Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel
Ricorda la storia  |      
Autore: Ewi    04/10/2011    5 recensioni
Beh, che dire... è la prima storia che posto e spero che piaccia a qualcuno. Ho scritto questa storia per una challenge in cui la prolachiave era occhi e questo è quello che è venuto fuori.
Ho scritto sul rapporto di complicità che esiste tra due fratelli, qualcosa che può superare tutto anche un problema fisico.
Baci
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

WHAT’S THE COLOR OF HER EYES?


Tom si trovava alla guida della sua macchina nuova, la odiava.
Gli sembrava una specie di carro funebre più altro e spazioso, sua moglie l’aveva obbligato a comprarla; guardando la sua Audi diceva che le sarebbe servita una macchina più grande in cui caricare la spesa e le tende da campeggio.
Tom non l’avrebbe mai portata in campeggio e lei lo sapeva bene, solo, le piaceva sperare.
Era entrata nella vita di Tom così, come un fulmine a ciel sereno, non se lo aspettava nessuno che un giorno Tom Kaulitz si sarebbe sposato. Quando glielo aveva detto non ci aveva creduto nemmeno sua madre.
Era un ragazzo talmente strano, chiuso da sembrare a volte quasi disinteressato a tutto ciò che gli succedesse. Ma non era così.
Non si sentiva superiore agli altri ma non faceva nulla che potesse far pensare il contrario. Se doveva portare a termine un lavoro lo faceva senza l’aiuto di niente e nessuno, se doveva andare a cenare con sua madre preferiva far parlare lei allo sfinimento piuttosto di raccontarle come stesse sua moglie o come proseguisse la sua carriera lavorativa.
Tuttavia, potevi vederlo sorridere a volte in particolari momenti in cui stranamente si sentiva felice.
Tom sorrise mordendosi piano un labbro e portando una mano alla tempia per sostenersi il capo, sarebbe arrivato in ritardo, e lui odiava arrivare in ritardo agli appuntamenti.
Sbuffò e guardò ancora l’orologio. Bill lo stava aspettando e lui era fermo ad un incrocio da quanto? Dieci minuti?
Sperava che non si preoccupasse troppo del suo ritardo, conosceva suo fratello gli avrebbe fatto la ramanzina non appena fosse arrivato. Adorava vedere come esclusivamente con lui suo fratello fosse aperto e pieno di vita, come potesse alzare la voce senza paura di essere preso in giro o maltrattato, ma non per questo Tom lo lasciava fare. Ogni mercoledì pomeriggio era un momento di sfogo, per entrambi, se si può dire che per Tom farsi urlare contro dal fratello fosse un modo per sfogarsi.
Si sentiva utile in quei momenti, lui che aveva sempre proibito sua madre di privare Bill della ricerca della propria autonomia sottolineando che anche lei un giorno sarebbe stata destinata a morire e il suo fratellino a vivere da solo. Ci soffriva, quando i dottori gli dicevano: “Tom non lo stai aiutando!”, e gli impedivano di andare a soccorrerlo nei momenti di difficoltà che Bill si trovava a dover sopportare anche nel semplice uscire di casa.
Finalmente l’ingorgo si sfaldò e Tom poté continuare per la sua strada, percorse un viale alberato e aprendo il finestrino dalla parte del guidatore appoggiò il braccio fuori sentendo sulla pelle il tepore del sole estivo.
Adorava il luogo dove Bill aveva voluto costruire la sua casa era tranquillo e vitale. Ricordava bene quando avevano arredato il piccolo appartamento e come il fratello ne fosse entusiasta. Rammentava come avessero deciso di mettere il piano cottura ben vicino al lavello, di aver scelto la lavatrice con le scritte in Braille.
Arrivò alla casetta al piano terra con un giardinetto non curato che suo fratello aveva tanto voluto per prendere il sole ma che mai aveva usato, parcheggiò la macchina nel posto riservato a Bill e scese chiudendo di fretta lo sportello.
Sperando che lo sentisse bussò alla porta. Il campanello non funzionava, il moro gli aveva ordinato di staccarlo dopo aver aperto ad un paio di testimoni di Geova che volevano convertirlo.


Bill se ne stava seduto sulla sua poltrona che, secondo i suoi calcoli, avrebbe dovuto trovarsi al centro del soggiorno. Allungò la mano verso la radiosveglia che si trovava sopra un tavolino di legno e schiacciò il terzo pulsante da destra, “quindici e trenta.” disse l’orologio parlante. Glielo aveva regalato sua madre e lui lo trovava fantastico, un orologio che gli dicesse l’ora senza bisogno che si servisse delle lancette di quello che gli aveva regalato Tom. E comunque, suo fratello era di nuovo fottutamente in ritardo.
Sentì bussare. Finalmente.
Si alzò, arrancò fino al muro e camminò veloce fino alla porta trascinando il palmo sulla carta da parati. Afferrò la maniglia sentendone la sua freddezza sulla pelle e prima di aprire gridò: “Chi è?”
“Il lattaio.” sorrise Tom dall’altra parte della porta aspettandosi un insulto.
“Tom, sei un idiota.” sbuffò l’altro aprendo la porta e allungando una mano verso di lui.
Bill gli mise una mano sulla spalla e salì verso la guancia sentendo la barba ruvida sulla pelle.
“Tomi!” gli saltò addosso felice “Perché sei così in ritardo?”
“Ho trovato traffico.” rispose lui.
Bill avrebbe riconosciuto la sua voce anche tra quella di un milione di altre persone, quell’accento e quel tono dolce e profondo che aveva. Suo fratello era quello per lui, la voce che lo rassicurava quando pensava che tutto fosse finito, che gli sussurrava nell‘orecchio che lui non era diverso dagli altri sebbene anche Bill se ne rendesse benissimo conto.
“Tom, di che colore sono vestito oggi?” gli chiese indicando la sua maglietta.
“Hai una maglia bianca e un paio di jeans scuri Bill, tutto qui!”
“Grazie.”
“Di nulla.”
Quando suo fratello era nato Tom aveva già tre anni, era entusiasta di avere un fratellino con cui giocare e soprattutto qualcosa da maltrattare che non fosse il loro gatto. Non faceva altro che chiedere a loro madre quanto avrebbe dovuto aspettare ancora e un giorno nacque, così senza avvisare. Erano dalla nonna e dovettero correre via, tutti in ospedale ad aspettare Bill.

Entrarono in casa, Tom accese le luci e andò ad aprire le finestre facendo entrare un po’di luce in quelle stanze in cui regnava sempre l’oscurità. Con la luce il rasta riuscì a vedere il disordine che Bill lasciava in ogni dove passasse.
“Bill, che casino c’è qui dentro? Perché non sistemi?” sbuffò Tom dandogli una pacca sulla spalla facendogli perdere l’equilibrio.
“Sai, non ci vedo! Come potrei mettere in ordine!?” lo rimproverò seccato.
“Ora non iniziare a trovare scuse e a raccontarmi che perché sei cieco non puoi mettere in ordine.” gli rispose Tom quasi ridendo e prendendolo in giro.
“Allora la prossima volta che vieni chiedimi anche perché non ti ho dipinto un quadro o che altro, perché non guardo volentieri la Tv!” si agitò ridendo.
Sapeva che suo fratello lo stava volutamente provocando, lo adorava per quello: perché non provava mai a dare giustificazioni alle sue mancanze. Tom gli si avvicinò dolcemente e lo abbracciò, Bill sentì il calore contro di lui e immaginò che Tom gli sorridesse, anche se lui in realtà il volto di suo fratello non l’aveva visto mai.
Sentiva la sua fronte spaziosa, il suo naso fino e le labbra carnose. Gli zigomi alti e la pelle liscia rovinata da quel tocco di barba che si faceva crescere. Sperava tanto di assomigliargli almeno un po’.
Tom lo lasciò andare e cominciò a tirare su da terra alcuni fogli e vestiti che Bill lasciava in giro.
“Che tempo fa oggi?” Bill si risedette sulla poltrona stringendo le gambe al petto.
Si era sempre seduto così, diceva che gli dava un senso di protezione.
“C’è il sole, soffia un po’ di vento.” rispose Tom guardandolo.
“Descrivimelo.” gli ordinò.

Bill gli faceva spesso quella richiesta, descrivere ciò che gli stava attorno, il volto di una persona o semplicemente i vestiti che indossava. Tom aveva problemi a descrivere i colori, come avrebbe potuto suo fratello capire cosa fosse il nero rispetto al giallo?
“Oggi, i bambini se ne vanno fuori a giocare a pallone e le mamme girano con i passeggini per le strade, le coppie di ragazzi sulle panchine parlano senza stancarsi mai e tutto sembra essere in festa. Il sole racchiude tutto e splende silenzioso senza che nessuno si accorga della sua esistenza. Bill, la gente sorride oggi, è un giorno come gli altri che nessuno ricorderà ma è talmente bello. Conviene vivercelo.” rise accarezzandogli una guancia.
“Conviene anche a me?” sospirò Bill malinconico.
“Perché dici così?”
“Conviene anche a me, uscire con il bastone e non riuscire a percepire la bellezza che trovi tu nelle cose. Non sapere mai la poesia che potrebbe avere il semplice gesto di vedere due persone che si tengono la mano, non vedere mai nessuno piangere di felicita, non guardarmi mai allo specchio non sapere come sei tu Tomi. Converrebbe anche a me vivere questo giorno?”
“Sì, devi vivere questo giorno e il prossimo perché io ti possa venire a trovare, perché mia moglie possa ascoltarti suonare la chitarra, cosa che ama tanto. Perché mamma ti possa rimproverare di nuovo di essere scortese con i suoi amici e perché papà ti porti a nuotare.”
“Devo vivere per gli altri quindi?” lo interruppe il moro alzandosi in piedi.
Tom sopirò, quante volte aveva immaginato come fosse vivere la vita di suo fratello, come niente gli fosse chiaro nella mente e tutto gli fosse difficile all’esterno. Odiava vederlo così.
“Con questo intendi che non trovi niente di concreto per cui vivere?” alzò le sopracciglia Tom stupito dalle frasi di Bill.
“A parte te, no.”
“Il tuo lavoro?”
“Fa schifo. Mi hanno assunto perché sono “non vedente” e mi trattano tutti troppo carinamente bene!”
“Mamma e papà?”
“Me lo stai davvero chiedendo?” rise Bill.
“Ok. La musica.” affermò Tom convinto di aver trovato il punto debole del fratello minore.
“Tom, portami a fare la spesa.” chiuse il discorso Bill dirigendosi sicuro verso la porta di ingresso e sbattendola lasciando Tom all’interno. Il rasta chiuse gli occhi e cercò di arrivare alla porta senza aprirli di nuovo, andò a sbattere sette volte in un tragitto di cinque metri.
“Bill?” lo chiamò non vedendolo più.
“Mh?” rispose mugugnando dall’altra parte della strada. L’udito di Bill avrebbe sempre continuato a sorprenderlo.

Quando Bill nacque cieco Tom non capì subito, come neanche i suoi genitori, ma il rasta vedendo il fratello crescere e non camminare o fare cose che si sarebbe aspettato facesse, vedere mamma che gli doveva insegnare ogni cosa e lui che sembrava sempre molto più che distratto, insomma, sentiva che c‘era qualcosa di strano. Non guardava dalla tua parte quando gli parlavi e non poteva giocare a nascondino. Poi aveva quella ossessione, quella strana fissa di toccarti il viso. Tom avrebbe capito più avanti, cosa avrebbe o no potuto fare con Bill, come avrebbe dovuto aiutarlo e a cosa potevano giocare. Da più grande cominciò a leggergli dei libri e a descrivergli i paesaggi e le persone. A dirgli cosa si provava nel vedere dove si andava e nel sapere che colore avesse la propria pelle. Tom lo pettinava e si assicurava che Bill avesse ogni congegno tecnologico che gli permettesse di fare ciò che lui stesso faceva al posto del moro.

“In che supermercato vuoi andare?” gli chiese gentilmente vedendolo ancora pensieroso sull’argomento “vita” e non volendo rigirare il coltello nella piaga.
“Quello che ti pare, non mi fa differenza.” alzò le spalle lisciandosi i capelli.
“Come vuoi.” alzò le spalle Tom facendo finta di non aver sentito tutta quella freddezza “Entra in macchina.”
“Vedi di dare ordini al tuo cazzo e non a me, ok?” gli ringhiò contro Bill furioso tirando fuori gli occhiali scuri dalla borsa.
“Mi spieghi perché sei incazzato ora?” alzò le braccia al cielo il rasta.
“Perché non posso avere una vita sociale?”
“Non la vuoi avere non è che non puoi.” lo rimproverò Tom.
“TOM! DEVO ASPETTARE TE PER ANDARE A FARE LA SPESA!” urlò infuriato.
Non voleva rispondergli che poteva benissimo andare a farsela da solo la prossima volta, l’avrebbe offeso di più di quello che poteva sopportare di fare.
“Ok Bill, se oggi ti va di fare la vittima dimmelo.” sbuffò il ragazzo.
“Io sono una vittima.” sillabò Bill.
“La vittima di che? Di un Dio malvagio che ti ha punito, di nostra madre che ti ha partorito di cosa?” disse girandogli ossessivamente attorno.
“Della sfortuna.” incrociò la braccia al petto.
“Tu sei la vittima di te stesso, Bill. Ecco di che cazzo sei vittima!” gli spinse un dito sul petto.
“Non mi urlare contro!” gli grido più arrabbiato per il fatto di non capire dove fosse il rasta che per altro.
“E tu non fare il coglione!”
Tom salì nella vettura sbattendo la portiera e sbuffando, seguito da Bill che si adagiò leggiadro sul sedile in pelle.
“Non mi insultare mai più.” chiarì Bill mettendosi la cintura di sicurezza.

La prima ragazza di Bill fu davvero orrenda, un esperienza da dimenticare e mai più riprovare.
Passava tutto il tempo a dire al moro quanto lei fosse aperta di vedute, quanto lei potesse accettarlo com’era, che lei aveva idea di cosa provasse. Aveva un idea del cazzo, se ce l’aveva. Tom era stato così felice per lui, sperava che tutto proseguisse bene, anche se la ragazza era davvero un cesso; ma cosa importava?
I primi tempi Bill aveva cominciato a sorridere molto. Gli piaceva come lo baciava e lo accarezzava e lui non dovesse fare esattamente niente per meritarselo. Gli piaceva la sensazione che provava sentendo le labbra di un’altra persona sulle sue, le loro lingue sfiorarsi e respirare all’unisono. Non si era mai sentito così bene, ma tutto finì presto.

“Che fai questa sera?”cercò di ritornare ad una conversazione civile.
“Mi suiciderò.” gli rispose Bill non mollando l’osso.
“Bill…”
“Che?”
“Finiscila.” gli ordinò perentorio.
“Non posso?”
“Smettila.” ripeté duro Tom.
“No.”

Tom sbatté il palmo sul cruscotto e trattenne un urlo, accese poi la macchina e si mise in strada.
“A volte sei talmente irritante.”
“E tu sei talmente idiota.” alzò le spalle Bill indispettito.
Tom cambiò direzione decidendo di non portarlo più al supermercato.
“Dammi una ragione, una sola fottuta ragione per cui io non debba ammazzarmi oggi! Se riuscirai a trovarla la smetterò con questi discorsi per tutto il resto della vita Tom, veramente.” Aveva davvero il bisogno di parlare di questa cosa con Tom, ma lui sembrava rigettare la questione.
“Perché pensi che dovrebbe interessarmi questa scommessa?” Ora era sulla fottuta difensiva.
“Non ti interessa?” gli chiese Bill stupito delle sue parole.
“Per niente.” mentì.
“Fantastico.” sibilò Bill.
“Magnifico, e smettila di crogiolarti nel dolore e muovi il culo.”
“Dammi una merda di ragione.” urlò ancora più forte di prima facendo prendere paura a Tom.

Tom non aveva più intenzione di rispondere a quel gioco idiota sapeva che suo fratello sarebbe potuto andare avanti all’infinito e non ne aveva per nulla voglia. Adorava stare con lui quando era tranquillo, tornava a casa ed era più sereno. Ma forse Bill aveva imparato a tenere nascosta la sua rabbia anche a lui anche se era suo fratello, la persona più importante della sua vita. Quel giorno nemmeno lui sapeva come si sentiva, aveva voglia di smetterla con quella pagliacciata di vita che aveva e voleva un cambiamento, non voleva ammazzarsi sul serio, per carità. Voleva provocare Tom, voleva sentirgli dire che gli voleva bene e che non avrebbero potuto vivere separati, ma il rasta quel giorno non era in vena di sopportarlo, chissà perché.

“Non stiamo andando al supermercato.”
“Sì che ci stiamo andando.” gli disse chiedendosi come avesse fatto a capirlo.
“No, andiamo sempre in un supermercato vicino case ed è già più di un quarto d’ora che viaggiamo. Dove mi stai portando?” chiese preoccupato. Odiava i posti sconosciuti e lontani da casa.
“Sei assillante.”
“Sono cieco, non idiota. Tom mi vuoi rapire?” sorrise capendo che Tom non gli avrebbe comunque mai fatto del male e cercando di imporsi di starsene tranquillo.
“Non ti sopporterei più di mezza giornata.”
“Balle.”

Girò verso l’ospedale che si trovava nel centro città, Bill se ne stava zitto zitto con la testa appoggiata al vetro sospirando di tanto in tanto. Tom lo guardò, odiava il suo essere così fottutamente perfetto e odiava la gente che non lo trattava come tale: le ragazze che per strada lo vedevano con il bastone e non lo degnavano di uno sguardo quando se solo ci avesse visto avrebbero ammirato il suo sedere e attuato chissà quali fantasie sessuali. Parcheggiò davanti alla scritta rossa che segnava la struttura ospedaliera e scese dall’auto. Tom si precipitò dalla parte di suo fratello per dargli una mano a scendere.
“Tom, sai che ho paura dei posti che non conosco.”
“Non preoccuparti ti sto tenendo la mano per quello.”
“Sarai contento che per farmi le sorprese non serve nemmeno bendarmi.” Bill rise e Tom con lui.
Quella battuta era orrenda, ma alleviò la tensione che c’era tra i due. Bill camminava sentendo solo l’asfalto sotto ai piedi e la mano di Tom premuta sulla sua, lo conduceva come solo lui sapeva fare e il moro si fidava. Sentiva in lontananza una madre che diceva ai figli di comportarsi bene e che quello era un luogo molto affollato. Dove cazzo lo stava portando?
Tom gli cinse i fianchi per passare la porta girevole e aiutarlo ad entrare nella sala d’attesa. Bill odiava i luoghi affollati.
Un rumore assordante arrivò ai timpani del moro, un susseguirsi di bip-bip sugli schermi, gente che urlava e sbatteva porte, tastiere di computer che ticchettavano. Si coprì le orecchie con le mani.
“Bill, ascoltami.” gli disse Tom piano cercando di calmarlo “Oggi sono venuto a casa tua per un motivo.”
“Oggi è mercoledì, tu vieni tutti i mercoledì.” era mortalmente spaventato dai rumori, barelle che passavano, bambini che piangevano.
“Sì, oggi è mercoledì.” gli accarezzò una guancia “Oggi sono venuto per dirti anche un’altra cosa.”
“Perché siamo all’ospedale, Tomi?” increspò le labbra il moro.
“Mi hai detto tu che vuoi una ragione per continuare a vivere, io te la do.” lo prese per mano

Salirono le scale più velocemente possibile e Bill arrancò dietro il passo veloce del fratello. Ansimando e mantenendo appena l’equilibrio. Arrivarono in un piano dove tutti erano in un religioso silenzio, cercavano di non farsi individuare? Bill li sentiva comunque i loro respiri, i passi sul pavimento di marmo. Tom lo portò dentro una stanza e lo fece sedere su un letto vuoto. Era morbido e le coperte profumavano di pulito.
“Aspettami fermo qui.” gli ordinò scappando di nuovo di corsa. Il fratello era eccitato all’idea di qualcosa, Bill lo sentiva dal tono di voce.
Dopo pochi minuti il fratello tornò, non più correndo e si fermò a contemplarlo.
“Se ti do una cosa, la lasci cadere?” chiese facendo spallucce ricordandosi che da suo fratello avrebbe potuto aspettarsi di tutto. Bill fece no con il capo.
Gli porse Kylie in mano. Una bambina minuscola che gli sarebbe stata in una sola mano, a sentire il calore della neonata a Bill vennero i brividi e la strinse per paura che gli scivolasse. Trattenne il respiro e deglutì. La bambina fece uno strano versetto e lui le accarezzò la testolina piena di capelli come quella del papà.
“Si chiama Kylie, è nata ieri. Mamma dice che mi assomiglia molto, pensa che abbiamo la stessa fronte.” ridacchiò Tom “è andato tutto magnifica mentente bene. Sono venuto a prenderti per dirtelo, spero che ti sia piaciuta la sorpresa. Io sono talmente felice.”
Bill passò il dito su un piedino quasi a farle il solletico e pensò quanto avrebbe potuto insegnare a quella bambina e come si sarebbe divertito a essere presente mentre cresceva. Le accarezzò il pancino e la bimba si agitò leggermente quando lui la appoggiò alla spalla facendole sbadatamente affondare il volto tra i suoi capelli corvini. Cominciò a cullarla.
“Credo di avertela data, no? Una ragione.” sospirò Tom.
Bill respirò a fondo e pensò a tutto quello che si era perso durante la sua vita per colpa dei suoi fottuti occhi, tutto quello che non aveva potuto vivere anche per sua stessa scelta. Tutte e difficoltà che ogni giorno affrontava per colpa che di lui alla società non importava nulla. Pensò che in fondo non gli importava, dopotutto, suo fratello aveva avuto una figlia. Suo fratello aveva avuto una vita e anche lui ne poteva avere una. Si sentì pieno di una nuova forza che gli trapelava piano dal cuore, una lacrima solcò il suo viso mentre ancora cullava la bimba che teneva sulla spalla. Mentre ancora canticchiava un’assurda canzone in tedesco che parlava di palloncini rossi, scese lungo la sua guancia e cadde su suo mento.
Tom lo guardò, e sorrise come mai aveva sorriso. Gli tolse la lacrima dal viso con un dito e lasciò che stringesse ancora sua figlia.

“Tomi,” sospirò singhiozzando “Di che colore sono i suoi occhi?”
Lo disse in un soffio desolato, sapendo che qualunque risposta avesse dato il fratello lui non avrebbe mai capito.
Mai.
  
Leggi le 5 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel / Vai alla pagina dell'autore: Ewi