Titanic –
o quel che ne rimane.-
- Vede,
signorina- disse l’uomo – perdere la persona amata è uno shock talmente grande
da far sbiancare i capelli.
Rimase a
fissarlo immobile, interdetta, chiedendosi perché mai quell’uomo le avesse
rivolto la parola.
-
Scusi..?
- Oh,
beh- l’uomo sorrise leggermente – visto che lei è qui, oggi, ho immaginato che
anche lei abbia perso qualcuno, quel giorno. Oppure mi sbaglio. Magari è venuta
qua per fare una passeggiata al porto.- si voltò verso di lei – È venuta qua
per fare una passeggiata al porto?
Scosse
la testa.
- Lo immaginavo.
Inoltre, ha una ciocca di capelli bianchi, proprio dietro l’orecchio sinistro.
-
Credevo di averli nascosti bene. - disse lei ridacchiando nervosamente,
sistemandosi i capelli.
- Non si
dovrebbe mai nascondere il proprio dolore, signorina. Io, come vede- si tolse
il cappello e si passò una mano fra i capelli. Solo allora la donna notò che
erano completamente bianchi – lo porto con orgoglio. Diciamo che ne ho fatto
una mia caratteristica.
- Non
vedo- sbottò la donna guardando fisso il mare – perché dovrei essere orgogliosa
del mio dolore. Cosa c’è di bello nell’idea di perdere una persona amata?
- L’idea
di averla amata, signorina.
Lei gli
si avvicinò lentamente – Chi ha perso lei?
L’uomo
le sorrise, mostrandole un pezzetto di stoffa azzurra che teneva stretto fra le
dita – Il mio unico amore. Lei?
- Un
amore. Non l’unico. Forse il migliore. Il più grande, bello, travolgente. Ha
presente quegli amori che tutto d’un tratto ti fanno sentire viva, come se fino
al giorno prima fossi stata soltanto lì, senza neanche esistere?
- Era la
sensazione che provavo con lui ogni giorno. Vede- gli occhi dell’uomo erano
persi nel cielo e allora la donna notò che erano proprio dello stesso colore di
quel cielo primaverile – dal momento in cui ho conosciuto lui ho capito che la
mia vita non aveva mai avuto senso. Che dovevamo restare assieme. Che ci
completavamo. Lui diceva sempre che io ero il cervello e lui il braccio. Era
una cosa poco romantica da dire, ma rendeva l’idea.
- Perché
è salito su quella nave, lei?- si sedette su una cassa lasciata là,
sistemandosi l’abito di georgette verde sulle gambe.
-
Inseguivo un sogno. Sa, volevo cantare. Ma in Inghilterra c’era decisamente
poca richiesta di cantanti uomini, all’epoca. Perciò abbiamo deciso di venire qua
in America. Volevo diventare una star del musical- rise – e ci sono anche
riuscito, è quel il divertente. Peccato che lui non lo saprà mai. Lei, invece,
cosa c’è venuta a fare in questo Nuovo vecchio
Mondo?
- A
sposarmi. - sbottò, chiedendosi se il suo motivo non fosse troppo terra-terra
per essere posto accanto ad un sogno così grande – Ero promessa in sposa a un
americano. Sono venuta per sposarlo.
- E si è
innamorata sulla nave?
- Sì.
- Di
chi, se posso chiederlo?
- Del
capitano. O, almeno, mi disse di essere il capitano. In realtà sapevo benissimo
che era l’aiuto del cuoco, ma non m’importava.
- Era
bello?
- Non
bello. Affascinante. Uno di quegli uomini che ti catturano con un solo sguardo
e in dieci secondi capisci che sei sua in ogni singola fibra del tuo corpo. Il
suo amore, invece, era bello?
- Era
bello, sì. Ai miei occhi era l’uomo più bello del mondo.
Sentì
quasi un piccolo moto di fastidio nel sentirsi dire che quell’uomo aveva amato
un altro uomo. Ma poi decise che in fondo, chiunque quell’uomo avesse amato,
non era certo affar suo.
- Amava
sentirmi cantare. Lei ha mai cantato per qualcuno, signorina?
- Prima,
per molti. Poi per lui. Poi ho smesso. Non sapevo perché, ma non mi usciva la
voce. Non la stessa di sempre, diversa.
-
Capisco. Anche la mia voce è un po’ cambiata da allora. Leggermente più roca, struggente, come l’hanno definita i
giornali. Dicono che quando canto faccio piangere le persone perché sembra che
io stesso stia piangendo. Non saprei perché.
- Magari
cantare le ricorda quella persona.
- Di
sicuro, signorina, di sicuro. Alle volte canto per lui, sa?
- E cosa
canta?
- Jazz.
A lui piaceva. Diceva che gli ricordava la nostra relazione: una cosa splendida
che non doveva essere spiegata. Quando le spieghi, le cose perdono la loro
bellezza, non crede?
-
Esatto. Credo che acquistare un senso, per certe cose, voglia dire renderle
meno attraenti. Se qualcuno si mettesse a spiegare l’amore non riuscirebbe mai
a trovare abbastanza parole e nessuna parola sarebbe abbastanza.
- Vedo
che siamo sulla stessa lunghezza d’onda, signorina.
-
Signora. Sono sposata.
- Da
quanti anni, dunque?
-
Trenta. Ho anche quattro figli. Il quarto si chiama Noah.
- Come
quel capitano?
- Mi
piaceva chiamarlo come lui. Quando è nato aveva gli occhi del suo stesso
colore. Purtroppo però, col tempo si sono schiariti.
-
Dev’essere stata una delusione, immagino.
- Può
dirlo. Quando ho visto quegli occhi, il mio cuore è quasi scoppiato. “Lui è tornato da me” ho pensato “è tornato e non mi lascerà mai più!”.
Era un pensiero infantile, non trova?
- Si
figuri. Da trent’anni aspetto che un uomo morto entri nel teatro in cui mi sto
esibendo e mi gridi che mi ama.
-
Diciamo che siamo entrambi infantili.
- Siamo
speranzosi. È un termine più garbato.
La donna
sorrise.
- Come
si è salvato, lei?
- Grazie
a lui. - l’uomo si rigirò fra le dita il pezzo di stoffa azzurra - Non capirò
mai come ha fatto, ma mi ha infilato addosso un cappotto, un cappello e mi ha
lanciato in una delle scialuppe in cui si stavano raccogliendo le donne della
prima classe.
-
Nessuno ha capito che era un uomo?
- Da
ragazzo il mio viso era più delicato- disse l’uomo carezzandosi il lato della
mascella con un pollice – molto più delicato. E sotto quel cappotto di
pelliccia e quel cappello orribile, nessuno mi ha visto in volto per davvero.
Lei?
- Lui
era scomparso. Io ero in una scialuppa. Lui non c’era più. Quando ho visto che
non c’era, provato il forte, folle
desiderio di – stringe i denti, guardandosi fisso le ginocchia – buttarmi
nell’acqua. Pensavo che quel gelo mi avrebbe raffreddata. Che avrebbe congelato
quell’amore, quel sentimento immaturo!
-Nessun
ghiaccio più raffreddare un amore, lo sa? È un fuoco troppo caldo.
- Lei è
un uomo romantico, lo sa?
- Lo so.
A lui piaceva che fossi così. Anche a me piace essere così. Probabilmente sono
l’ultimo dei romantici di questa terra.
- È un
ruolo che le si addice, se mi permette.
- La
ringrazio.
Allungò
una mano nel vuoto, aprendo le dita. Sul palmo, riposava il pezzo di stoffa
azzurra – Questo era il colletto della sua camicia. L’ho strappato quando lui
mi ha gettato nella scialuppa di salvataggio.
- Non
voleva separarsi da lui?
- Tutti
dobbiamo morire prima o poi, no? Io volevo solo morire fra le sue braccia. Era
sicuramente un desiderio egoistico, ma era il mio desiderio. Quel giorno, vent’anni dopo, quando voleva lui.
Andarmene e lasciarlo lì da solo- richiuse le dita – era troppo doloroso.
- Vorrei
poterla capire.
- Lei
può. Credo che il suo amore fosse come il mio. Quindi anche il suo dolore lo
era e lo è.
- Magari
non lo era. Magari era solo un piccolo amore che sarebbe durato una settimana e
poi non ci saremo mai più rivisti.
- Le
duole il cuore quando pensa a lui?
-
Sempre.
- Non
esistono amori grandi e piccoli. Esistono solo amori. Ogni amore è splendido.
Lei
annuì. Lui si avvicinò all’acqua. Il pezzo di stoffa azzurra volteggiò
lentamente nell’aria come una farfalla stanca, adagiandosi poi sulla superficie
dell’oceano e lì restò finché, ormai fradicio, cominciò ad affondare a una
lentezza allucinante.
L’uomo
sospirò, asciugandosi con il dorso della mano le lacrime che non erano lì.
Forse era un gesto dettato da altro, da un ricordo, magari un riflesso indotto.
Lei non poteva saperlo – Ora non mi resta davvero nulla di lui. Solo i ricordi.
Ma anche quelli svaniscono.
- Ho
paura che i miei ricordi svaniscano del tutto, alle volte. - lei si alzò,
spolverandosi la gonna – Ho paura di non ricordare più com’erano i suoi occhi,
la sua voce, le sue mani. Non ho avuto molto tempo per osservarlo, ma quei
particolari di lui sono impressi nella mia mente. Se mai me li scordassi, credo
che cadrei in lutto.
- La
capisco. Se mai- rimase fermo, immobile, perso in qualche ricordo antico, lo
sguardo fisso laddove era sparito il pezzo di stoffa – dimenticassi qualcosa di
lui, sarebbe tremendo.
- Cos’è
che ha dimenticato?
L’uomo
tremò – La sua voce. Nei miei sogni
sorride e mi parla ma io- singhiozzò – non la sento. Non la sento più. Quindi parlo per entrambi. Lo conosco
bene, so cosa vuole dirmi. Quindi parlo. E rimpiazzo la sua voce. Amavo tanto
la sua voce.
- Io
odiavo la sua barba. Eppure posso descriverla pelo per pelo. Amavo le sue
labbra e non ricordo neppure più com’erano fatte.
- Non
dimentichiamo mai ciò che abbiamo odiato. Di tanto in tanto sento ancora la sua
voce che mi fa “ehm, Kurt, credo di aver
rotto qualcosa”, mentre sulla sua faccia si dipinge quel sorrisetto fra lo
stupido e il colpevole che fa sempre quando sa di aver sbagliato. Era una cosa
che detestavo. - sorrise – Fortunatamente, quando dice questo, io riesco a
ricordare la sua voce. Mi fa sentire meglio.
- Non
spera più di rivederlo?
-
Sperare? Signora, a vent’anni sogni. A trenta speri. A quaranta
rimpiangi. A cinquanta tiri le somme. Quando ti ritrovi sull’orlo dei sessanta,
semplicemente, capisci che non ne vale più la pena. Che la tua carriera è
finita, che non calcherai mai più le scene o se le calcherai non sarà mai più
come prima, che sei solo un vecchio depresso e alcolizzato come tanti altri. Io
non spero più.
L’uomo
si sistemò il cappello in testa – Credo che sia ora di andare.
- Credo
anch’io.
Kurt,
col suo dolore nel cuore, se ne andò.
Rachel,
col suo dolore nel cuore, lo seguì.
Kurt
Hummel, la stella dei musical, l’angelo, serafino, cherubino e altri nomignoli
di varia origine morì qualche giorno dopo nel suo appartamento. A quanto pare,
dopo un party-di-chiusura-spettacolo troppo pesante per un uomo della sua età,
era tornato a casa ubriaco e si era versato, senza saperlo, troppo sonnifero.
Il caso fu
archiviato come doloroso incidente e Kurt Hummel ottenne un minuto di silenzio
in tutti i teatri d’America, oltre che una tomba vicino alla lapide che
commemorava la tragica morte di un ragazzo di vent’anni di nome Finn.
Rachel
St.James amò –per quanto le fosse possibile- suo marito e i suoi figli e morì
dieci anni dopo circondata dai figli e nipoti che non erano partiti per la
guerra.
Guardò negli
occhi uno dei nipotini e sorrise. Noah Junior aveva due occhi splendidi occhi
neri.
A.Corner___
Niente di
che. Come vedete, tra questa storia e la storia del “Titanic” c’è una sola cosa in comune: che la nave affonda.
Per il
resto, tutto ciò che non avete capito, potete chiederlo a me, o arrovellarvi
nel dubbio in attesa che lo Spirito Santo vi risponda. Già, è più probabile che
lo faccia lui che io.
Dannata pigrizia.
Ah, le
coppie, come avete notato sono: Puckleberry e St.Berry per quanto riguarda Rachel. Furt,
per quanto riguarda Kurt.
Passando
oltre, beccatevi queste simpatiche battute che poi non sono riuscita ad
inserire nella storia:
Kurt: Dopo questa esperienza, ho
giurato che non comprerò mai neanche una forchetta “made in Belfast”.
[N.B: il Titanic
è stato costruito proprio a Belfast]
Rachel: Aveva il callo del pelapatate
sulla mano sinistra.
Kurt: Non potrei tornare in
Inghilterra neanche volendo, ormai. Ho sviluppato una fobia per le navi da
crociera, o comunque, per gli oggetti semoventi più grandi di un motorino.
Rachel: Mi sveglio la mattina, guardo
mio marito e mi chiedo se non sarebbe stato meglio per me morire quel giorno.
Mio marito sbava mentre dorme ed è orrendo.
Kurt: Hanno detto che non canto bene.
Due volte. Poi il Signore ha mandato su di loro una pioggia purificatrice e
sono annegati.
Rachel: Ho quattro figli. Li detesto
tutti e quattro. Somigliano troppo al padre.