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Autore: Natalja_Aljona    17/09/2011    1 recensioni
L'amore per un padre, innanzitutto.
Un amore che fa sempre un po' male, prima o poi.
L'amore ancora flebile di un ragazzo con il nome di un eroe morto per orgoglio, un eroe che, poi, s'è giocato la vita per un pugno di polvere ed un destino troppo crudele.
L'amore di un ragazzo che in quel pugno di polvere cerca di vederci di più, che ci cerca il mondo intero, in quella polvere.
L'amore forse malato, forse assurdo di un'eroina che ha sconvolto i poeti e di una ragazza troppo fragile per somigliarle davvero, ma ugualmente meritevole di portare il suo nome.
La storia di un figlio che deve uccidere il padre, almeno nell'anima.
La storia di un drammaturgo ateniese letto prima di dormire e di un padre meraviglioso e pericoloso, la storia di un drammaturgo ateniese che certe cose non le può spiegare e di un padre a cui somigliare anche solo nei sogni, la storia del male che solo un figlio può fare a un padre e della forza di rimediare.
L'amore di chi, per amare, ancora deve trovare il coraggio.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
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Questa è per Ceci, punto.

Mi ha chiesto tante volte di scrivere di Clitemnestra e Aiace -in verità mi ha chiesto tante cose, ma io elaboro lentamente ;)- e adesso...sono quasi sicura di non averlo fatto come voleva lei, ma l'ho fatto...così.



Sofocle prima di dormire


Figlio, so che devi colpirmi a morte

E colpire forte

(Figlio, Roberto Vecchioni)


Aiace, Sofocle.


Aiace spinse con un colpetto l'ultimo volume nello scaffale della libreria e si fermò a contemplarne il dorso.

Chiuse gli occhi e rivide suo padre, il suo riflesso tra i bagliori dell'Eurota, i capelli arruffati e quel mezzo sorriso indecifrabile.

Dannatamente fiero di essere greco, dannatamente straordinario.

Suo padre, quel matto.

-All'inferno ci andiamo insieme, papà-

Suo padre, che leggeva Sofocle prima di dormire.

-Aiace ad Achille faceva mangiare la polvere, questa è la verità-

Suo padre che gli aveva stretto la mano, aveva visto la freccia e le aveva offerto il tallone.

-Ma hai sempre preferito Euripide a Sofocle, tu-

Suo padre a cui, semplicemente, avrebbero dovuto impedire di avvicinarsi all'anagrafe.

-Aiace, Alcesti...ah, no! L'Alcesti era di Euripide-

Scosse la testa, e sulle sue labbra tornò quel sorriso un po' ironico un po' di auto rimprovero.

Il sorriso di suo padre.

-Quando mi spiegavi che i Turchi Ottomani avevano vinto i Greci e non la Grecia...quando mi hai detto che la rivincita ce l'avevamo scritta nelle mani...-

Lui ci credeva.


Se tu ragazzo cercherai, nella stagione dei tuoi guai

Un po' d'amore, un po' d' affetto

E nella notte griderai, in fondo al buio troverai

Solo il cuscino del tuo letto

Non devi piangere, non devi credere

Che questa vita non sia bella

(Dimmi che credi, Antonello Venditti)


Geórgos, suo padre, che forse non aveva il nome epico che avrebbe desiderato, era un eroe.

Oh, non sembrava, no.

Gli sembrava di vederlo, mentre scendeva con un salto dalla nave, si levava il cappello per salutarlo ed aveva un sorriso per ogni onda dell'Egeo, poi inciampava in una gomena e finiva in mare, ma neanche in quel mentre rinunciava a gridargli il “Kaliméra, Aiace!” più allegro dell'Ellade, e lui che magari aveva appena detto a un amico: “Guarda, quello è mio padre!”, lo adorava.

E l'amico poi faceva anche lo spiritoso, gli diceva “Sei sicuro? M'avevi detto, se non m'inganno, che tuo padre era un eroe”.

“Sì. E' proprio mio padre, lui”.


E se io non sono stato

Allora cerca tu

Di essere un grand'uomo

(Grand'uomo, Claudio Baglioni)


Era suo padre, bello come il sole e cieco come una talpa, a sentir le ragazze di Sparta, tanto miope che cascava per la strada come niente, e poi gli alberi contro cui finiva li contava solo Dio.

Era suo padre, un eroe forse un po' anticonformista, che lo raggiungeva inciampando nelle stringhe delle scarpe e gli diceva “Scusa, non l'avevo vista”, maledicendo in greco antico la gomena irriverente, poi gli spettinava i capelli e scoppiava a ridere.

Era suo padre, un eroe con un po' troppi miti da seguire, che citava Omero mentre sputava sangue, citava Omero mentre gettava a terra l'ennesima bottiglia di ouzo, e magari era già un po' ubriaco, probabilmente il suo nome l'aveva già scordato da un pezzo, ma Omero lo citava ancora.

Era suo padre, che i duelli e gli eroi li conosceva tutti, che se ne dimenticava qualcuno gli gridava: “ti diseredo!”, e tutto quello che aveva era una copia dell'Iliade, un pugno di sigarette, un pugnale centenario che usava perfino per grattarsi i piedi e quella sua sfacciataggine dannatamente unica.

Era suo padre, che citava Omero col fucile in mano, il suo sorriso fuori luogo e la divisa della marina greca, suo padre su cui la Giustizia aveva messo una taglia dalla notte dei tempi e la sua Giustizia se la faceva da solo, suo padre che alla reggia preferiva la galera, ed in galera aveva passato più notti che a casa, suo padre che una casa non l'aveva e la sua casa era la strada, l'accampamento sul Taigeto, sotto le stelle a cui sparava.

Suo padre, quel ragazzo mai cresciuto, quel brigante un po' filosofo che lo vedeva ciondolare, sbadigliare e sbuffare sulle pagine di un libro e gli diceva: “leggi Omero!”, suo padre ch'era un illuminista un po' romantico od un romantico illuminato, suo padre che parlava col ritratto di Voltaire, poi sospirava ed inciampava nel loro grasso gatto turco, il loro Ettore di Troia che di epico aveva solo la pancia, a dir la verità.

Suo padre che gli indicava il mare di notte, accendeva un fiammifero e proponeva: “fuma con me”, suo padre a cui il fumo era sempre andato di traverso, e tossiva e faceva tossire dal ridere, ma non gl'importava.

Suo padre che citava Omero tra i boschi e sulla spiaggia, passeggiava con le mani in tasca, annuiva e non ascoltava, suo padre ch'era innamorato, innamorato perso, d'una ragazza che non era sua madre, suo padre che citava Omero mente si frugava nelle tasche alla ricerca di una sigaretta ancora buona, fumata a metà, che poi magari dimenticava accesa nell'Iliade, e dopo Omero non lo citava più.

Suo padre, cielo, che matto, suo padre, che mito, suo padre, che idiota, suo padre, che padre, suo padre!


E ti giuro che

Io sarò qualcuno

(Grand'uomo, Claudio Baglioni)


Suo padre che, per primo, gli aveva letto quei libri, quei libri che non erano libri, quei libri che avrebbero tenuto sveglio chiunque, eppure lui tra quelle pagine s'era addormentato, e mai svegliato, forse,

Era stato coraggioso, Sofocle, nella sua Elettra, a scrivere di lei, a parlare di lei, proprio di lei, come Eschilo nell'Orestea, a dedicarle tante pagine, ma stava di fatto che il suo nome, in copertina, non aveva avuto il coraggio di scriverlo nessuno.

Eppure era bello, quel nome.

Bello, bello e dall'eco infinito, il nome di quella donna meravigliosa e atroce, il nome che secoli dopo, in quella sua epoca di guerre e rivoluzioni, di vittorie regalate ai più forti, sangue sulle strade e sogni di rivalsa, era sulle sue labbra solo per chiamare una ragazza, la ragazza di cui né Sofocle, né Eschilo, né Euripide, né uno solo di quegli uomini illustri, fosse stato anche il più alto dei poeti, drammaturghi e lirici greci, avrebbe potuto scrivere.

E lui l'avrebbe messo anche subito, il suo nome, in copertina.

Ma il coraggio di scrivere, quello gli sarebbe mancato sempre.

Dio, quella ragazza...

-Da te ho ereditato anche quel difetto, papà-


Dimmi dove ti assomiglio, figlio

(Figlio, Roberto Vecchioni)


Clitemnestra.

Era bella, Clitemnestra.

Non la sapeva descrivere, lui, Clitemnestra.

Clitemnestra, gli occhi troppo limpidi, accecanti, e quella luce, quella luce nella pelle candida, nel sorriso lieve.

E se fosse stato un altro uomo, forse, non si sarebbe perso in sogni, sguardi languidi e parole da poetucolo fallito, Aiace.

D'altronde era sempre stata sua, Clitemnestra.


E non posso fare a meno di te, di ieri, dei tuoi grandi occhi chiari

Sei ancora quella che eri o no?

(Quanto ti voglio, Claudio Baglioni)


Era nata l'8 di Aprile, Clitemnestra.

Era nata a Krasnojarsk, nel cuore della Russia Siberiana, Siberia Centrale, neve a valanghe e steppe infinite, cielo di pioggia e di vento e nuvole invernali, inverno tutto l'anno e inverno in fondo al cuore.
Eppure c'era il sole, negli occhi di Clitemnestra.

L'aveva sempre chiamata “zia”, Clitemnestra, sebbene avesse due anni in meno di lui.

Era la sorella di Natal'ja, il grande amore di suo padre.

E quel nome, quel nome gliel'avevano dato loro, Natal'ja e Geórgos, e con quel nome la loro benedizione su quella terra.

Lui no.

Lui che quando era nata Clitemnestra sapeva appena parlare, e il suo nome certo non lo sapeva, lui ch'era sempre troppo burbero o troppo gentile, lui ch'era figlio di suo padre e pietà non ne aveva per nessuno, non le avrebbe mai dato alcuna benedizione.

Non a Clitemnestra.


Io ti guardai

E nel fuoco in fiamme andai

(La Voluttà, Riccardo Cocciante)

L'avrebbe illusa, lui, Clitemnestra.

Non era come suo padre.

Non era abbastanza forte, non aveva nemmeno il coraggio di guardarlo in faccia.

Non era come sua sorella.


Lei crede che il suo corpo sia

Già scritto nella mano mia

(Il Val d'Amore, Riccardo Cocciante)


Lui Clitemnestra l'avrebbe avuta e basta.

C'erano poche domande da porsi, c'erano poche risposte da dare.

Non aveva intenzione di avere pazienza, con lei.

Non ne aveva avuta quando erano venuti dalla Tessaglia a sfidarlo a duello -“perché non sarà mica invincibile come suo nonno, questo ragazzino!” , quando un corriere della Beozia gli era inciampato davanti e per poco non gli aveva camminato sopra “non è mica gentile come suo padre, questo ragazzino!”, quando aveva guardato, indifferente, il suo riflesso nell'Eurota, i suoi capelli spettinati, gli occhi neri, scintillanti, mai sinceri come quelli di suo padre, senza l'ardore di quella poesia, l'amore immenso dell'uomo che tanto ammirava.

Ma suo padre, per amare, non aveva bisogno di catene, di avere ai suoi piedi le leggi del cielo, di far piangere la donna dei suoi sogni, di legarle le mani per non maledire le proprie, incapaci di carezze, strette intorno ad un fucile, tutti i giorni, da mille lune, senza fiato, senza speranze, senza dolcezza in quegli occhi senza luce, d'ossidiana ormai opaca, paragonata al colore magnifico degli occhi di suo padre nel ritratto che sulla parete della camera lo guardava senza dir niente.

Non scuoteva la testa, non avanzava rimproveri, non trovava per lui nemmeno un sorriso triste, il bel volto di Geórgos nel ritratto messo lì un po' di traverso, di fronte al letto sfatto da una vita.

Dove l'avrebbe trovata, quella luce, Aiace?

Avrebbe fatto cadere dai suoi occhi quella benedetta lacrima che gli brillava tra le ciglia, Clitemnestra.


Io ti odio, ti odio, ti odio

Ma perché sei tanto bella?

Ti odio

Perché non scompari, perché non ti uccidi?

E perché ti voglio tanto, io?

(Quanto ti voglio, Claudio Baglioni)




Note



La verità?

Non me l'aspettavo nemmeno io, questo Aiace - Phoebus De Chateaupers, questa Clitemnestra così fragile e diversa da Natal’ja, ma raramente riesco a scrivere quello che mi aspetto e, soprattutto, ad “aspettare” quello che scrivo. ;)

Ma non lo so, non lo so.



I personaggi di Sic Volvere Parcas sono così, sono sempre un po' incontrollabili...ma ci tengo tanto, anche troppo.

Di Aiace e George dovevo parlare, punto.

Li adoro, io, Aiace e George, perché sono diversi, atrocemente, meravigliosamente diversi, ma il nodo che li lega è troppo forte, troppo splendidamente forte, e George e quel suo figlio avuto a quindici anni sono Crono e Zeus, sono Achille e Neottolemo, sono tutto, tutto.

Aiace e Clitemnestra sono due personaggi della letteratura greca che adoro, e Alcesti -altra figura mitica, a parer mio-, poiché nella storia non è specificato, è la sorella minore di Aiace, anche se solo da parte di padre, la figlia di George e Natal'ja.
Aiace è figlio di George e Lisistrata, la terribile e bellissima Lisistrata, ma questa è davvero un'altra storia. ;)

E non è una fine, la fine di questa storia.

E' flebile, la storia di Aiace e Clitemnestra.

E' flebile, quel loro amore.

Amore...non è che ci sia poi tanto, di amore, in questa storia.

Non di amore in quel senso.

C'è il coraggio di amare da trovare, da trovare chissà dove, e Aiace e Clitemnestra, che sono i miei personaggi, sì, ma mi sono sfuggiti di mano, stavolta.

E decideranno loro, poi.

Decideranno loro, di quel loro amore ora tanto flebile e soffuso quanto intenso negli occhi e nelle mani...

E io spero d'averle strappato un sorriso, con questa storia, a quello scricciolo biondo ch'è la Cecilia.

Perché deve sorridere, oggi, la mia Ceci.

E per oggi è tutto. ;)


A presto,

Marty

  
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