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Autore: LivingTheDream    16/10/2011    5 recensioni
"Zero virgola sei miglia, svolta a sinistra, costeggiare lago Regent’s Park, undici minuti per il noleggio imbarcazioni, minuti rimanenti: nove.
Posso farcela."
È ora di tornare a casa.
Genere: Introspettivo, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Quasi tutti
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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 Questa storia è stata letta ed approvata da Jolly Camaleonte.
-Diffidate delle imitazioni, solo le originali possiedono il bollino!-


 

Questa storia è ispirata alla canzone Coming Home, by Diddy. Ascoltatela durante la lettura ed amatela come faccio io con Sherlock Holmes, con il mio Watson, la mia beta ed i marshmallow.

 

 

«Glielo giuro, non sono pazzo! Deve venire subito qui, mi creda, molli tutto e venga, dannazione! No, niente ma. Raccolga anche gli altri due e venga. Lo sapevo, lo sapevo!»

«Anderson, Donovan, raccattate quello che rimane della vostra voglia di lavorare e seguitemi, si va al 221b.»
«A fare che, capo?»
«È una storia lunga, muovetevi da lì e venite con me. Spero solo non sia una perdita di tempo.»
«Ma-»
«Vi ho detto di venire con me, subito!»

«Sì, ha capito bene. Venga, di corsa, potrebbe essere da un momento all'altro. No, non sto prendendo psicofarmaci e- no, ma di che droghe parla! Venga, e speriamo bene.»

«Anthea, per favore, prendi un'auto.»
«Vuole la limousine o-»
«Quello che c'è, anche un taxi, basta arrivare a Baker Street in dieci minuti.»
«Oh – ok. Si ricordi di prendere l’ombrello, il cielo minaccia pioggia. Ma come mai questa destinazione?»
«Sembra che ci sarà un colpo di scena. Spero solo che non sia tutto uno scherzo.»

«John caro, ma tu ne sei sicuro?»
«Non totalmente. Ma con Sherlock non c’è mai niente di sicuro. Io lo sapevo, dannazione. Lo sapevo.»

 

Sto tornando a casa. SH

 

« Outer Circle, ovviamente. Ecco Regent’s Park e – il traffico. Ma certo, il traffico!»
«C'è un ingorgo. Se pazienta un attimo magari-»
« Taccia. Prenda i soldi e si tenga pure il resto, io scendo qui.»

La portiera sbatte, mentre i clacson coprono il rumore degli impropri del tassista verso quell'impossibile cliente, che dopo aver svincolato tra le auto inizia a correre lungo la strada, gli occhi di ghiaccio puntati sull'entrata del Parco.

Svolta, prendendo una curva molto larga, ed entra nella strada principale di Regent's Park.
Si guarda intorno per qualche secondo, immobile, poi riprende a correre.

Zero virgola tre miglia, svoltare a destra, proseguire dritto: due minuti guadagnati.

Le scarpe colpiscono secche contro la ghiaia, che scricchiola sotto il suo peso. I rumori delle auto intorno arrivano alle sue orecchie solo come un suono vagamente ovattato e sovrastato dal tentativo di respirare normalmente, mentre il cuore pulsa a mille nel petto.

Le persone si voltano a guardarlo, i cani gli abbaiano, e sembra che anche tutte le piante lungo quel viale alberato lo osservino, incuriosite da quella macchia scura che corre – vola – lungo la strada.

Già si vede la scultura al centro della piccola rotonda a cui dovrà svoltare, ed aggrotta le sopracciglia nel tentativo di ordinare al suo cuore di smetterla – non può correre ancora più veloce, è inutile insistere.

Cinque minuti, svolta a destra – minuti rimanenti: venti.
Venti minuti. Solo altri venti.

 

«Allora, dottore, si può sapere che succede?»
«Salve, Lestrade. Anderson, Donovan.»
«Spero che tu abbia un ottimo motivo per averci chiamato a quest'ora, con il rischio di trovarci sotto un bell'acquazzone. Il capo non ci ha fatto capire nulla, possibile che-»
«Possibile? Possibile, Anderson? Guarda qui, se non ne sei sicuro!» esclama John, mollando il cellulare in mano allo scettico poliziotto.

Dopodiché si volta, tornado a camminare lungo il tappeto, con una morsa allo stomaco che gli impedisce di respirare liberamente.

Si sente male, è nervoso, ansioso, sente il sangue scorrere nelle vene come se dovesse battere un qualche record di velocità. Le gambe gli tremano, non sa che pensare, ed è come se i neuroni gli rimbalzassero in testa ad ogni minimo movimento, totalmente inutili ed abbandonati al loro destino.

«Questo non vuol dire niente.»
«Quel messaggio da solo no, ma so che è lui. Ora, mettetevi pure comodi, Mrs. Hudson sta preparando del thé.»
«Per quanto ne sappiamo, John, potremmo aspettare anche tutta la notte, te ne rendi conto?»

John si volta di scatto, con la testa bassa ma gli occhi puntati in quelli della donna che ha appena parlato. «Donovan, se sta arrivando, sta arrivando.»

Il silenzio cala nella stanza.

I due agenti si voltano verso l'ispettore, che non fa altro che fissare John, il quale ricambia lo sguardo con convinzione e tenacia.

«Allora, se non ti dispiace» esclama finalmente Lestrade, sedendosi sul divano «chiedi a Mrs. Hudson di preparare altre tre tazze, grazie.»

John sorride appena, riprendendo a respirare, ed anche gli altri due si siedono, rassegnati ma perplessi.

«Ehm, John.» interviene l'anziana padrona di casa «Hanno suonato alla porta.»

 

Ormai non c'è quasi nessuno nel parco, la pioggia è arrivata a scacciare tutti dalle loro passeggiate, con il suo picchiettare umido e fastidioso.
In pochi minuti se ne sono andati tutti, chi correndo, chi sotto un comodo ombrello, ed anche gli animali si sono rannicchiati nelle loro tane, infastiditi o spaventati.

Ma, lungo quei prati enormi, una macchia si muove veloce come una nuvola in una giornata particolarmente ventosa – è nera, ma non porta tempesta, anzi. Porta novità, e sorrisi.

È un cappotto nero, che crea un ampio arco quando il suo proprietario svolta verso destra, imboccando la via attraverso i campi da cricket.

Corre, le scarpe infangate e la pioggia che gli inzuppa i capelli corvini. Le gocce gli colano lungo le guance e si accavallano sul mento, accartocciandosi poi nell'aria, prima di sfaldarsi a terra.
Se qualcuno lo vedesse ora, senza conoscerlo, potrebbe dire anche che stia piangendo, ma chi lo farebbe con un espressione simile sul volto, determinata e viva come poche altre volte gli era capitato di sfoggiare?

Corre, le dita strette contro il palmo e le falcate più ampie del normale, ignorando bellamente i polpacci in fiamme, e dicendosi che il dolore è solo un allarme che lancia il cervello per dirci che quello che stiamo facendo non gli va bene. Il cervello sta sbagliando, stavolta – quella è una delle poche cose davvero giuste che lui abbia mai fatto.

Corre, come se da questo dipendesse non la sua vita, ma quella di qualcun altro – dopotutto, aveva salvato delle vite, eppure non si considera assolutamente un eroe. Gli eroi non possono commettere errori, non possono permetterselo, invece lui l’aveva fatto – fin troppe volte.

E tra qualche minuto, forse, ne avrebbe pagato le conseguenze.

Zero virgola sei miglia, svolta a sinistra, costeggiare lago Regent’s Park, undici minuti per il  noleggio imbarcazioni, minuti rimanenti: nove.
Posso farcela.

 

«Oh, signor Holmes, grazie a Dio è qui anche lei.»
«John, cos’è questa storia?»
«Guardi.» decide di non parlare, e di nuovo porge il cellulare come prova, quelle parole parlano chiaro. Stava arrivando, se lo sentiva, ed era una sensazione che lo scuoteva dai piedi alla punta dei capelli, costringendolo a non tenere le gambe ferme nemmeno per un minuto.
«Oh cielo...» sussurra Mycroft, dopodiché sorpassa il dottore, chiedendo a gran voce un computer.
«Ecco, può prendere il mio. Ma cosa ha intenzione di fare?» chiede Sally, dopo avergli stretto la mano.
«Che domande, rintraccio il cellulare. Così capiremo subito se ci hanno giocato un brutto tiro.»
«Mi sembra un'ottima-»
«Io ne sono sicuro. Potete dire quello che volete, ma io so che sta arrivando. Potete dire che sono un illuso, che devo accettare che eventi del genere accadono o che davvero la ragione mi ha abbandonato. Ma io ho visto amici morirmi davanti agli occhi – tra le mia braccia – e penso di sentire quando arriva l'ora di una persona. Io so che sta tornando. Quindi rintracciate pure quel numero.» sospira, alzandosi e prendendo una sedia. «Io rimango qui.»

Anche gli ultimi rumori svaniscono nell'aria ed il frenetico ticchettio della tastiera di Mycroft si interrompe, mentre il profumo di thé invade la stanza.

Mrs. Hudson distribuisce tazze bollenti a tutti, ed infine poggia una mano sulla spalla del maggiore degli Holmes, chiedendogli sottovoce se anche lui ne desiderasse, richiesta che viene gentilmente accolta.

Per qualche secondo tutti tacciono, rabbrividendo a causa del calore sprigionato dalla bevanda calda, e John si sente leggermente meglio. Continua a fissare la strada con la tazza racchiusa tra i palmi – almeno le gambe hanno smesso di tremargli.

Un sospiro rompe il silenzio, poi uno scatto netto ed un computer che si spegne riempiono le orecchie dei presenti.

Qualche passo, dopodiché John avverte una mano sulla spalla, e si volta lentamente.

«Nessuno è mai riuscito a costruire un legame tanto solido con mio fratello – tu sei stato l'unica eccezione. Non posso fare altro che fidarmi. Se dici che arriverà, arriverà.»

John annuisce piano, tornando a guardare fuori.

«Sherlock Holmes, pieno di risorse, dinamico, enigmatico – e ritardatario» ridacchiò appena, con le labbra sul bordo della tazza. Non si sarebbe mosso di lì per nulla al mondo.

 

«Argh, stupida pioggia!» impreca, sollevando un piede da dentro una pozzanghera.

Costeggia il lago, ansimando – non può fermarsi ora.

Le gambe, se potessero, chiederebbero pietà in qualsiasi lingua, il cuore continua a battere come se volesse sfondargli la gabbia toracica, mentre il giaccone, ormai zuppo, non fa altro che rallentarlo enormemente.

Le gocce di pioggia picchiano violente contro qualsiasi superficie – il lago, la ghiaia, le sue spalle – e sembrano volergli scandire nelle orecchie un ritmo che sa di non poter sostenere.

Ad un tratto ci si mette anche la terra ad impedirgli di andare avanti, piazzandogli un sasso proprio davanti alla punta del piede, e, senza nemmeno avere il tempo di realizzarlo, rovina al suolo come il più sciocco dei bambini.

Rimane inginocchiato, con le mani puntate nel fango, e si passa la lingue sulle labbra aride, tentando anche di rimettere in circolo un po' di saliva.

Alza la testa, cercando di vedere oltre i riccioli impastati tra di loro, e, tra le chiome di alcuni alberi, spicca già Baker Street. Il lago è alle sue spalle, ormai, ed il pensiero di essere così vicino sembra scuotere violentemente ogni cellula del suo corpo.

«Sherlock.» sembra chiamare una goccia di pioggia sfaldata al suolo.

«Sherlock, Sherlock, Sherlock, Sherlock.» Ognuna lo chiama, con una voce a lui fin troppo nota, una voce che sembra invocarlo come la migliore delle persone e come il più maldestro dei bambini allo stesso tempo; una voce, sembrerà strano, che lui non ha mai ignorato.

«Oh, al diavolo!» sbotta, e si sfila velocemente la giacca, gettandola nel primo cestino che trova.

Continua ad affondare violentemente i piedi a terra, come se volesse maledire quelle gambe per non poterlo farlo accelerare ancora di più.

Finalmente raggiunge l'uscita del parco, e senza pensarci due volte salta oltre la transenna, atterrando sull'asfalto scivoloso e rischiando di rovinare di nuovo sulla strada. Attraversa senza nemmeno curarsi della moto che inchioda per non investirlo in pieno, dopodiché salta di nuovo oltre uno sbarramento, e d'istinto inspira a pieni polmoni l'aria di Baker Street durante la pioggia.

Minuti rimanenti: uno.
Meno di un minuto a casa.

 

«John, se posso chiedere, a che ora hai ricevuto il messaggio?»
«Verso le otto e mezza, Lestrade, minuto più, minuto meno. Perché?» risponde, voltandosi appena.

L'ispettore si passa una mano sul volto, sospirando. «Due ore e mezza fa. Non è poco tempo.»

«Si, in effetti» ridacchia John, senza troppa convinzione «vi ho chiamato solo dopo mezz'ora perché sono rimasto abbastanza confuso da quelle parole.»
«Ci abbiamo messo un'ora a chiudere tutto ed arrivare. Sono le undici, John. Non penso che-»
«Se non ci tenete ad aspettare, allora, andate pure. Io vado ad accendere la luce al secondo piano, per sicurezza.» sbotta secco, uscendo dallo studio.

Si sente un sospiro debole, dopodiché Mrs. Hudson interviene, quasi sottovoce.

«Io credo a John. Se Sherlock sta davvero tornando allora rimarrò sveglia anche tutta la notte, insieme al dottore. Ma se volete andare, non abbiate timore di farlo.»

Anderson batte i palmi sulle ginocchia, puntando i piedi sul pavimento. «Allora, io me ne torno a casa.»
«Anche io.» aggiunge Sally. «Non credo ai fantasmi, né tanto meno ad un ex-soldato qualsiasi che ci tiene inchiodati in questo studio polveroso.»
«Ehi, voi due!» li richiama Lestrade, alzandosi. «Non vi ho mai insegnato ad ignorare il gioco di squadra, mi pare.»
«No, capo, ma ci ha anche insegnato ad essere razionali, ed in questo momento rimanere qui è la cosa meno logica da fare.» conclude Sally, mentre Anderson scende velocemente le scale.

Lestrade ricade nella poltrona, sospirando.

«Scusateli, io-»
«Non si preoccupi, Lestrade. Aspetteremo noi.» gli sorride Mycroft, bonario.

 

Quando i suoi piedi calpestano la vernice gialla delle strisce dipinte sull'asfalto dell'incrocio, il suo cuore ha l'ennesimo sobbalzo.

Ormai non sente dolore, solo una morsa d'ansia alla bocca dello stomaco, e le labbra e la lingua secche, ma l'unica cosa che gli importa è che manca davvero poco, adesso.

Si ferma per nemmeno un secondo, poi si getta di nuovo in strada, ignorando bellamente gli automobilisti disorientati che sono costretti a rallentare per colpa di uno psicopatico qualsiasi – ma non gli importa, l'unico che deve accelerare è lui, adesso.

Pianta una mano giusto al centro del cofano di un'auto e, facendo perno sul palmo, la salta.

Ormai è oltre la fermata del bus, e si fionda sul marciapiede destro – su, gambe, ancora un piccolo sforzo.

La pioggia sembra – se possibile – essersi fatta ancora più fitta, e deve stare attento a dove mette i piedi, e le spalle, e a tenere le braccia serrate contro i fianchi perché la folla è aumentata, e non può certo fermarsi a chiedere scusa a tutti quelli contro cui sbatte – non lo farebbe comunque, in realtà.

Sente l'asfalto bruciargli sotto i piedi ed il vento infilarsi tra i capelli zuppi, però non può fare a meno di sorridere, affannato, e di inchiodare davanti ad una porta scura, nera, dietro la quale c'è tutto.

Muove gli ultimi passi, sciaguattando con le scarpe nelle pozzanghere, perché in quel punto ingaggiò una sparatoria, ed il marciapiede è rimasto danneggiato – e in teoria non potrebbe permettersi di farsi ingoiare da una cosa così sentimentale come i ricordi.

Alza piano il mento, riparandosi dalla pioggia con la mano, e vede due punti luminosi farsi spazio tra le gocce di pioggia dalla finestra più alta ed incatenarsi dritti al suo sguardo.
Chiamarli occhi sarebbe riduttivo, quelli sono due fari, unici due perni fissi in una vita di cambiamenti.

Alza la mano per bussare – forse inizia a capire come mai si dica cuore in gola –, ma la porta si apre in quel preciso istante senza dover fare altro.

«Anderson.» saluta tranquillo, ignorando la camicia che, ridotta ormai ad una spugna, gli si appiccica fastidiosamente alla pelle. Si appoggia allo stipite, cercando di non mostrarsi troppo affannato.

«Sally, sbrigati!» urla l'altro, gli occhi sgranati ed increduli.

Arriva anche la donna, la quale, dopo essersi soffermata sull'uomo alla porta, non riesce a fare altro che chiamare un taxi, balbettando, ed a trascinare il collega via con sé.

«Ma insomma» esclama Mrs. Hudson, scendendo le scale con la tazza di thé in mano e Mycroft e Lestrade al seguito «che cos'ha quel benedetto ragazzo da urlare tant-» e la tazza si frantuma al suolo, e la donna scoppia in lacrime in tempo record, dopodiché, appena nota le condizioni del suo inquilino, si fionda in bagno a prendere degli asciugamani senza pensarci troppo.

Gli altri due, intanto, scendono gli ultimi scalini, fissando increduli l'uomo nell'ingresso.

«Stai inzuppando tutto il tappeto, lo sai?» lo rimprovera Mycroft, inclinando di poco la testa.
«Pensavate di esservi liberati di me?» sorride, alzando il mento ed allargando leggermente le braccia, per poi lasciarle ricadere lungo i fianchi.
«Buonasera, Lestrade.» aggiunge, poi. «Dopo sarò contento di ascoltare quel caso che – a quando vedo – ti assilla da almeno una settimana.»

L’ispettore ride, scuotendo la testa. «Sempre il solito, eh? Bentornato.»

«Su, vieni qui.» tenta Mycroft, ma viene immediatamente interrotto dallo stesso fratello, che prende a correre verso le scale – e, più precisamente, verso un John in piedi sul pianerottolo, praticamente paralizzato.
«Sherlock… » sussurra, sperando che qualcuno lo abbia sentito – in quel caso, se davvero l'uomo davanti a lui è un'allucinazione, qualcuno potrebbe farglielo notare.

Ma nessuno ribatte, nessuno gli ripete per l'ennesima volta che Sherlock non c'è, che Sherlock è morto e che deve farsene una ragione – sorridono, invece. È un buon segno.

Sherlock è lì che sale gli scalini due a due, dopodiché avvolge John, che non può fare altro che afferrargli la camicia zuppa e stringerlo, stringerlo come se davvero fosse un fantasma destinato a svanire da un momento all'altro.

«Non me ne vado, John.»

Gli altri due si infilano sotto l'ombrello di Mycroft, e si avventurano in strada – per dove, non è importante – e Mrs. Hudson preferisce non interferire, tanto Sherlock avrà molto tempo per asciugarsi come si deve.

In quanto a John, non ha paura di piangere mentre le loro labbra si incontrano dopo troppo tempo – Sherlock è tanto bagnato da far paura, forse non si accorgerà nemmeno della sua debolezza, e comunque avrà il tempo di sgridarlo per la sua sconsideratezza; insomma, girare sotto la pioggia con niente di più che una camicia non è salutare, eppure ora non è importante.

Ora l'unica cosa che conta sono i ricci di Sherlock, bagnati, sotto le sue dita, il suo profumo, che non è mai cambiato in tutti questi anni ma, soprattutto, il suo cuore che batte a pochi centimetri dalle sue orecchie in un nuovo abbraccio.

 

I’m coming home, I’m coming home.
Tell the World I’m coming home.
Let the rain wash away all the pain of yesterday.
I know my kingdom awaits and they’ve forgiven my mistakes.
I’m coming home, I’m coming home.

Tell the World that I’m coming.

 

E John vorrebbe scriverlo ovunque ed urlarlo al mondo, perché Sherlock è tornato, ed ora davvero va tutto bene.

 

 

Nda: colgo questo spazietto per ringraziare ancora una volta di cuore la mia beta, il cui bollino troneggia all’inizio della storia. È un brutto momento per la mia autostima e diciamo che mi serve qualcuno che mi dia idee stupende come fa lei.

Quindi, se questa storia vi è piaciuta almeno un po’, amate lei come la amo io, perché è anche merito suo.

P.s. ho aggiunto il ritornello alla fine, dimmi se per caso spezza troppo XD

 

Grazie mille, a presto.

Dream.

   
 
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