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Autore: ilGhiro    20/09/2011    0 recensioni
[sospesa]
"L’alcool gli impastava i pensieri e li rendeva caotici, ma di una nitidezza sconosciuta che lo spaventava; pensieri che lo invitavano, ironia della sorte, a smettere di dar loro peso, per concentrarsi sul momento.
Carpe diem!, diceva spesso nonna Warren prima di provare il deltaplano sul Gran Canyon; carpe diem, pensò Daniel, con il presentimento che ciò che stava per fare in quel momento avrebbe portato anche lui, inevitabilmente, a farsi molto male."
Soffitte piene di whiskey, colpi di fulmine a ciel sereno, finti vampiri che bighellonano per New York, modelle svedesi patite di Wii Sports... E una bellissima -ma soprattutto comicissima- storia d'amore, che dovrà superare parecchi ostacoli pur non essendo granchè allenata.
Ma ricordate: Questa non è la solita stupida shonen-ai.
Genere: Comico, Demenziale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La mia testa disse commedia... E commedia fu. Ah, adoro le recensioni (pure quelle critiche, in fede al mio masochismo).

Buona lettura.








Tediato dall’ ennesimo pomeriggio di caldo afoso a New York, Daniel Warren si alzò dal divano di casa con le poche forze che gli rimanevano e andò in cucina, sperando di trovare un qualsiasi palliativo alla sete che lo stava divorando.
 
Aprì con malcelata tragicità lo sportello del frigo, temendo già il triste esito della sua sortita, e contemplò con altrettanto pathos gli scaffali completamente vuoti, sospirando.
 
Mentre al caldo che lo avvolgeva si aggiungeva un profondo senso di irritazione, Daniel aprì e richiuse il frigo più e più volte, sperando che, come per magia, un ghiacciolo o una qualsiasi bevanda fresca comparisse improvvisamente tra gli scaffali.
 
Invano.
 
Da qualche parte dentro di sè una vocina insistente gli rimproverò il fatto di aver affidato la giurisdizione della cucina alla sorella, in assenza dei genitori felicemente in ferie; da qualche altra parte, forse nei dintorni del fegato, una vocina altrettanto insistente dichiarò che se sua sorella era irrimediabilmente stupida, tuttavia, l’unica cosa che Daniel poteva fare adesso sarebbe stata cercare una meritata vendetta, possibilmente culminante nell’esproprio del frigo bar in camera dell’oca cui purtroppo doveva fare da fratello maggiore.
 
A zittire le vocine che si insultavano rumorosamente qua e là nel suo organismo intervenne il caldo.
 
Daniel sapeva essere spietato, certo, ma con 35 gradi di temperatura sottrarre un frigo, seppur di piccole dimensioni, avrebbe potuto stroncare persino lui, uomo di casa a tempo determinato, brillante studente a un anno dal diploma, bello, atletico, quasi abbronzato, colto, coraggioso, astuto e...
 
La vocina narcisista insediata nel pancreas dette forfait, stordita dal troppo caldo, lasciando Daniel a corto di entusiasmo.
 
Il ragazzo si ravviò stancamente i capelli castano scuro e si rassegnò a tornare in camera, per finire i bilanciamenti delle formule chimiche cui si stava dedicando prima che l’afa gli prosciugasse ogni residuo d’acqua dal corpo.
 
Mi resta solo la Chimica, pensò affranto, prendendo in mano la penna, prima che una risatina eccitata proveniente dalla stanza accanto gli togliesse il briciolo d’attenzione che aveva appena ritrovato in fondo al cervello.
 
La vocina narcisista, in un rantolo, terminò la sfilza di qualità da lui possedute, mentre Daniel, sorridendo istericamente, si rialzava dalla sedia girevole e varcava con una mazza da baseball la soglia della stanza di Lucy Warren, ignorando i cuoricini e le scritte glitterate di cui la porta era vistosamente adorna.
 
La sorella, tragicamente inconsapevole della sua presenza, continuò a ridacchiare, mentre le dita sottili, dalle unghie perfettamente laccate, ticchettavano vivacemente sulla tastiera rosa shocking.
 
Daniel posò la mazza su uno scaffale ricolmo di riviste scandalistiche e magazine di dubbia cultura mentre si avvicinava, rinunciando all’effetto sorpresa, al computer, e osservò lo schermo a cristalli liquidi, sempre più sorpreso; Lucy tentò invano di colpirlo dopo essersi accorta, con un gridolino stridulo, della sua presenza.
 
Ma cos’è, un concorso di letteratura? E da quando Lucy ha imparato a  scrivere? pensò Daniel tra sé e sé, mentre la ragazza, che aveva apparentemente rinunciato al suo intento di allontanarlo, gli puntava ora addosso un’occhiata che avrebbe dovuto incutere terrore e che la rendeva soltanto simile a una gallina che arruffava le penne.
 
Daniel si avvicinò ulteriormente allo schermo, cogliendo a malapena le prime frasi prima che Lucy, in un miracoloso impeto di coraggio, si buttasse addosso a lui con tutta la sua forza, riuscendo ad atterrarlo sul parquet.
 
Daniel, sotto al corpo della ragazza, assunse un’aria pensierosa mentre la sorella si rialzava e indietreggiava lentamente, aspettandosi una reazione violenta.
 
Nella testa del ragazzo, oltre alle formule di Chimica che aveva lasciato a metà sulla scrivania, risuonarono, cupe e angoscianti, le parole che aveva appena letto nel computer della sorella.
 
“E se io fossi Bella Swan?! E se Edward fosse il mio vicino di casa?! E se lui  si innamorasse perdutamente di me e volesse stare con me a ogni ora del giorno e della notte?!”
 
Daniel sorrise incredulo e vagamente trionfante, come se avesse improvvisamente capito perché l’acido carbonico, addizionato all’acqua, desse come prodotto l’agnone bicarbonato.
 
Alzò lentamente gli occhi verso la sorella, che, piacevolmente colpita dall’inconsueta calma del fratello, stava cercando silenziosamente di scappare.
 
“Secondo me il nonno ha ancora la mitragliatrice, in soffitta.” mormorò, allargando il sorriso.
 
Lucy capì che la ginnastica a scuola, a volte, poteva tornare utile, mentre caracollava giù dalle scale e usciva di corsa dalla graziosa villetta a schiera di famiglia; fece in tempo a ritenersi salva, almeno per quel pomeriggio, prima che un corpo estraneo posto improvvisamente davanti al suo piede destro la facesse cadere a terra.
 
“Stronzo” biascicò rialzandosi dall’erba, dopo aver visto allontanarsi la sagoma di una scarpa semidistrutta e inconfondibile. I capelli biondo platino iniziavano ad arruffarsi pericolosamente, mentre buona parte della coppa destra del reggiseno a balconcino spuntava dalla canotta vedo e sì, ti vedo.
 
 “E’ sempre un piacere incontrarti, sorella di Daniel. ” mormorò in risposta il ragazzo minuto che la stava scavalcando con noncuranza.
 
“Le donne non si picchiano!” tentò Lucy, ravviandosi invano i capelli, ma l’altro era già sparito.
 
Se non altro, l’arrivo provvidenziale di Jack Svensson avrebbe distolto l’attenzione del suo malvagio fratello da lei, pensò con sollievo azzardandosi a tornare all’interno della casa, prima che Daniel, dal secondo piano, le rovesciasse addosso un secchio pieno d’acqua gelida.
 
Con il poco di dignità che le restava, e con il sottofondo musicale delle risate di Daniel e del suo degno compare, decise che quel giorno sarebbe andata da Jessica.
 
                                                                                                                                      * * *
 
Nel frattempo, all’interno della stanza di Daniel, i due ragazzi, finalmente privi della loro Barbie a grandezza naturale da torturare, iniziavano a capire che senza Lucy, dopotutto, il pomeriggio sarebbe stato molto noioso.
 
Prima convinsero il nonno di Daniel che gli alieni avevano invaso la terra, ma vedendo come il poveretto si allontanava pietosamente dalla veranda spingendo la sedia a rotelle e gridando allarmato capirono che Dio non avrebbe approvato per nulla; dunque si recarono di malavoglia nella stanza di Lucy e cercarono qualche poster nuovo da scarabocchiare, ma non ne era rimasto nessuno- in effetti, forse al mezzobusto di Edward Cullen si sarebbe potuto aggiungere qualche dente nero, ma il suo affascinante sorriso era ormai sufficientemente simile ad un cruciverba.
 
Stavano per rassegnarsi a fare i compiti assegnati per l’estate, cosa che non era mai accaduta fino a quel momento, quando Daniel decise che, in assenza dei suoi genitori che lo avevano proibito tassativamente, un salto a frugare nella vecchia roba in soffitta non avrebbe fatto alcun danno.
 
Una volta trovate le chiavi,circa mezz’ora dopo –il buon Bobby, prima di morire, aveva seppellito buona parte degli averi di casa Warren nella sua buca preferita in giardino, e cercarle in mezzo ai calzini sporchi, alle tibie del postino e alle innumerevoli dentiere scomparse del nonno non fu per niente facile- i due amici, raccolto tutto il coraggio di cui disponevano, salirono le scale della mansarda e aprirono, con timore reverenziale, la vecchia porta della soffitta.
 
La stanza era stipata di scatoloni enormi; in uno, Daniel trovò, con sua immensa gioia, l’intero set di armi da fuoco di nonno Warren, salvo poi scoprire che si trattava di fucili ad acqua dell’Ottocento –il nonno, come spiegazione, avrebbe più tardi detto che glieli aveva regalati un amico di famiglia eccentrico alla sua prima comunione, e non aveva mai trovato il coraggio di buttarli via- un elefante di peluche a grandezza naturale, l’intero guardaroba della prozia defunta vent’anni prima e un armadietto che si scoprì essere nientemeno che la riserva alcolica di famiglia.
 
Daniel e Jack erano bravi ragazzi; per questo si premurarono di lasciare qualche birra e limitarsi ai superalcolici.
 
“Tanto a papà il Whissskey fammale.” biascicò Daniel, mentre terminava l’ultima pregiata bottiglia di liquore targato, ironia della sorte, Jack Daniel’s e si sdraiava sul baldacchino che troneggiava in mezzo alla sala.
 
Nel frattempo Jack, alticcio almeno quanto l’altro, aveva deciso di controllare con precisione anche l’immenso guardaroba della prozia.
 
“Ma qui va a finire che vado a Narnia, Danny “ ridacchiò divertito, buttando all’aria visoni e boa di piume con noncuranza, mentre l’amico nascondeva la faccia nel cuscino e iniziava a maledire silenziosamente la sua passione per l’alcool.
 
A quel punto Jack continuò a parlare, ma Daniel decise che dieci minuti di incoscienza di certo gli avrebbero giovato, e si abbandonò al sonno; sonno dal quale riemerse poco dopo, sentendo nuovamente le risatine entusiaste dell’altro.
 
“Daniel, ma queshto è fantastico! Guarda che bello! Daniel! Ehi,inshomma, Daniel! Guardami!” stava perlappunto gridando Jack al suo indirizzo, quando Daniel si decise finalmente ad alzare gli occhi e a guardarlo mentre il biondo si specchiava in una provvidenziale anta del guardaroba.
 
Daniel osservò l’amico in kimono, in silenzio assorto, prima che un’ennesima vocina gli dicesse di aver esagerato con l’alcool.
 
Vocina che si zittì scandalizzata, insieme a tutte le altre, quando Daniel si ritrovò a pensare che Jack era decisamente troppo carino, per essere il suo migliore amico.
 
Il ragazzo capì inoltre che Dio lo stava punendo per lo scherzo al nonno, che ancora vagolava per il quartiere annunciando l’apocalisse, quando Jack avanzò verso di lui con fare seducente e l’abito malchiuso.
 
“Shto bene, vero?” rincarò la dose il suo amico alticcio, saltellando qua e là per la stanza.
 
Daniel si accorse, sempre più sconcertato, che il ragazzo con cui aveva passato buona parte degli ultimi cinque anni a giocare alla Play-station aveva la vita sottile, gli occhi azzurri e le labbra più maledettamente invitanti che avesse visto.
 
Persino più di quelle che ha sua sorella, realizzò con la poca lucidità che gli restava.
 
“Scusami, nonno.” borbottò Daniel, incapace di distogliere gli occhi da Jack mentre chissà per quale miracolo l’amico riusciva a mettere un disco in vinile nel giradischi del bisbisnonno e, ormai incapace di ballare, barcollava fino al letto e crollava accanto a lui.
 
“Ti porterò al parco tutti i giorni.” continuò disperato, mentre l’altro gli si avvinghiava al collo e ridacchiava, soddisfatto.
 
“Ti restituirò il poster di Marilyn mezzanuda e…Cazzo. Cazzo, cazzo, cazzo. Vaffanculo, nonno.” concluse, realizzando che prima di buttarsi sul materasso Jack si era tolto il kimono.
 
Quando Jack iniziò a baciargli il collo Daniel aveva già finito le bestemmie, e la scarsa lucidità che gli rimaneva per far fronte alla situazione.
 
                                                                                                                             * * *

Jessica Svensson, migliore amica di Lucy e sorella di Jack Svensson, guardò l’amica con stizza, comodamente sdraiata su un lettino da spiaggia.
 
Sbattendo con nervosismo le lunghe ciglia scure, la splendida ragazza lasciò vagare lo sguardo sulla piscina nel giardino di casa, meditando sull’ennesima angheria che Jack e Daniel, inseparabile duo di teppisti nonchè brillanti studenti del suo stesso liceo e legati ad entrambe le ragazze da purtroppo indiscutibili legami di sangue, avevano nuovamente perpetrato ai danni della sua migliore amica.
 
Con la calma glaciale ereditata dalla madre svedese, la sua mente astuta iniziò a elaborare un piano per sottrarre Lucy, una volta per tutte, alla cattiveria del fratello e al sadismo del suo fedele alleato.
 
“Bisogna fare qualcosa, cara” mormorò placida, mentre posava le lunghe gambe a terra e si rialzava, altrettanto tranquillamente, prima di dirigersi verso l’acqua limpida della piscina.
 
Improvvisamente privi del riparo dell’ombrellone, gli strass del suo bikini rosso, firmato Valentino, luccicarono sotto al sole cocente, prima di scomparire nell’acqua fresca grazie all’elegante tuffo di Jessica.
 
Lucy non rispose; si coprì il viso con il fazzoletto mentre le sfuggiva un singhiozzo isterico dalle labbra, già arricciate per l’umiliazione che stava provando in quel momento, costretta a chiedere aiuto per l’ennesima volta.
 
Jessica percorse, a bracciate lente e ritmiche, l’intera lunghezza della piscina, per poi tornare indietro, risalendo infine dalla scaletta; un cameriere l’aiutò a indossare un morbido accappatoio di spugna, mentre la modella fissava gli occhi color ghiaccio in quelli, castani e spauriti, di Lucy, e prendeva la sua decisione.
 
“Farò di te un’altra persona, Lucy...” dichiarò, con voce sicura, porgendo una mano all’amica e aiutandola a rialzarsi dal lettino in cui si era ranicchiata pochi minuti prima, singhiozzando.
 
“Prima di tutto, dobbiamo avere in pugno la situazione, e per questo è necessaria una strategia perfetta” continuò, avviandosi all’interno della villa dei suoi genitori, nel salotto.
 
“E tuttavia, prima di ideare un piano mi occorre lo spirito giusto, e oggi sono così sottotono...!” mormorò, affranta, fermandosi davanti allo schermo ultrapiatto del nuovo televisore, guardando l’amica di sottecchi, con una nota stranamente supplichevole nella voce bassa e sensuale.
 
Lucy roteò gli occhi e li fissò per un attimo sul soffitto affrescato, prima di rivolgerli nuovamente al viso speranzoso dell’amica.
 
“E va bene, ma facciamo soltanto una partita a tennis.” disse alla fine, dopo un lungo silenzio carico di aspettativa.
 
Jessica esordì in un gridolino di gioia che poco si addiceva alla sua eleganza ferina, mentre accendeva la Wii e impugnava il telecomando della console, più felice che mai.

 

                                                                                                                         * * *

 
“Jack... Jack, ti prego, smettila...” borbottò Daniel, poco convinto, mentre l’amico gli infilava le mani nella maglietta e gli sfiorava la mandibola con le labbra, ormai a cavalcioni su di lui.
 
Dopo un primo momento di silenzio, le vocine presenti nella testa di Daniel avevano ricominciato a battibeccare furiosamente, indecise se insultare Daniel, Jack o i litri di alcool che entrambi avevano in corpo; il ragazzo, sempre più confuso, decise, dopo una sfilza di baci che si stavano pericolosamente avvicinando alle sue labbra, di prendere in mano le redini della situazione e si divincolò dalla presa dell’amico, invertendo le posizioni e sbattendolo, quasi con violenza, sul materasso.
 
Aprì la bocca, con rabbia evidente, per rivolgere qualche parola aspra all’indirizzo di Jack e spingerlo a tornare in se stesso, ma si bloccò ancora prima di iniziare a parlare, stordito.
 
Il paragone che aveva fatto, pochi minuti prima, tra le labbra di Jack e quelle della sorella Jessica gli tornò alla mente con prepotenza.
 
Non aveva mai notato la bellezza dell’amico, ma in quel momento, così vicino al suo volto, si ritrovò a fissarne le labbra umide e ben disegnate; non perfette, questo certo, ma di una delicatezza insolita, per un maschio, che le rendeva quasi femminee. Al di sopra della bocca morbida, che aveva assunto un cipiglio scocciato, vi era un naso piccolo e regolare, sicuramente non avvezzo alle risse di quartiere cui Daniel aveva invece partecipato spesso, e a completare la bellezza del viso sottile gli occhi azzurri, così simili a quelli della sorella, ma con una sfumatura più scura nelle iridi che li rendeva molto più dolci.
 
L’alcool gli impastava i pensieri e li rendeva caotici, ma di una nitidezza sconosciuta che lo spaventava; pensieri che lo invitavano, ironia della sorte, a smettere di dar loro peso, per concentrarsi sul momento.
 
Carpe diem!, diceva spesso nonna Warren prima di provare il deltaplano sul Gran Canyon; carpe diem, pensò Daniel, con il presentimento che ciò che stava per fare in quel momento avrebbe portato anche lui, inevitabilmente, a farsi molto male.
 
Senza una parola, chiuse le labbra su quelle di Jack, mentre la vocina narcisista che tanto spesso lo aveva spalleggiato si rassegnava, ancora un po’ incredula, ad aggiungere “gay” nella lista dei numerosi titoli di cui si fregiava il ragazzo.

                                                                                                                                * * *

Dopo aver passato un’estenuante ora a sbracciarsi con uno stupido telecomando di plastica, Lucy era letteralmente fuggita da villa Svensson, prima che Jessica le proponesse un nuovo gioco in cui cimentarsi.
 
Varcò la soglia di casa massaggiandosi ancora le spalle indolenzite, e si chiese con angoscia se fuggendo da casa di Jessica non fosse finita dalla padella nella brace, sentendo un insolito tramestio al piano superiore; una musica gracchiante, sicuramente fuori moda, si fece strada nelle sue orecchie uscendo dalla finestra di una stanza che ebbe qualche difficoltà a identificare, mentre gli occhi affaticati dallo schermo del televisore si posavano su un mucchio di terra smossa, punteggiata qua e là da alcuni detriti.
 
Se nel corpo di Daniel si trovavano mille e più vocine che non cessavano quasi mai di parlottare tra loro, nella testa di Lucy c’erano invece due scimmie che, soprattutto durante le ore di scuola, si limitavano a spidocchiarsi pigramente, almeno fino all’arrivo del quarterback titolare della squadra di football del liceo.
 
In quel momento, però, i due primati si guardarono, colti da un improvviso lampo di genio, e smanettando con insolito fervore avvitarono una lampadina sporca nel cervello vuoto di Lucy, che di solito veniva usata solo nelle grandi occasioni; e quella, in effetti, era proprio una grande occasione per la ragazza.
 
La lampadina si accese incerta, vibrò, illuminò a scatti e poi si spense, ma Lucy aveva già capito dov’erano Daniel e Jack, ed entrando dalla finestra della cucina, attenta a non fare rumore, salì al primo piano e si infilò nella stanza dei genitori, cercando la vecchia Polaroid del padre Tony Warren, unico oggetto elettronico che l’uomo riuscisse a usare senza romperlo in mille pezzi al primo tentativo. Aprì un cassetto a caso, poi un altro, represse un gemito alla vista di un ragnetto che le si stava arrampicando, tutto contento, su un braccio, e infine scovò la vecchia macchina fotografica in cima all’armadio, impolverata ma ancora funzionante.
 
Sempre in religioso silenzio, salì le scale che portavano alla soffitta, mentre la musica si faceva più alta.
 
Accostò l’orecchio alla porta chiusa, fremendo dalla tensione, e sentì la voce del fratello, che sembrava protestare; si bloccò, temendo di essere stata scoperta, ma la voce concitata si interruppe, e poco dopo anche la canzone.
 
Lucy socchiuse la porta, con cautela, prima di strabuzzare gli occhi e chiedersi se quello che stava vedendo era davvero suo fratello che baciava Jack Svensson, o un effetto collaterale di Wii Sports.
 
“O. Mio. Dio.” silllabò, incapace di trattenersi, talmente sbalordita da dimenticarsi della Polaroid che stringeva in mano; e probabilmente sarebbe rimasta in quella posizione per altri dieci minuti se le scimmie nella sua testa, proprio in quel momento, non avessero deciso che era ora di montare una nuova lampadina -non succedeva da almeno sei mesi, ad esser precisi.
 
La luce brillò, non più fievole, nella testa di Lucy, e mentre sul suo volto si allargava un ghigno trionfante, la ragazza alzò la Polaroid sull’obiettivo scelto e ne ascoltò il click come se fosse musica.
 
Daniel e Jack si bloccarono a quel suono e si voltarono all’unisono, incrociando gli occhi di Lucy, felice come non lo era mai stata in vita sua.
 
La ragazza afferrò la fotografia e si voltò indietro, correndo forsennatamente e quasi inciampando per le scale; ringraziò il cielo quando sentì suonare il campanello, perchè nel frattempo Daniel, con un’espressione feroce sul volto e una bottiglia in mano, stava per buttarsi su di lei, seguito da un Jack decisamente meno sveglio del solito.
 
Daniel si bloccò a mezz’aria, mentre Lucy nascondeva la fotografia dietro la schiena e lasciava cadere la Polaroid per terra, nell’atrio, senza abbandonare il suo ghigno trionfante.
 
“Un passo falso e chiunque sia dietro a quella porta vedrà questa bella fotografia...State indietro” mormorò, a voce bassa.
 
“Lucy, ti giuro che stavolta finisce male.” ringhiò Daniel, ma abbassando la mano che stringeva la bottiglia, sconfitto, e indietreggiando con Jack verso il salone.
 
Certa che i due ragazzi fossero inoffensivi, almeno per il momento, Lucy aprì la porta di casa con un sorriso raggiante stampato sul volto.
 
“Ehi, ciao!”
 
Una voce maschile, che Daniel e Jack non identificarono, suonò chiara al di là della porta.
 
Lucy non rispose, mentre si portava una mano alla bocca, con aria stupefatta.
 
Daniel si sporse avanti, incuriosito.
 
Un ragazzo pallido  dai capelli color bronzo e un paio di Ray-Ban scuri sul volto lo fissò di rimando, senza smettere di sorridere.
 
“Piacere di conoscervi.” il ragazzo entrò e tese la mano prima a Lucy, che la strinse in evidente stato di trance, poi a Jack, che stava peggio di lei, e infine a Daniel, che sembrava essere rimasto l’unico, in quella casa, ancora in possesso delle sue facoltà mentali.
 
Il ragazzo con gli occhiali da sole si tolse, con evidente sollievo, la giacca grigia che aveva addosso, e Lucy l’afferrò prontamente, appoggiandola all’attaccapanni come se avesse in mano una preziosissima reliquia.
 
Daniel saettò lo sguardo dal ragazzo di identità sconosciuta alla sorella, che lo guardava sempre più adorante.
 
“Ma tu chi sei?” disse infine, guardando nuovamente il ragazzo.
 
L’altro, in tutta risposta, si tolse gli occhiali con aria disinvolta, mentre Lucy emetteva un verso inarticolato e la lampadina nella sua testa si fulminava con uno schiocco.
 
Il giovane si avvicinò a Daniel, sfoggiando un paio di iridi color miele palesemente date dall’effetto di lenti a contatto.
 
“Io sono Edward Cullen.” mormorò, mentre Lucy si inginocchiava ai suoi piedi e Jack vomitava rumorosamente in fondo alla sala.


 
   
 
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