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Autore: Miriamimiam    26/09/2011    1 recensioni
-Cosa stai facendo?-, domandai.
-Ascolta-, disse lui, ignorando la mia domanda e guardando il soffitto a occhi chiusi.
-Nate, è il bagno degli uomini e, guarda!, io non lo sono! Cosa cavolo ti salta in mente...?-.
-Ascolta, Olivia. Ascolta la canzone-, continuò lui.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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OLIVIA

Sbirciai dal pianerottolo delle scale il salotto. La tv era accesa e mio padre era stravaccato sul divano. Ai suoi piedi, una confezione di birre da sei, vuota. Ormai papà aveva una specie di orologio biologico incorporato il quale lo avvertiva quand'era ora di sprofondare in un sonno profondo alle dieci e mezzo della sera. Qualunque cosa io facessi da quell'ora fino alla mattina dopo, se nessuno glielo diceva, lui neppure ci pensava. Mia madre era andata in una clinica privata – che costava un sacco di soldi – a disintossicarsi. Aveva promesso che questa volta era “quella buona”... Sì certo. Era praticamente l'unica frase che mi diceva da sette anni a questa parte, quindi fate un po' voi.

Io, invece, sono Olivia. Ho diciassette anni e frequento il quarto anno in un liceo nella mia città, San Diego, California.

Due anni fa è morto il mio migliore amico, Miles Reed. Tutti quelli che ci conoscono, pensano che sia stata io, probabilmente a causa della reputazione della mia famiglia, anche se in quegli anni ero una ragazza responsabile e ammirata da insegnanti e compagni di scuola. Kate, la reginetta del Ballo d'Autunno era la mia migliore amica, per questo ero una delle ragazze più popolari della città ed è proprio per questo motivo che tutti vennero a conoscenza della disgrazia capitata e, di conseguenza, venni buttata giù dal piedistallo su cui mi avevano messo. Vi assicuro però che io non ho colpa della morte di Miles, dal momento che quella sera stavo ad una festa (organizzata dalla stessa Kate) a ubriacarmi, guadagnandomi una punizione esemplare dai miei. Fortunatamente, la madre e la sorella maggiore di Miles, Anna e Cassie, mi credono e si prendono cura di me più di quanto facciano i miei genitori. Devo loro molto: mi comprano i libri per la scuola e quello di cui ho stretto bisogno e che non riesco a comprare con i soldi che guadagno lavorando in un negozio di vestiti femminili. Se non avessi trovato questo lavoro sarei morta di fame, perché mio padre non aveva proprio la minima preoccupazione nei miei confronti, si ricordava che esistevo solo quando doveva sfogare la sua rabbia su qualcuno o qualcosa e io fatalità ero nei paraggi, allora mi chiudevo in camera e speravo che non buttasse giù la porta chiusa a chiave. Due volte dovetti anche uscire dalla finestra e correre subito a casa di Miles.

Comunque, quella sera dovevo andare ad una festa, non perché volessi, ma per far un favore alla mia amica Willow, l'unica che mi era rimasta. Lei era stata invitata dai “nobili” di San Diego – ovvero ragazzi e ragazze con la puzza sotto il naso dei quali una volta facevo parte – e lei mi aveva chiesto di accompagnarla per non farla sentire sola. Proprio per questo motivo stavo sgattaiolando fuori di casa il più silenziosamente possibile. Quell'ubriacone di mio padre non sapeva dei miei piani per la serata, ma ne avevo informata la Signora Reed, la mamma di Miles.

Una volta fuori casa salii sulla mia auto, o meglio, quella di mia mamma che però lei al momento non poteva usare, ovvero una Jeep Cherokee, e partii alla volta della casa di Willow. Quando arrivai, la trovai ad attendermi seduta sul piccolo dondolo nel portico. Appena mi vide si alzò. Indossava un vestitino elegante in lana leggera, calze e un paio di stivaletti tacco dodici. Spensi il motore, scesi e le andai incontro. Mi abbracciò, poi, quando ci staccammo, mi squadrò dalla testa ai piedi.
-Che cosa cavolo ti sei messa addosso ? Dobbiamo andare a una festa, non a fare la spesa-, disse contrariata.
Abbassai lo sguardo al mio corpo e sorrisi. Avevo una felpa leggera bianca, un paio di jeans a sigaretta blu scuro, Converse rosse e una giacca in finta pelle nera.
-Che c'è? Non va?-, chiesi sarcastica.
-Non va per niente! Io vorrei almeno entrarci alla festa, prima che tu ne faccia una delle tue, ma se mi presento con te vestita così, ci buttano fuori a calci nel sedere!-.
-Will, è dicembre e ultimamente fa davvero freddo. Non voglio congelarmi il culo mettendomi in tiro per andare a una festa di ragazzini viziati-, ribattei.
-Ma io voglio...-, sussurrò Willow.
-Cosa vuoi? Cosa ti aspetti da loro? Io li conosco Will, ero come loro una volta, lo sai. Sono degli idioti. Gl'importa solo dei soldi, delle cose firmate e di loro stessi-.
Ci fu un momento di silenzio, mentre ci guardavamo negli occhi, poi Willow abbassò lo sguardo. -In realtà ci sarà anche Alec e avevamo deciso di vederci lì, ma se i miei l'avessero saputo non mi avrebbero mai dato il permesso di andare-.
L'abbracciai e sorrisi. -Perché non l'hai detto subito, Will? Sali in macchina che andiamo-.

 

La musica della festa si sentiva sin dall'inizio del quartiere e ci guidò fino alla casa di Kate, l'organizzatrice, i cui genitori separati le permettevano qualsiasi cosa per non essere divorati dal rimorso dell'averle rovinato l'infanzia con i loro problemi coniugali. A lei non importava nulla di quello che provavano sua mamma e suo papà, le bastavano tutte le comodità che il divorzio le dava.
Non trovai parcheggio, così posteggia in seconda fila, a due auto dall'ingresso. Ci avviammo verso la casa e non appena aprimmo la porta, ci trovammo davanti una delle seguaci cheerleader di Kate, con un vaso in mano pieno di soldi. -L'entrata costa venti dollari-, gracchiò.
La guardai con disprezzo. -E a che cosa servono i soldi a Kate?-, le chiesi.
-Servono a noi cheerleader per comprare le nuove uniformi, quelle che lasciano la pancia scoperta e hanno la gonna ancora più corta-.
-Ma non sembrate già abbastanza delle “accompagnatrici”?-, ribattei.
La ragazza arrossì di colpo. -Sentite, voi due. O pagate ed entrate senza offendere, o ve ne andate-.
-Olivia, ti prego. Non vedo Alec da venerdì a scuola-, mi sussurrò Will ad un orecchio.
-Okay, okay-, dissi, mettendo la mano nella tasca della giacca per poi tirarla fuori e infilarla velocemente nel vaso. La ragazza, Clair mi pareva si chiamasse, si fece da parte soddisfatta lasciandoci passare.
-Quanto le hai dato?-, mi domandò Willow quando entrammo nel salone.
La casa era a due piani. Al piano terra aveva un'entrata, dalla quale si aprivano due porte, una a sinistra che portava alla cucina e all'uscita sul retro e quindi al giardino, l'altra a destra conduceva ad un disimpegno che si apriva sul salone. Nell'entrata, opposte alla porta da cui eravamo appena entrate, c'erano le scale che portavano al primo piano, dove si estendevano due corridoi, entrambi con tre camere da letto e un bagno. Conoscevo così bene quella disposizione delle stanze perché da piccola quella era stata la mia seconda casa.
-Olivia? Mi ascolti?-. Guardai la mia amica. -Ho messo dentro un accendino finito-.
-Cosa?-, chiese lei spalancando gli occhi.
Sentimmo due braccia che ci circondarono le spalle, e, girandoci, vedemmo il viso di Alec. -Olivia, sei sempre la solita-, disse ridendo.
Stavo per rispondergli con un “Ciao Alec”, ma fu impossibile perché il gridolino che cacciò Will mentre gli buttava le braccia la collo mi assordò l'orecchio destro.
Li lasciai da soli, per quanto lo potessero essere ad una festa, e iniziai a girovagare per la casa. Feci una sosta in cucina per prendere qualcosa da bere, poi salii al piano di sopra ed entrai nella stanza per gli ospiti, aprii la porta a vetri e uscii sul balcone che dava sul giardino posteriore della casa. Restai lì tutta la notte, variando le mie attività: giocare con gli stupidi giochini che mi trovavo nel cellulare, bere la mia Coca-Cola, guardare la gente che beveva, ballava, mangiava, rideva...
Ero stanca. Tirai fuori il telefono dalla tasca dei jeans e guardai l'ora. Le tre e mezza. Willow si era divertita abbastanza. Rientrai in casa per andarla a chiamare. Uscendo dalla stanza, mi voltai verso la porta per chiuderla e quando mi girai al corridoio andai a sbattere addosso a qualcuno. Feci qualche passo indietro tenendomi la testa con una mano, poi alzai lo sguardo al volto del ragazzo con il quale mi ero scontrata e rimasi a bocca aperta.
-Ehi, ciao Olivia-, mi salutò.
-Ciao Nate-, risposi. -Come è andato il viaggio in Europa?-.
-Bene, grazie. Tu, invece? Come hai passato gli ultimi tempi?-.
-Non hai saputo i pettegolezzi?-.
-Sai che non mi interesso di quelle cose-. Sorrise.
-Beh, diciamo che nessuno mi considera più degna di coprire il ruolo di reginetta del ballo scolastico-.
Mi guardò con aria interrogativa. Nate era il fratello maggiore di Kate, nonché mio ex-ragazzo. Aveva finito la scuola due anni fa e aveva intrapreso un viaggio per l'Europa, per questo non sapeva niente di Miles e di tutto il resto. E io di certo non avevo tempo di spiegarglielo in quel momento.
-Senti, Nate, devo andare a casa. Ha visto Willow?-, gli chiesi.
-Se ne è andata con Alec con la macchina di tua madre. A proposito, lei come sta?-.
-Cavolo!-, esclamai e, cercando di scansarlo, gli passai accanto nello stretto corridoio. Lui però mi fermò prendendomi per una spalla.
-Stai tranquilla Olivia. Erano entrambi sobri. Will voleva tornare a casa e l'auto di Alec era bloccata dalla tua, così ha preso quella e ha detto che te la lasciava davanti casa e la sua l'avrebbe
portata a casa il tizio con cui è venuto-. Alec abitava nella mia stessa via.

.Certo, e io come torno a casa?-, chiesi in tono di sfida.
Nate ci pensò un attimo. -Ti accompagno io, così magari mi spieghi anche cosa mi sono perso in questi anni-.
Lo guardai un attimo. -Non penso sia una buona idea-, dissi e feci per andarmene, am la sua presa su di me si risaldò. -Olivia, per favore. Ho davvero voglia di andare con te in quel café aperto ventiquattrore su ventiquattro, quello che fa il caffè amaro da morire, quello in cui siamo finiti al nostro primo appuntamento perché non sapevamo dove andare-. Mi guardò intensamente, con quegli occhi verde menta che mi facevano impazzire ogni volta.
Non riuscii a resistere. -Okay, ci sto. Ma prima ti devi cambiare perché così siamo ridicoli-. Indicai il mio abbigliamento e il suo, che era la versione maschile del mio.
Si guardò e sorrise. -Torno subito-.

Nate aveva una di quelle classiche automobili da figli di ricconi, ovvero una Volvo C30. Salimmo in auto e, in silenzio, lui guidò fino all'altra parte della città. Il café si chiamava Caliente ed era diretto da una coppia di marito e moglie messicani. All'interno si trovavano sì e no dieci tavoli, con delle panche in in legno con schienale che li circondavano. Sedemmo uno di fronte all'altra.-Allora, vuoi fare colazione?-, mi chiese Nate. Guardai l'orologio attaccato al muro sopra il bancone.Erano le quattro e un quarto. Pensandoci, sarebbe stata una buone idea. Sicuramente a casa non avrei trovato niente nel frigo, la mattina seguente, o meglio, lo stesso giorno ma di alcune ore più tardi. Sbirciai il menù e, notando che era rimasto identico a come lo ricordavo dall'ultima volta che ero stata lì, sapevo già cosa ordinare. Venne a prendere le nostre ordinazioni una donna alta circa un metro e cinquantacinque, sui quarant'anni d'età. -Cosa vi porto?-, chiese fissando il bloc-notes che teneva fra le mani.
-Per me un frappè alla fragola-, dissi.
-Io prendo solo un caffè, grazie-, fece invece Nate.
La cameriera scrisse le ordinazioni e se ne andò.
-Fai colazione con un frappè?-, mi domandò, appena se ne fu andata, Nate.
-Be', senti chi parla! Qui il caffè fa schifo-, ribattei.
-Qui tutto fa schifo-, sorrise.
-Ma tutto è sicuramente meglio del caffè! E perché sei voluto venire qui, sapendo che ci sono posti molto migliori?-.
Mi guardò di sottecchi. -Perché è qui che ci siamo baciati la prima volta e perché ogni volta che volevamo uscire senza sapere dove andare, venivamo qui-, rispose. Rimasi in silenzio, mentre Nate mi guardava, finché non arrivò la cameriera con il frappè ed il caffè. Presi la cannuccia e la infilai nel bicchiere, incrociai le gambe sulla panca, sotto al tavolo.
E Nate continuava a guardarmi. -Che c'è?-, gli domandai.
Lui sorrise. -Adesso puoi raccontarmi tutto quello che è successo mentre ero via-. Sorseggiò il suo caffè e fece una smorfia. Nascosi un sorriso portandomi la cannuccia alla bocca e bevendo un po'.
Da sopra il bicchiere lo guardai: dai capelli corti, neri e spettinati, gli occhi verdi con ciglia lunghe, la bocca morbida, la camicia blu che si era messo. -Olivia? Mi rispondi? Cos'è successo?-.

Esitai un attimo. -Uff, va bene. In poche parole, mio papà è diventato un ubriacone, mia madre è in un centro per disintossicarsi, di nuovo. Miles è morto e tutti pensano che sia stata io, tranne la sua mamma e sua sorella, che sono diventate la mia seconda famiglia, Willow e di conseguenza anche Alec perché sta con lei. E il problema è che io ho un alibi di ferro e tutti a scuola lo sanno. Io ero ad una festa, ubriaca insieme a Kate, cercando di dimenticare che TU mi avevi mollata, ma nessuno lo vuole ammettere, e così sono uno scalino più bassa dei contenitori della spazzatura, nella scala sociale della scuola-.
Lui restò un momento immobile, poi sembrò risvegliarsi. -Olivia, cavolo! Scusami, scusa davvero, mi dispiace-.
-Perché dovresti scusarti? Sei solo partito per l'Europa nel momento in cui avevo più bisogno di te-, borbottai in tono ironico.
Appoggiò la sua mano sopra la mia, sul tavolo, e fece per stringerla, ma io la ritrassi. Allora lui mi guardò con sguardo addolorato. -Io non volevo lasciarti-.
-Sì, certo. Come non crederti-, risposi, usando lo stesso tono ironico di prima.
-Olivia...-.
-Senti, Nate, risparmiati le scuse. Mi hai lasciata, ci sono stata male, ma...-.
-Olivia, ascoltami! Io non ti ho lasciata perché non ti amavo più. Io avevo paura; paura che, mentre io fossi stato distante, tu avresti cambiato idea e ti saresti stufata di me. Ho preferito lasciarti andare, che tenerti e preoccuparmi di farti soffrire. Durante il mio viaggio pensavo di continuo a te-. Ci guardammo in silenzio per un po', poi sussurrai a testa bassa: -E' tardi, dovrei tornare a casa-.
-Okay vai pure in parcheggio, fintanto che pago-.

Erano quasi a metà strada, quando si sentii un bip risuonare nell'auto. -Devo fermarmi a fare benzina, scusa-, disse Nate guardando il cruscotto.
Al distributore, dopo aver fatto il pieno, Nate parcheggiò l'auto vicino ai bagni esterni dell'autogrill. -Che stai facendo?-, chiesi.
Mi guardò. -Devo andare al bagno-. E così rimasi sola. Dopo poco scesi e richiusi la portiera rumorosamente dietro di me. Presi il pacchetto di sigarette che avevo in tasca, ne accesi una, e rimisi tutto nella giacca. Quando arrivai a tre-quarti di sigaretta, vidi Nate correre verso di me. Mi prese la mano libera. -Vieni con me-. Mentre mi trascinava verso il bagno degli uomini, persi la presa sulla sigaretta. Borbottai un'imprecazione. Entrammo e Nate chiuse la porta bloccandola col cestino.
-Cosa stai facendo?-, domandai.
-Ascolta-, disse lui, ignorando la mia domanda e guardando il soffitto a occhi chiusi.
-Nate, è il bagno degli uomini e, guarda!, io non lo sono! Cosa cavolo ti salta in mente...?-.
-Ascolta, Olivia. Ascolta la canzone-, continuò lui. Dato che era appoggiato alla porta e non vedevo in che modo potessi uscire, mi rassegnai a fare come diceva. Mi accorsi che la musica che usciva dalla piccola cassa nell'angolo sopra la porta, mi era molto famigliare. Era una ninna nanna italiana che mi cantava mia madre quando ero piccola e che io poi avevo insegnato a Nate. Fece due passi avanti, avvicinandosi a me tanto che le punte delle nostre scarpe si toccavano. Mi prese le mani e se le portò dietro al collo, poi posò le sue sui miei fianchi. Cominciammo a ondeggiare sulle note di quella musica. Poi Nate mi sussurrò all'orecchio: -E' la nostra canzone-.
Mi bloccai. Spostai le mani sul suo petto e lo spinsi un poco per allontanarlo da me. Mi guardò confuso e un po' deluso. -Che c'è?-, domandò.
Scossi la testa. -Nate, era la nostra canzone. Era-.
Quando tornammo in parcheggio, lui aveva già ritrovato il buon umore. Appena salimmo in macchina, accese la radio. -Oddio, no. Spegni questa lagna, ti prego-.
Mi guardò alzando un sopracciglio. -Ma non ti piaceva una volta?-.
-Beh, prima di tutto i miei gusti in fatti di musica sono un po' cambiati, e secondo sedicenni piene di soldi che se la tirano come Miley Cyrus non le ho mai sopportate-. Ci fu un attimo di silenzio, poi Nate fece: -A proposito di cambiamenti... Perché hai iniziato a fumare?-. Sembrava avesse un tono d'accusa. Ma non mi avrebbe fatta sentire in colpa. Lo guardai. -In certi momenti, quando stai male, hai solo bisogno di qualcosa che, anche se per poco, non ti faccia pensare a niente e, sai , la droga e l'alcool a casa mia erano già stati prenotati-.
-Scusa-, mormorò a testa bassa.
Per tutto il viaggio di ritorno mi raccontò un po' di quello che gli era successo in Europa e ridemmo quando ci raccontammo a vicenda di tutti i malanni e i disastri che facevamo da piccoli.
Quando arrivammo davanti a casa mia, parcheggiò nel vialetto e spense il motore e i fari. Tra le risate chiesi: -Ehi, ti ricordi di quella volta che facemmo finta di sposarci? Assurdo!-.
-Già! Noi eravamo convintissimi di essere marito e moglie e i nostri genitori le provarono tutte per dissuaderci da quella idea, persino dire che i avevo tre anni in più rispetto a te e per questo ero troppo grande!-.
-E allora io dissi che anche i tuoi avevano tre anni di differenza l'uno dall'altra e non seppero rispondere...-. Ridemmo, poi continuai: -Kate piangeva perché anche lei voleva sposarsi, e allora tu la consolasti dicendole che poteva assere la mia damigella d'onore-.
-Sì! Poi però tu mangiasti l'anello di liquirizia che faceva da fede e io chiesi il divorzio!-.
Mi guardò e io lo feci di rimando. -Era buono, però-, sussurrai. Nate sorrise. Pian piano, mi accarezzò la guancia destra con la punta delle dita, poi ve l'appoggiò. Si avvicinò a me, le nostre labbra quasi a contatto. Il tempo sembrò fermarsi.
Sospirai. -Non lo fare Nathan-. Ero così vicina al suo viso che vidi con estrema chiarezza la sua espressione farsi sofferente. Si allontanò lentamente, continuando però a guardarmi.
-Olivia... Io ti...-, cominciò, ma io lo interruppi. -Non osare neppure a provare a dire quell'ultima parola-.
Mi guardò serio. -Perché?-.
Aprii la portiera. -Perché ho già sofferto abbastanza-. E scesi. Appena chiusi la porta di casa, vidi i fari accendersi attraverso la finestra e sentii l'auto avviarsi e allontanarsi. Io non provavo più niente per Nate, vero? Vero. Dovevo convincermene.
Salii in camera mia, mi cambiai e mi stesi sotto le coperte. Udii il russare di mio padre dall'altra parte del muro. Almeno questa volta ce l'aveva fatta ad arrivare al letto da solo.

Il giorno dopo non ero certo di buon umore. Avevo trovato la Jeep a tre case dalla mia e con uno striscio sul parafango. I miei non sapevano che la usavo, per loro andavo in giro in bicicletta! Arrivai a scuola giusto in tempo per non essere considerata in ritardo e presi posto in classe. Storia alla prima ora, seguita da francese e inglese. Durante l'intervallo andai all'armadietto di Willow; lì dovevo trovarla per forza. La vidi arrivare insieme ad Alec, che le circondava le spalle.
-Tu-, dissi al ragazzo puntandogli un dito al petto, -potresti stare più attento quando guidi le macchine dei genitori delle amiche della tua ragazza!-, e gli diedi uno spintone. Sorpreso, Alec fece qualche passo indietro.
-Olivia, ma cos ti prende?-, mi chiese Will prendendo Alec per mano.
-Questo qui mi ha strisciato la macchina!-, esclamai guardandoli.
-Cavolo, era un graffietto. Non ha mai ucciso nessuno un graffietto-.
Strinsi le mani a pugno e gli camminai incontro. -Ti faccio vedere io quanto può fare male un graffietto-. Feci per tirargli un pugno.
-Che sta succedendo qui?-. La voce della preside. Ci girammo verso di lei.
-Niente signora preside-, disse Alec guardandomi.
La preside ci fissò per un lungo momento in silenzio. -Sarà meglio che torniate in classe-.
Annuimmo e ci avviammo alle aule. Io avevo matematica... Con Kate. Lei era seduta su un lato della cattedra. -Ciao sfigata-, disse quando entrai.
-Cavolo Kate. Come mai oggi mi saluti?-, chiesi ironica. Fece un gesto come a cancellare il discorso. Scese dalla cattedra e se ne andò sculettando al suo banco, davanti al mio.

Finita la scuola, fuori nel parcheggio, accanto alla macchina di Alec, aspettavo il suo arrivo per chiedergli scusa. Quando mi vide mi sorrise. -Non serve che mi fai le tue scuse. So perché oggi sei un po' fuori di testa. Kate ha raccontato a tutta la scuola che ieri sera ti ha vista andare via con Nate-.
Rimasi a bocca aperta. -Ah, okay. Be', scusa comunque. Non dovevo prendermela con te-.
-Non importa Ollie-. Mi lanciò un'occhiata. -Invece com'è andata?-.
Lo guardai. -Scusa Al, ma devo andare al lavoro e sono già in ritardo. Facciamo un'altra volta?-.
Alec rise. -Non vuoi parlarne, ricevuto. Ci vediamo Ollie-. Salì in auto e se ne andò.

 

Andai al negozio dove lavoravo. Parcheggiai sul retro ed entrai da lì. Accesi le luci e guardai l'orologio: tra dieci minuti avrei dovuto aprire. Quel giorno sarei stata sola fino alle sei e mezzo, poi sarebbe arrivata Eizel, la vicecapo, per fare l'inventario.
Iniziai ad aprire gli ultimi scatoloni che avevano portato a inizio settimana e cominciai a sistemarne il contenuto sui vari appendini. Dopo poco andai ad aprire e ritornai al mio lavoro. Quasi subito sentii i campanellini della porta tintinnare, segno che era arrivato un nuovo cliente, e mi girai dicendo un felice Buongiorno, poi vedendo l'uomo che avevo davanti, ritornai seria.
-Ehi, Olivia!-, disse Nate alzando una mano a mo' di saluto.
-Ciao Nathan-, risposi io con tono freddo. -Sai che qui vendiamo solo vestiti femminili, vero?-.
-Certo! Ero solo passato per farti un saluto-, sorrise.
-Okay, ciao. Ora devo lavorare-. E mi rigirai dandogli le spalle.
Silenzio. Poi sentii un rumore di passi e me lo trovai accanto. -Vuoi una mano?-.
-No, è il mio lavoro e non mi serve il tuo aiuto-.
-Senti, Olivia. Io in realtà sono venuto qui per chiederti una cosa-.
Mi bloccai e rimasi a fissarmi le mani, ascoltandolo.
-Ecco... Volevo chiederti se magari ti... andava di riprovarci. Io e te-.
Alzai la testa e lo guardai. -Ma sei scemo o cosa?-.
-Cos'ho detto?-, chiese confuso.
-Ti ho già detto che è finita. L'hai fatta finire tu!-, lasciai cadere le maglie sul bancone e mi avviai al magazzino del negozio. Nate mi seguì.
-E io ti ho già detto che non l'ho fatto perché lo volevo. Sono stato costretto!-.
Mi girai di colpo a fronteggiarlo. -Ah sì? E da chi è che sei stato costretto?-.
-Da nessuno! Ti ho spiegato il motivo! Avevo paura che stando lontano così tanto tempo tu ti saresti stancata e avresti avuto dei... bisogni che...-.
-Ma sei idiota?!-, chiesi interrompendolo. Il suo sguardo si fece ancora più confuso.
-No, perché...?-.
-Secondo me sì. Hai pensato sul serio questo prima di lasciarmi? E' per questo? Per dei... “bisogni”?-. Ero incredula.
-Be', sì-, rispose timoroso. Poi si erse in tutta la sua altezza e disse: -Io ti amavo, e avevo davvero paura di quello che avrebbe potuto accadere mentre fossi stato via-.
-Anche io ti amavo! E non ti avrei mai fatto cose del genere! Pensavo lo sapessi, pensavo che mi conoscessi...-.
-Ma, Olivia... Io ti amo-.
-Ti avevo già chiesto di non dire quella frase-.
-Ollie, io ho sempre continuato ad amarti, sempre. E tu? Tu provi ancora qualcosa per me?-.
Rimasi in silenzio a guardarlo. -Olivia?-, cercò di incoraggiarmi.
-Forse è meglio se rimaniamo amici-, dissi in fine.
-Non hai risposto alla mia domanda. Mi ami?-.
-No-.
Il tempo sembrò fermarsi. Non volevo dire no, volevo dire sì!, mille volte sì! Ma era troppo tardi. Nate si girò e se ne andò.Mi asciugai frettolosamente una lacrima prima di tornare al lavoro.

   
 
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