Quella che state per leggere
è la riscrittura di una storia scritta tempo fa,
pubblicata, cancellata e poi dimenticata, come si fa sempre
con le cose vecchie. Eppure un po' mi dispiaceva, così
eccola qui. Spero che vi piaccia. Accetterò con vero entusiasmo
qualsiasi commento mi vogliate lasciare, perchè sono sempre
un'ottima occasione per crescere e migliorare, e soprattutto adoro
vedere cosa la gente ne pensa: a volte mi fanno guardare con occhi
diversi la mia stessa storia. :)
Buona
lettura!
"Se
la mia vita fosse un libro, nessuno certo
si prenderebbe mai il disturbo di leggerlo. Poco ma sicuro.
Lo
abbandonerebbe a metà, dopo poche pagine,
lasciandolo sul comodino a prender polvere.
Qualche
temerario potrebbe arrivare perfino a concludere
qualche capitolo, chissà, prima di tirare il volume in un
angolo dell'armadio
indignato per aver perso il proprio tempo.
Questo
perchè si tratta di una storia
senza trama. Chi mai potrebbe esserne interessato, se nemmeno io lo
sono?"
Erano cose importanti, quelle.
Suonava fin da piccola, adorava farlo. Era l'unica cosa che la facesse
sentire
in qualche modo diversa. Non così mediocre come appariva,
dopotutto. Perché era questa la sua più
grande paura: la consapevolezza
dell’apatia che contaminava la sua vita, ormai data quasi per
scontata. Ogni
giorno si susseguiva uguale all’altro, una lunga fila di
lembi sbiaditi di
esistenza.
Solo
a
pensarci, le saliva un’incontenibile tristezza.
La musica si affievolì fino a spegnersi e le mani si
fermarono, quasi incerte,
poi si posarono delicatamente in grembo. Aggiustandosi le pieghe della
gonna,
Mary Anne si alzò e mise a posto lo spartito in un cassetto,
richiudendolo
dolcemente. Gli occhi verde chiaro brillavano di una luce particolare,
quasi
fossero il riflesso della delicatezza della melodia che fino a poco
tempo prima
aveva riempito la stanza.
Ma
nessuno se ne sarebbe mai accorto. Nessuno la guardava mai negli occhi.
Quasi
a passo di danza, si diresse verso l’immensa finestra che
donava
all’ambiente una considerevole luminosità, e
scostando le tendine di pizzo,
dominando un senso di pacata impazienza, guardò
giù in strada con aria
lievemente preoccupata.
Sospirando impercettibilmente, si scostò poi dal vetro.
Rimase qualche istante sovrappensiero, poi si sedette lentamente sul
letto,
accarezzando la coperta dalle tonalità pastello e prendendo
un classico del
novecento da sotto il cuscino.
Sarebbe
arrivata a momenti, lo sapeva. Lo sapeva sempre, quando lei arrivava.
Qualche
isolato più in là, in periferia, la vita
continuava nella sua chiassosa vivacità. Una donna, carica
di borse della
spesa, cercava di convincere sbuffando il bambino che teneva per mano a
non
saltare nelle numerose pozzanghere causate dall’ultimo
acquazzone primaverile;
un gruppo di operai si chiamava a gran voce mentre cercava di sistemare
un’enorme crepa che solcava l’asfalto; una ragazza
come tante camminava
lentamente, persa nella sua vita.
Un
passo, un altro. Non avrebbe saputo più dire se fosse stata
lei a camminare o
il marciapiede a muoversi in senso opposto sotto di lei. A volte non se
ne
rendeva più conto.
“Ehi
bella… perché non ci fai vedere cos’hai
sotto quella
gonna? Ehi, Larry, guarda che splendore.”
“Certo,
prima mettiti in fila.”
Lo sguardo indifferente, Nikyta passò oltre senza degnarli
di uno sguardo,
senza neanche affrettare il passo. Niente da stupirsi. Camminava a
grandi falcate
e sembrava non accorgersi delle occhiate curiose, talvolta ammirate,
dei
passanti; era occupata a sistemare la spilla da balia che teneva
attaccata la
sua manica sinistra, e questa operazione le richiedeva il massimo della
concentrazione. Maledetta manica. Continuava a staccarsi, e lei non ci
poteva
fare niente, proprio niente.
Sputò
la gomma da masticare, evitando di qualche centimetro un anziano
signore, e
dando un calcio ad una lattina rifletté su quanto certa
gente fosse inutile. Le
capitava spesso di pensarci. Era un pensiero profondamente narcisista e
se ne
rendeva conto, ma forse non aveva voglia di provare a sistemare i suoi
difetti
quando la gente non aveva il minimo interesse a soffermarsi sui loro.
Svoltò
in un quartiere dai giardini ordinati e le siepi curate, attraversato
da
immacolati vialetti. Se non fosse stato per la strada ancora bagnata,
si
sarebbe potuto tranquillamente pensare che la pioggia del giorno prima
avesse
risparmiato questa area della città.
Si
fermò per
soffiarsi rumorosamente il naso, imprecando a bassa voce contro il
raffreddore,
puntuale ogni primavera. Forse era un’allergia. Non lo
sapeva, ma concentrarsi
sull’odio verso quei sintomi sconosciuti era molto
più facile che andare dal
dottore.
Arrivò
ben presto al portone che occupava quasi mezza facciata della candida villa
in fondo alla via; il buco in cui lei abitava avrebbe potuto svolgere benissimo la funzione di ripostiglio per le scope in una casa come quella.
Scosse
la testa. Era convinta che tantissime persone risultassero patetiche
nel
cercare ad ogni costo di avere una vita felice.
Esitò
qualche istante, cercando di tirare un po’ più in
giù la stretta
minigonna di jeans, poi bussò impazientemente.
Mary Anne aprì con un sorriso.
“Temevo non arrivassi più. Entra pure.”
“Scusa, ma ho avuto problemi a casa. E ho incontrato un
branco di deficienti
per strada.”
Mary Anne richiuse delicatamente il portone e si diresse in camera sua
senza
commentare.
Nikyta
si guardò intorno con aria ammirata. Non era la prima volta
che entrava in
quella casa, ma i suoi occhi non potevano mai fare a meno di
soffermarsi sui
quadri impressionisti che decoravano le pareti, i vasi di ceramica
sopra i
mobili di mogano antico, le fotografie luminose che davano
all’ingresso una
dimensione irreale. Si impose di non fare paragoni. I paragoni fanno
sempre stare
male. Lei lo sapeva bene.
Cercò di assumere un’aria vivace e spensierata,
volutamente superficiale. Lo
faceva sempre.
“Cavolo, ogni volta che entro qui non posso fare a meno di
pensare che ai tuoi
escano proprio i soldi dal buco del c-”
“Hai reso l’idea,” la interruppe
precipitosamente Mary Anne, spingendola decisa
in camera sua e richiudendo la porta dietro di sé.
Togliendosi
le Converse logore – avrebbe dovuto seriamente comprarsene un
paio
nuove, era ora di smettere di rimandare - Nikyta si gettò
sul letto con un
balzo, facendo ondeggiare i suoi lunghi capelli tinti di un bianco
platino e
dal taglio asimmetrico. Si sforzò di sorridere, ma in
realtà pensava ancora ai
vasi di porcellana e alle fotografie.
“Marilù, queste lenzuola rosa mi mettono
ansia,” esclamò, fingendosi
inorridita.
“A me piacciono. E trovo che Marilù sia un nome da
prostituta.”
La
voce
di Mary Anne era ferma e impassibile, come al solito.
“Cos’hai contro le prostitute? Si guadagnano il
pane onestamente.”
Mary Anne non rispose, e si sedette sul tappeto ai piedi del letto,
incrociando
compostamente le gambe. Nikyta si sdraiò sul bordo e le
accarezzò i capelli
tagliati a caschetto.
“Sai, penso che dovresti farteli crescere.”
L’amica annuì distrattamente. Ancora
silenzio.
“Ad ogni modo, come mai mi hai chiamata con tanta
fretta?”
Mary Anne esitò per diversi secondi, mordendosi il labbro e
aggrottando le
sopracciglia sottili e perfette.
“Niky, mi sono innamorata. Pesantemente.”
Nikyta
smise di accarezzarle i capelli, presa alla sprovvista. Una scarica di
pensieri
le folgorò la mente – no, tu no,
risparmiati questo male, almeno tu che
ancora puoi – lasciandola confusa. Si
sforzò di apparire entusiasta.
In realtà aveva sempre come pensato che Mary Anne
fosse inadatta alla
vita. Troppo fragile, troppo sensibile, troppo ingenua
e…pura. Lei non doveva
innamorarsi.