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Autore: Hotaru_Tomoe    11/06/2006    4 recensioni
Breve one shot incentrata sui pensieri di Hakkai.
E' ambientata durante la saga di Kamisama, quando Gojyo lascia il gruppo e gli altri tre decidono di tornare indietro a riprenderlo.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Cho Hakkai
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Disclaimers: Saiyuki e i suoi personaggi appartengono tutti a Minekura-sensei.
One shot scritta di getto in un pomeriggio e totalmente ispirata da una sola immagine del manga del Gensomaden: quando Hakkai fissa la lattina di birra che Gojyo ha usato come posacenere.



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GOMENNE

A bordo della jeep regnava il silenzio. Ma – notò Hakkai – non era più quel silenzio teso e nervoso del giorno prima, quando Sanzo, senza mezzi termini, aveva detto che il viaggio verso Ovest proseguiva, con o senza quello stupido kappa.
Ma l’atmosfera era troppo strana, la decisione era troppo sbagliata. Avevano urlato, avevano litigato, avevano sfogato la rabbia su un gruppo di demoni che, attaccandoli, avevano avuto la peggior idea della loro vita, nonché l’ultima.
Poi erano tornati indietro a recuperare lo stupido kappa e a fargli passare un brutto quarto d’ora per quella perdita di tempo. Così, trovato un capro espiatorio, il clima fra loro tre era tornato più disteso.
Già, colpa sua quella assurda situazione.
Colpa sua se ora Hakkai si sentiva un vigliacco.
Perché il modo in cui Kamisama aveva usato e poi gettato via Kinkaku e Ginkaku, come se fossero spazzatura, faceva ribollire il sangue nelle vene. Era un gesto abominevole che gridava vendetta. E Gojyo era andato a vendicarli. Mentre lui e Goku non avevano fiatato di fronte alla decisione di Sanzo, di riprendere il viaggio come se nulla fosse successo, Gojyo semplicemente aveva fatto ciò che doveva essere fatto.
Hakkai era sicuro che buona parte dell’incazzatura di Sanzo era dovuta al fatto che, con quel gesto plateale, era come se Gojyo li avesse apostrofati: “Codardi.” E Sanzo avrebbe ridotto Kamisama peggio di un colabrodo, giusto per far vedere al kappa che si sbagliava di grosso. Era principalmente per questo che Sanzo tornava indietro.
“Ma da parte tua c’è di più. Vero, Cho Hakkai?”
Negarlo sarebbe stato da ipocriti.
Quella mattina, quando era entrato in camera di Gojyo e aveva visto il letto intatto e una lattina di birra vuota usata come posacenere, aveva compreso al volo. Un’amarezza sconfinata aveva invaso il suo animo e da allora si sentiva uno schifo.
Perché lui lo sapeva.
L’aveva sempre saputo, fin dal momento in cui Kinkaku era stato trafitto dal rosario davanti ai loro occhi. “Ecco, ora Gojyo non avrà pace finchè non avrà fatto a pezzi questo bastardo con le sue mani. Chiunque egli sia.” questo aveva pensato.
Lo sapeva benissimo che Gojyo non avrebbe mai lasciato correre, perché negli occhi tristi di quel piccolo demone aveva rivisto se stesso bambino.
Il cuore di Hakkai mancò un battito, quando nella sua mente si dipinse chiaro il ricordo di Gojyo che delicatamente chiudeva per sempre gli occhi di Kinkaku e poi si rivolgeva a Kamisama:
“Che diavolo hai da ridere, bastardo? Con che coraggio ti sei servito di due bambini innocenti e abbandonati, trasformandoli in assassini?” Hakkai aveva percepito una rabbia cieca fremere nella sua voce, apparentemente pacata e lo sdegno illuminare i suoi bellissimi occhi scarlatti.
Mai avrebbe scordato quella immagine. Era così simile al modo in cui lui stesso aveva guardato gli abitanti del suo villaggio, che avevano consegnato Kanan ai demoni.
Eppure, lui non aveva fatto niente. Poche ore dopo Sanzo, dimostrando tatto a vagonate, glielo aveva rinfacciato apertamente:
“Sei furioso perché avevi capito che se ne sarebbe andato, eppure non hai alzato un dito per fermarlo.”
Come si dice in questi casi: touchè.
Punto sul vivo.
Sanzo aveva ragione.
E poi Gojyo glielo aveva praticamente detto. Quella sera, subito dopo cena, mentre Sanzo era intento a picchiare Goku con l’harisen ed entrambi facevano troppo baccano per sentire, Gojyo gli aveva mormorato:
“Gomenne.”
L’aveva detto solo a lui, il suo migliore amico.
E gli aveva lasciato in bella vista le cicche spente nella lattina vuota.
I posacenere li hanno inventati apposta per questo uso, sai Gojyo?
Gojyo lo sapeva benissimo, certo, ma continuava a fare come gli pareva. Ecco il significato di quella parola e di quell’oggetto:
“Mi dispiace. So che la cosa ti irrita, ma io sono fatto così. Questo sono io e non ho intenzione di cambiare. Mi dispiace.”
Dannato kappa più cocciuto di un mulo.
Ma non era solo quello: Gojyo non era uno stupido, almeno non al punto da non essersi accorto di quanto fosse pericoloso quel Kamisama. Della sua aura pericolosa, dello sguardo folle. Dell’atmosfera che lo circondava.
Semplicemente letale.
E come era accaduto con Banri, tre anni prima, non aveva voluto coinvolgerlo in un suo problema personale, che questa volta avrebbe potuto avere esito mortale.
“Mi dispiace.”

Hakkai strinse con forza il volante, fino a provocare un pigolio di protesta di Hakuryu.

Stupido Kappa.
Anche a me dispiace. Mi dispiace di non aver detto nulla.
Ho taciuto, perché era più comodo, perché ero stanco e non mi andava di fare da paciere nella discussione che ne sarebbe seguita tra te e Sanzo, perché una volta tanto proseguire verso Ovest era la strada più facile.
Mi dispiace di averti lasciato andare da solo. Anche se è stata una tua scelta, non è una giustificazione.
Perché tu sei quello che mi ha salvato la vita. Non mi conoscevi, non avevi nessun obbligo verso di me, eppure l’hai fatto.
Perché quando ti ho raccontato del legame che mi univa a Kanan, non mi hai giudicato.
Perché, anche se non lo dai a vedere, ti preoccupi sempre per gli altri.
Perchè sei il mio migliore amico. E gli amici non si lasciano mai soli.
Perciò aspettami.
Non morire finchè non arrivo.
Voglio rimproverarti ancora una volta per essere stato tanto pigro da non aver cercato un posacenere.
Voglio tirare un pugno su quella tua scarlatta testa calda.
E voglio essere io a dirti

“Gomenne.”



FINE

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Allora, che ne pensate? Brutta, bella? E’ la prima fic “introspettiva” con cui mi cimento.
   
 
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