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Autore: Fransin    17/09/2011    1 recensioni
Francesca è una ragazzina di undici anni che a causa della separazione dei genitori segue il padre in una nuova città, perdendo le vecchie amicizie, ma incontrandone di nuove, andando in contro a ciò che mai si sarebbe aspettata.
Genere: Fantasy, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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La nuova dimora
 
Il viaggio da Osaka a Misora non fu tanto lungo, quanto devastante. Non smisi neanche per un momento di piangere, soffiare il naso, aprire un nuovo pacchetto di fazzoletti, finirlo e disperarmi perché non ne avevo più. Fu un viaggio straziante. Il ricordo delle mie amiche mi lacerava il petto, con una vagonata di ricordi, uno appresso all’altro. I belli e i brutti ricordi riaffioravano pian piano nella mia mente, fino a farmi tornare alla realtà. Abbozzai un sorriso verso papà, che anche lui sembrava preoccupato per la mia situazione. Fortunatamente lui trovò lavoro quasi subito.
Il tempo di sistemarmi, di aprire gli scatoloni. Sembrava ieri che entrai in prima elementare. Oramai ero grande, potevo affrontare cose ben peggiori. Trafugai tra i vecchi ricordi, fino ad afferrare con impazienza la foto di gruppo delle mie migliori amiche, quelle di Osaka. MaryAnne, Jacqueline e Kathia. Nel mentre osservai la foto, una mano grossa e calda mi cinse il fianco destro con fare paterno. Era papà, il mio papà Edward. Lui in passato era stato un vampiro. Dopo anni di terapie aveva ripreso le sue vere forme umane.
Con voce fievole e dolce mi sussurrò all’orecchio sinistro «Scricciolo, vedrai che andrà tutto benissimo qui. Ci rifaremo una vita. Ti farai nuove amicizie. Io incomincerò a lavorare.».
Mi mancava la mamma, la mia stupida, buffa e tenerona mamma Isabella, che con un abbraccio cacciava via ogni mio presagio cattivo.
Iniziai a perlustrare la casa, con fare perplesso, della serie «Dove cavolo è il bagno…?».
Entrai in salotto. Una grande sala con un grosso armadio circondava un grosso tavolo rotondo da sala da pranzo. Il primo pensiero a cui feci riferimento fu quello di riconoscere che in casa, dopotutto, eravamo solo io e papà. Non era così male quella casa. La mia stanza era di dimensioni normali, vivibili, insomma. Le pareti erano di un rosa spento e la finestra aveva sopra una cassetta per la tapparella, color rosso vivo. Papà mi aveva raccontato che chi ci aveva abitato prima di noi, spesso portava amici in casa, organizzava feste. Era carina. Il bagno era uno. Mio malgrado sapevo che avrei dovuto condividerlo con mio padre. Mi mancava la mamma, sempre di più. Era come se papà intravedesse i miei pensieri, o meglio, era come se sapesse leggermi nella mente, perché ogni volta che pensavo che mi mancava la mamma, lui poggiava sulla mia spalla una mano con fare paterno e con tutta la volontà di arrendersi.
 
Da lì ad una settimana sarebbe iniziata la scuola alla Misora School. La sera prima ricevetti una telefonata tutta piagnistei e risate da parte delle mie amiche, che con fare innocente mi raccontarono la loro giornata al parco dei divertimenti. Come biasimarle. Non lo avrei fatto anche io, forse? Forse. Quando spensi il telefono di casa e mi accinsi a mettermi sotto le coperte, fui invasa da miriadi di pensieri sul giorno dopo. E se non fossi piaciuta ai compagni? E se ci fosse stata una maniaca della moda che avrebbe rovinato la mia immagine per tutta la scuola? E così, tra un pensiero, un sonnecchio, un rigiro nel letto e uno sbuffo ansioso, arrivarono le 7 del mattino di lunedì. La sveglia mi sembrò trillare più impaziente che mai, come se fosse stata sincronizzata con i miei battiti cardiaci. Quella mattina non feci colazione per l’agitazione, ma mi ridussi a bere un bicchiere di succo di frutta alla pesca, il mio preferito. Papà mi lasciò un biglietto sul comodino «Sono mattiniero. Sono andato a lavorare presto, per conoscere l’ambiente e i colleghi. Ci vediamo questa sera, Scricciolo. P.S.: nel poggiarti questo post-it ti ho stampato un bacio in fronte, ma eri talmente stanca che non mi hai minimamente sentito. Papà.». Dolce come sempre, diretto come al solito. Quello era mio padre.
  
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