva, succube, in androni ed androni di ricordi.
“Sono forte?”
No, non lo era più.
Il
mio dura tuttora, né più mi occorrono
le
coincidenze, le prenotazioni,
le
trappole, gli scorni di chi crede
che la
realtà sia quella che si vede.
“Tu sei una persona forte, Chichi. Sei molto più
forte di me, e sei anche intelligente: lo sei, perché avrai sicuramente capito
che non parlo di combattere, di muscoli, del tempo che ci metti per percorrere
la regione di corsa e riportare a casa un tronco d’albero robusto. Parlo di paura. Io ho un sacco di paure a cui
non faccio caso, ma che mi seguono come ombre sui campi di battaglia e nella
vita normale, e sono sicura che è stata una delle prime cose
che hai capito di me. E’ un concetto che va al di là della morte, ci sono cose
che vengono prima. Ho paura di lasciarvi soli, di non
sapere essere un buon padre per Gohan, un buon marito per te. A volte ci penso,
quando non sono impegnato a soffocare i miei neuroni con la massa muscolare,
come dici tu. E mi vengono i brividi, mi vergogno di alcune delle
cose che faccio, e dopo questi esami di coscienza riparto convinto di poter
cambiare per te.”
“E’ proprio il fatto che tu sia così intelligente,
anche col tuo caratteraccio, che ci rende così differenti e che mi fa chiedere
come mai tu abbia scelto. Mi sforzo di essere migliore di ciò che sono, ma
capisco di non aver mai fatto passi avanti quando vedo il rimprovero nei tuoi
occhi. Il mio volere sempre superare i limiti della forza, i miei poteri, le
mie battaglie e i miei ideali non ti meritano Chichi. Tu sei forte, io ho paura
di tutto ciò che tu combatti quotidianamente e mi rifugio in scontri e muscoli:
mentre io lotto, tu ti prendi cura di Gohan, lo aiuti a crescere, riesci a
stare dietro alle tue esigenze anche con un peso come me. Perché spesso sono un
peso per te, e ne ho paura.”
“Tu sei forte, Chichi, e non sto dicendo che tu non
abbia paura. Sto dicendo che affronti più sfide e terrori di me, e mentre io
posso essere sconfitto, tu ne uscirai comunque vincente. Sono un debole, e tu
sei la mia forza. La forza di questa famiglia.”
Chichi uscì da quelle soffocanti quattro mura alla
ricerca di aria fresca, sotto lo sguardo della luna. Sentiva che quella
sensazione stava penetrando di nuovo nei suoi pensieri, e non poteva permettere
che quegli incubi ledessero l’unica certezza che ancora stava cercando di
tenere in piedi. “Non farlo, non arrenderti.” urlava nella sua testa, mentre
spalancava la porta e cercava un posto dove sedersi, tentando con sforzo di
frenare il dolore nell’espressione del volto. “Tu sei forte.” ma la voce della
coscienza che le stava parlando stava già assumendo il tono placido e spontaneo
di Goku, e ciò non faceva altro che spingerla di un passo verso il burrone.
Doveva respirare meglio.
Rapido com’era arrivato, l’attacco di panico si
dissolse, allontanandosi dal suo corpo e dai suoi pensieri. Prese
posto su un tronco d’albero, fremendo ancora lievemente per quella
perdita di controllo che l’aveva scombussolata. Ma lei era forte, e spense in fretta
quel segno di debolezza.
Accavallò le gambe, sistemando delicatamente le
grinze del vestito con le dita, deglutendo appena. Poi portò lo sguardo sul
buio della foresta circostante, godendosi la carezza della brezza fresca sulla
sua pelle e sui suoi capelli d’ebano, lisci come la seta. “Portami via.” espresse quell’inconscio desiderio, chiudendo per pochi
istanti gli occhi e immaginando di volare.
“Se cambierai idea, ti
basterà prendere la nuvola Kinton… volando
raggiungerai facilmente la Capsule Corporation, o la casa del Maestro Muten!”
Chichi si riscosse, scacciando la voce squillante
di Bulma scuotendo il capo: quella strana ragazza dai
capelli turchini, con la quale non era riuscita mai ad andare completamente
d’accordo, era stata più brava di lei a superare il dolore per la perdita di
Goku. Aveva sostituito la tristezza con un’allegra determinazione, non con un
ossessivo autocontrollo. Aveva accettato il fatto che Goku non c’era più, ma
che grazie alla magia di quel maledetto drago sarebbe presto resuscitato.
Ma lui non sarebbe dovuto tornare
semplicemente.
Lui sarebbe dovuto
restare.
Ho
sceso milioni di scale dandoti il braccio non già
perché con quattr’occhi forse si vede di più.
In quel punto, in quel punto esatto dello spiazzo
d’erba asciutta circondata da grossi alberi, Gohan soleva sedersi a studiare
durante le giornate più calde, per alleviare la stanchezza che stare sempre in
casa gli procurava. Chichi gliel’aveva sempre concesso storcendo il naso:
avrebbe preferito ogni volta di gran lunga averlo sott’occhio, controllare che
non si mettesse a rincorrere quella farfalla che s’era posato sul grosso tomo
di matematica che stava leggendo. In certi casi, assomigliava davvero troppo a Goku. Era proprio quest’ultimo
ad insistere sempre perché Chichi concedesse al figlio quella piccola libertà.
Con un sorriso sghembo, con il quale le spiegava di stare esagerando, spesso
l’aveva umiliata di poco, ma l’aveva fatto. Le ricordava, anche senza volere
ferirla, di essere troppo apprensiva, troppo bacchettona,
troppo tutto.
“Gohan ha bisogno di respirare,
tesoro.”
“Gohan ha bisogno che suo padre aiuti sua madre a
guidarlo.”
See my head aches from all this thinkin’:
feels like a ship. God, God knows I'm sinkin.'
Wonder what you do and where it is you stay:
these questions like a whirlwind, they carry me away.
- Gohan? –
La domanda si levò tremula, ricca di
quell’attesa speranzosa e al contempo timorosa d’essere delusa. Eppure a Chichi
era parso davvero di vederlo: la notte s’era tramutata in giorno, i raggi del
sole proiettavano le ombre degli alberi sulla figura di Gohan, dapprima
concentrato e diligente nell’eseguire i compiti dell’asilo, poi distratto dal
volo di una farfallina blu, libera come lui non poteva essere. Correva, con le
sue gambette corte ma che già stavano modellando il fisico di quel mascalzone
di suo padre quando aveva avuto la sua età. Seguendo l’animaletto che voleva
afferrare, forse per chiederle dei suoi segreti, s’era infilato nel bosco.
- Gohan? – ripeté Chichi, sbattendo le
palpebre quasi con violenza. Si chiese se stesse sognando, poiché erano le immagini
che i suoi pensieri volevano vedere: in un attimo, la ragione la riportò alla
notte in cui era immersa, al vuoto nello spiazzo vuoto che le procurò una fitta
al cuore. Qualcosa di acuminato s’era infilato nelle sue vene, e stava pian
piano penetrando la sua carne ed incidendo la sua pelle d’invisibili cicatrici.
Ma lei era forte, e quel dolore non era nulla.
“Mamma, dove sei?”
- Gohan! – stavolta
era davvero certa di averlo visto: la sua sagoma piccina, non più pura dal
dolore della perdita e del male del mondo, era appena scomparsa dietro un
cespuglio di more ormai morto. Era stato il suo favorito, da piccino, e quando
la pianta aveva ceduto al richiamo della natura aveva persino pianto. Ed ora era
sparito lì dietro.
In un attimo Chichi
si mise a correre. Le sue gambe erano agili e forti di arti marziali, le stesse
che aveva imparato per conquistarsi l’amore di Goku e che poi aveva condannato
davanti a suo figlio. Corse verso la foresta, inoltrandosi in quella distesa di
colori che la luce della luna rendeva grigi, neri e sconosciuti. Che importava
che fosse un territorio pericoloso nel quale aggirarsi nel cuore della notte?
Il suo bambino, era certa di averlo visto, e l’avrebbe salvato lei, se Goku non
c’era riuscito.
- Gohan! Gohan! –
gridava, accorgendosi dunque di sapere ancora parlare: tutte quelle settimane
di mutismo le avevano fatto dimenticare il prezioso dono della parola e
dell’urlo potente, e fatto odiare invece un silenzio di cui tutti decantavano
le lodi.
Il suo bambino, era
certa di averlo visto, e per salvarlo lui doveva sentire il suo richiamo, la
sua forza.
“Mamma, dove sei?”
- Piccolo
mio! Gohan, rispondimi! – i rami più bassi e contorti la ferivano in
quella sua selvaggia corsa, graffiavano la lattea pelle come a manifestare
quell’angoscia avvolgente e temibile. I suoi occhi saettavano da una parte
all’altra del paesaggio circostante, trovando in apparenza sempre il medesimo
quadro, in sostanza sempre il medesimo vuoto. Ma il suo bambino, era certa di
averlo visto: si sarebbe buttata nel fuoco per scommettere sulla verità di
quell’apparizione fugace. E aveva udito qualcosa di simile alla sua voce: sì,
in stava chiedendo il suo aiuto. Doveva trovarlo.
“Basta, Chichi.”
- Gohan, rispondimi!
– si ritrovò a girare praticamente su sé stessa, tanto era smarrito ormai il
suo senso dell’orientamento. Non era nelle condizioni psicologiche di
riconoscere i segni di un paesaggio inospitale ma familiare, per lei che ormai
vi viveva da molto tempo; ma neanche cercava di capire dove si trovasse,
talmente era presa dalla smodata ricerca del suo bambino. – Ti prego,
rispondimi! – un briciolo del suo cervello registrò quelle parole sull’orlo
delle lacrime, i bulbi oculari lucidi e ormai bagnati, il tono tremolante. E la
determinazione che stava mettendo in ciò che stava compiendo le permise di
reprimere i sentimenti di sconfitta, e continuare a gridare.
“Basta, Chichi!”
Voci
diverse, diversi sogni. Due uomini nei loro mondi, in crescita.
- Goku? – tutto
attorno a lei fu improvvisamente calmo, quella tranquillità piatta che precede
una tempesta, o un avvenimento catastrofico. Era certa che il muro di rami e
foglie che s’intrecciavano verso il cielo, formando una cupola protettiva, non
permettesse alla brezza serale di portare refrigerio anche in quel punto.
Eppure qualcosa le accarezzava collo e capelli come era accaduto prima, seduta
sul tronco, prima di vedere Gohan e tuffarsi in quella corsa disperata e
tagliente.
La linea che divideva
realtà da allucinazione era sottile ed ingannevole, e Chichi non era più sicura
di sapere quale fosse bene e quale male. Aveva visto suo figlio in una specie
di sogno, che la realtà le stava ora togliendo, e invece di tornare a casa a
crogiolarsi in quegli attimi d’illusione la fantasia le aveva portato la voce
di Goku.
- Sei tu? – domandò,
e da qualche parte nel bosco sentì qualcuno risponderle. Un urlo muto, che solo
lei avrebbe sentito anche fra centinaia di persone. Un sorriso benevolo ed un
dito ad indicarle la strada da seguire: perché dopo tutti quegli anni di
costruita normalità, passati a percorrere una discesa idilliaca solo
dall’esterno, era il momento di risalire almeno un milione di scale.
“Portami
con te, non posso stare qui. Non posso.”
- Eccomi. Mi vedi?
Sono forte, sono più forte di te che hai ceduto alla morte e che hai ceduto
nostro figlio. Guardami, sono forte. – mormorò, come una strana litania,
rivolgendosi sfidando non il marito, ma la sofferenza con cui, lo sapeva,
avrebbe dovuto imparare a convivere.
- Mi sopravvalutavi,
come ti ho sopravvalutato io nel crede in un amore che
mi ha dato solo costernazione, delusione, un bimbo a cui ho dovuto fare sia da
madre che da padre. Ho abbandonato tutti i nostri amici, che forse avevano
bisogno di me come un pilastro al quale aggrapparsi e da cui essere consolati,
perché nemmeno io mi capacito di ciò che è accaduto e non posso prendermi cura
degli altri se non so farlo con me stessa. E forse è persino un bene che Gohan
sia lontano, nelle mani di un mostro che gli insegnerà meglio di me come essere
forte. Non sono forte, Goku, e tu mi hai riempito la testa di menzogne. Mi hai
riempito il cuore di rimpianti. Guardami ora, Goku. –
Qualcosa le sfiorò la
spalla, toccando appena la pelle del collo scoperta dall’alto chignon, ora
tutto scombinato e con qualche foglia incastrata. Un fiato caldo, diverso da
ogni cosa e dalla consistenza particolare, che avrebbe riconosciuto subito, si
posò sul suo orecchio. Sussurrava melodiche parole che non riuscì a recepire:
ci sarebbe voluto tempo prima che la lingua del loro amore strano e provato
tornasse alla sua bocca. Chichi si voltò di scatto, gli occhi sbarrati da quel
contatto; ma non trovò nessuno. Istintivamente portò la mano sul punto del
proprio copro in cui era certa vi fosse stata la mano di suo marito: aveva
sentito la consistenza dei suoi polpastrelli ricoperti di calli, graffi e
vecchie cicatrici, la presa rude e al contempo gentile e
onesta.
Ma non c’era
nessuno.
“Sii forte… Chichi.”
Ancora una volta si
girò, scattante. Assottigliò gli occhi, respirando affannosamente, senza però
riuscire a decifrare con fermezza il punto esatto della foresta da cui era
provenuta la voce di Goku. Era sempre stato così bello, il suo nome,
pronunciato dalle labbra del marito. Lo sentiva incredibilmente vicino, quasi
sul punto di toccarle il cuore nella sua invisibilità. Eppure erano così
lontani. Divisi, c’erano strade differenti per loro due da seguire.
- Guardami ora, Son Goku. Sono ciò che tu hai fatto di me: disillusa da
tutte le belle favolette, ora sono una donna. E che ti piaccia o no, non sono
per niente forte. Guardami ora, ovunque tu sia, cercami e dimmi cosa vedi. Ti
prego parlami. Come posso essere forte se tu non mi parli? – successero tante
cose contemporaneamente: il mondo girava vorticosamente e nessuno se ne rendeva
conto, ognuno agiva e compiva qualche gesto speciale nella sua piccolezza. -
Non sono forte, Goku. Ti ho perduto. Tu non devi tornare, dovevi restare. La
mia forza è andata distrutta quando te ne sei andato, Goku, ed ora che per te
c’è un mondo da salvare, a me restano i pezzi. -
E lei invece era
immobile.
- Ho bisogno che tu
mi stringa fra le tue braccia, Goku. –
Who
will bring me flowers when it's over?
And who will give me comfort when it’s cold?
Who will I belong to when the day just won't give in?
And who will tell me how it ends and how it all begins?
Don't ever say goodbye:
I'm only human.
Cadde,
inesorabilmente. Chichi cadde.
Rovinò a terra quando
le sue ginocchia smisero di reggere il peso dei suoi cocci sparsi: il pianto
che esplose nel suo corpo, ferendo le sue membra e liberando un potente
singhiozzare era la libertà che aveva tentato di negare a Gohan e a Goku, e che
aveva per tanto tempo desiderato in segreto per sé stessa. Era solo dolore in
quel momento, mentre due braccia forti la stringevano davvero. Lacrime
sgorgavano dai suoi occhi socchiusi ed appannati, cadevano a terra a nutrire
una terra fertile che avrebbe generato altra sofferenza. Sapeva che, quando
avrebbe riaperto gli occhi per osservare attorno, non avrebbe trovato il copro solido di Goku, la tuta che stava imbrattando di
lacrime e il suo volto bello, mascolino e incredibilmente buono. Non poteva
fare altro che continuare a piangere, liberando ogni cosa, lasciando che il suo
mondo venisse distrutto fino alla fine.
Ci sarebbe stato un
tempo per essere forti, ora poteva solo essere sé stessa.
- Ancora guardi, figliolo? –
L’essere potente e
mistico, che tanti temevano e veneravano, ricevette solo un flebile sospiro in
risposta. Da quando lui era arrivato, pochi giorni erano trascorsi senza che quello straziante rito si ripetesse al termine del giorno.
- E’ tempo che tu la lasci andare. –
C’era qualcosa
nell’espressione del suo protetto a chiedergli pietà di loro. Nel guardarlo, l’essere si maledì per aver
creato egli stessi le inscindibili regole di quel mondo.
- Non puoi fare nulla
adesso. –
Silenzio.
Restavano
milioni di scale da percorrere in salita, le stesse che nella loro ingenuità
avevano reso più ripide.
- Vorrei solo aver
capito prima di dover fare qualcosa. –
Mentre abbandonava
l’immagine di Chichi, fu come morire di nuovo.
Perché c’erano cose
che ferivano di più di mille battaglie e milioni di scale in salita, e
lasciavano dietro di sé la certezza di anime spezzate.
Con
te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole
vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano
le tue.
NOTE DELL’AUTRICE
Prima fanfiction su Dragon Ball J Goku/Chichi non è proprio la mia coppia
preferita: io solitamente opto per Vegeta/Bulma. Ma
ho tratto ispirazione dalla nuova messa in onda della serie Dragon Ball Z, ho
pensato a quanto sia sottovalutato il personaggio della moglie dell’eroe e ci
ho fatto un pensierino. Siamo abituati a vedere Chichi come forte ed
intraprendente, io ho provato ad andare oltre alla facciata per vederne il lato
“umano”. Spero sia stata di vostro gradimento.
La canzone che accompagna il
testo è Flowers for a Ghost
dei Thriving Ivory, mentre la lirica e la
celeberrima Ho sceso, dandoti il
braccio, almeno un milione di scale di Eugenio
Montale, da cui prende anche il titolo la one-shot.
Recensite, mi raccomando.
Bye!