Inverno
Sale
la nebbia sui
prati bianchi,
come
un cipresso
nei camposanti:
un
campanile che
non sembra vero,
segna
il confine
fra la terra e il cielo
Viste
da
quassù, le persone che vanno e vengono sembrano tanti piccoli insetti
operosi.
Insetti:
né uomini né donne –tantomeno cavalieri dotati di enormi poteri.
Solo
insetti,
che il destino può schiacciare con le dita a suo piacimento.
Anche
io
mi sento così e, in fondo, ne ho più ragione di altri: l'animale che
rappresenta la costellazione da cui sono guidato non è poi così
dissimile da un
semplice ragno.
La
sferzante
tramontana che sta scompigliando i miei capelli non basta a fugare le
ombre mi mangiano dentro – non basterebbe nemmeno un uragano.
Ma
tu che vai, ma
tu rimani
vedrai
la neve se
ne andrà domani,
rifioriranno
le
gioie passate
col
vento caldo di
un'altra estate
Ho
le
mani ghiacciate, ma non me ne curo: il gelo che ho nel cuore è mille
volte
più doloroso.
Sarà
il
primo inverno senza di te.
E
pensare che ti piaceva tanto questo periodo, quasi quanto non piaceva
a me: ogni
anno aspettavi con impazienza la prima nevicata, che spesso non
arrivava, e
quando ti accorgevi che non sarebbe caduto nemmeno un fiocco
maledicevi la
Grecia, minacciando di tornare in Siberia.
Ma
io
so che lo dicevi solo per il gusto di sentirmi supplicare di non
andare; in
verità, non mi avresti mai lasciato.
Rispetto
a
prima, ora avrei miliardi di motivi in più per detestare il freddo,
però,
chissà, magari comincerò ad amarlo anche io.
Perché
il
freddo è ciò che ti ha ucciso ma, al contempo, ciò che ti ha creato
così
come eri – perfetto.
Anche
la luce
sembra morire
nell'ombra
incerta
di un divenire,
dove
anche l'alba
diventa sera
e
i volti sembrano
teschi di cera
È
novembre inoltrato, ormai.
Quest'anno
l'autunno
se n'è andato in fretta; gli alberi sembrano scheletri nella nebbia,
coperti come sono da neve prematura, caduta troppo presto – ma troppo
tardi
perché tu potessi vederla.
Non
c'è
alcuna traccia della loro chioma, sono spariti i riflessi di rosso e
d'oro;
di quel miscuglio colorato così simile al tuo non è rimasto altro che
un cumulo
di foglie secche.
Tutto
di
questa stagione è malinconico, persino il sole pare un moribondo che
tenta
disperatamente di aggrapparsi alla vita.
Che
strano,
mi ricorda i tuoi ultimi istanti.
«Sorridi,
Milo:
da oggi in poi veglierò io sui tuoi giorni»
mi dicesti, freddo e composto persino un attimo prima della fine –
solo il tuo
sguardo gridava l'orrore che in realtà sentivi: chi l'avrebbe detto,
che anche
l'impassibile Camus di Aquarius aveva paura della morte.
Ma
tu che vai, ma
tu rimani
anche
la neve
morirà domani,
l'amore
ancora ci
passerà vicino
nella
stagione del
biancospino
Cerco
sempre
di non pensare troppo a ciò che è stato, non ho più voglia di
soffrire.
Ma
è
passato così poco tempo e, comunque, non mi basterebbe una vita intera
per
dimenticare.
Non
so
se riuscirò mai a perdonarti di avermi lasciato solo.
Non
avresti
dovuto farmi questo, né per onore né per dovere – nemmeno per Atena.
Come
vorrei
che il tuo ricordo se ne fosse andato insieme a te!
Invece
quello
è l'unica cosa che mi rimane e, volente o nolente, prima o poi dovrò
imparare a conviverci, sapendo che mi perseguiterà per il resto dei
miei
giorni, impedendomi di amare nient'altro che il tuo spettro.
No,
forse
mi sono sbagliato. Forse non mi hai lasciato davvero solo: ci sarà
ogni
immagine di te, vivida e senza età, a farmi compagnia.
La
terra stanca,
sotto la neve,
dorme
il silenzio
di un sonno greve:
l'inverno
raccoglie
la sua fatica
di
mille secoli,
da un'alba antica
Sta
calando
la sera.
Intorno
a
me c'è un silenzio irreale, come se con la luce si spegnesse pure
tutto il
resto; il freddo si è fatto più intenso, eppure non so decidermi a
rientrare.
C'è
una
cosa che devo fare da molto tempo e, se il cielo vorrà, forse oggi
avrò
abbastanza coraggio.
Per
mesi
gli altri hanno acconsentito a farla al posto mio e sono sicuro che,
se
glielo chiedessi, di certo non si rifiuterebbero di continuare: mi
capiscono,
anche loro conoscono il dolore della perdita.
Compiere
tale
gesto significherebbe prendere definitivamente coscienza che non
comparirai più sulla soglia dell'Ottava Casa, magari con l'aria
scocciata di
chi ha a che fare troppo spesso con i ritardatari come me.
Abbi
pietà
della mia vigliaccheria, ti prego – no, non posso rimandare ancora.
Non
posso proprio.
É
giunto il momento di accettare la realtà.
Ma
tu che stai,
perché rimani?
Un
altro inverno
tornerà domani,
cadrà
altra neve a
consolare i campi,
cadrà
altra neve,
sui camposanti.
Poco
lontano
da dove sono seduto un cancello cigola, tetro come il paesaggio
circostante.
Mi
alzo,
deciso, e lo attraverso quasi correndo: non voglio concedermi il tempo
di
cambiare idea.
Il
cimitero
del Grande Tempio mi accoglie nella sua aura solenne – l'unica volta
che ci sono stato non mi era parso così triste.
Percorro
con
ansia crescente le file delle antiche tombe che ospitano i corpi dei
nostri
predecessori, senza fermarmi.
Ciò
che
cerco è più avanti, sembra quasi che mi stia chiamando.
E,
finalmente,
eccola: la tua lapide, su cui è inciso il simbolo dell'Acquario, si
trova tra quelle di Shura e Aphrodite.
Sullo
spoglio
marmo bianco troneggia la scritta "Camus di Aquarius, 1966-
1986": un'epigrafe che non rende assolutamente onore al grande
uomo
che sei stato.
Ma
non
preoccuparti, Camus, penserò io a fare in modo che il motivo per cui
sei
morto non venga dimenticato: hai donato la vita affinché il tuo
allievo
divenisse un vero cavaliere, ed è giusto che il mondo lo sappia.
Guarda,
la
neve ha ricominciato a cadere: ho la strana impressione che sia tu a
mandarmela, come se cercassi di consolarmi.
Forse
è
solo un'illusione dettata dal desiderio che una parte di te esista
ancora, e
che si preoccupi per me.
O forse no.
La
canzone si intitola "Inverno"
ed è di Fabrizio De Andrè – anche se io preferisco quella reinterpretata
da
Franco Battiato.