Piece
of My Heart
Didn’t I make you feel like you were the only man? (Yeah!)
Didn’t I give you nearly everything that a woman possibly can?
Honey, you know I did!
And each time I tell myself that I, well I think I’ve had enough,
but I’m gonna show you, baby, that a woman can be
tough.
Quello
era il più grande dopo sbronza della sua vita.
Bulma si rigirò fra le lenzuola stropicciate, che
aveva torturato per tutto il tempo da quando, tornata a casa, si era sfilata i
vestiti a fatica ed infilata nell’enorme letto. Ancora non riconosceva nel
proprio corpo tutti i temibili sintomi di quella serata esagerata, ma già
l’ebbrezza e l’euforia stavano cedendo il posto ad un principio di emicrania ed
una nausea profonda. In bocca aveva il sapore pestilenziale di alcol in
decomposizione, la lingua impastata e l’alito sicuramente lontano dal fresco
odore di dentifricio che lei amava. Aveva la pelle d’oca, perché crollando sul
materasso non si era curata d’indossare il pigiama, e non aveva osato mettersi
alla prova, alzandosi per chiudere la finestra: da essa entrava una brezza
tutt’altro che piacevole, vista l’arrivo di un autunno più freddo dei
precedenti. Bulma era sicura di aver dormito cinque minuti, che erano stati
costellati di incubi e allucinazioni mentre i fumi dell’alcol avevano agito a
suo svantaggio. Poi si era svegliata, ma permanendo in uno stato di
semicoscienza che durava da qualche ora. Stava, semplicemente, gli occhi verso
la finestra, in attesa.
Di cosa e
di chi, era meglio non pensarci.
Aveva scelto la serata peggiore per troncare la
propria relazione con Yamcha. Una simpatica rimpatriata fra amici si era
trasformata in una sequela di scene di pianto e urla, rovinando il buon umore
collettivo. Si erano trovati a casa del vecchio Maestro Muten, con il proposito
di una cenetta preparata da una pacata Lunch dai capelli scuri. Bulma ed il
fidanzato non si erano visti molto in quel periodo, specie per la nuova
tendenza del ragazzo ad evitare come la peste la casa dei genitori di lei, ed anche
se la tensione era stata palpabile sin dal primo minuto, entrambi
avevano cercato d’ignorare le cose non dette, quelle più importanti e spinose.
L’occasione era infatti stata resa ancora più
eccezionale dalla presenza della famiglia Son; gli eremiti avevano abbandonato
il monte Paoz per scendere fra i comuni mortali loro amici e godersi un momento
di tranquillità prima dell’arrivo del nuovo cataclisma in minaccia del pianeta.
Da quando il ragazzo dal futuro li aveva abbandonati, erano state rare le
giornate in cui si erano trovati tutti insieme. I
cyborg dai quali si sarebbero dovuti difendere apparivano nebulosi e pericolosi
come qualsiasi altro nemico avevano affrontato in precedenza,
ma Bulma era fiduciosa nelle capacità di Goku e del resto dei guerrieri
terresti, come pure nell’abilità di un guerriero dell’ombra di cui nessuno
osava pronunciare il nome ad alta voce.
Tenshinhan con Jaozi, Crilin, il piccolo Gohan che
cercava di scappare ad un’iperprotettiva Chichi sotto lo sguardo solare di Goku:
da quanto tempo non si ritrovavano tutti insieme,
unendo le forze non per sconfiggere un potente nemico ma per scordarsi, anche
solo per poche ore, di fare parte del gruppo dei salvatori della Terra. Non
appena era entrata nella casetta sulla piccola isola, Bulma aveva avvertito una
meravigliosa sensazione di pace, che
aveva sempre creduto di non poter trovare in nessun altro luogo dell’universo.
Ma non ci era voluto molto perché la sua sottile
bolla di sapone scoppiasse.
Erano già giunti al digestivo, dopo un lauto
banchetto, quando il fidanzato aveva toccato il suo tallone d’Achille,
prevedibile ma puntuale come la morte. Non appena Yamcha aveva nominato il non
proprio desiderato ospite di casa Brief, Bulma si era irrigidita per una vasta
quantità di ragioni, la maggior parte delle quali si
affrettò a nascondere dietro un sorriso senza gioia. La propria risposta era
stata secca e tagliente; non aveva tradito la sua personalità decisa ed
arrogante, imponendo la propria scelta come la più grande delle verità.
Soltanto Goku non l’aveva guardata storto: il suo migliore amico era
affezionato al concetto di seconda possibilità, e sapeva quanto l’ospite di
casa Brief ne avesse bisogno.
La magnanimità di Goku aveva mantenuto la calma
generale per un po’, costringendo sia Bulma sia Yamcha a sfogare la loro rabbia
su numerosi bicchierini di grappa e liquore offerti dalla cantina del Maestro
Muten. Dopo quegli scambi di fredde battute, gli altri ospiti avevano cercato
d’ignorare l’imminente bufera scherzando e rimembrando i vecchi tempi: ma
Bulma, pensando a ciò che non sarebbe mai più stato, non poteva che stare
peggio. Quando Chichi aveva deciso che per Gohan era arrivato il momento di
andare a letto e la famiglia Son se n’era andata, i piccioncini avevano aperto
le danze. Yamcha aveva avanzato un nuovo commento all’ospite di casa Brief,
Bulma aveva ribattuto, e il tutto era sfociato in una serie d’insulti che
avevano fatto tremare le fondamenta della casetta. I presenti avevano persino
cercato di dividerli, temendo che arrivassero alle mani con scarse possibilità
di vittoria della ragazza. Oolong era corso a nascondersi sotto il divano, e
Puar, come sempre fedele al ragazzo ma terrorizzata, aveva seguito il maialino.
Quando i due litiganti si erano resi conto di aver mandato a catafascio la
piacevole serata di tutti, invece di smettere e riconciliarsi avevano spostato
la discussione in giardino, lasciando gli amici ad aspettare preoccupati in
salotto.
Bulma aveva pianto, perso la voce gridando,
inventato insulti e scuse nella disperata difesa di una scelta che nemmeno lei
capiva del tutto. Infine, aveva pronunciato le fatidiche parole con cui aveva
posto fine a quella relazione che stava in piedi ormai soltanto per scherzo,
per convenzione. Lo aveva fatto ammutolire per pochi secondi, allontanandosi
barcollando e dicendo che la loro storia era troppo complicata, che lui né la
capiva né la rispettava, e che lei si meritava di meglio. Yamcha in risposta le
aveva augurato un viaggetto nel deretano di qualche disgraziato, utilizzando
un’espressione non proprio raffinata, per poi volare lontano dall’isola e da
quella strega di cui si era innamorato. Il ragazzo sapeva, e Bulma era
cosciente di come lui avesse intuito il mondo dietro le apparenze,
ma nessuno dei due aveva avuto poi il coraggio di spezzare a tal punto il cuore
dell’altro, asserendo la verità a voce alta. Infine, Bulma se n’era andata a
propria volta, scusandosi per il comportamento di quel bambino troppo
cresciuto, trattenendo l’istinto di nascondere il viso fra le mani e sussurrare
che lui aveva ragione, che avevano tutti ragione ma
lei sentiva di non poterci proprio fare nulla.
Bulma era un genio, e nell’arroganza dei suoi ragionamenti complessi spesso si scordava che gli
altri non erano stupidi in conseguenza alla sua mostruosa mente scientifica.
Sapeva che da tempo i suoi amici avevano notato in lei il cambiamento, che lo aveva notato Yamcha e che lei stessa lo
indossava con la falsa nonchalance di un colpevole che non sa mentire. E ne
aveva una paura folle. La verità era che da parecchio tempo stava riflettendo
sul lasciare il proprio storico fidanzato, ma non come tutte le altre volte in
cui avevano litigato, rotto e fatto pace dopo pochi
giorni. Lasciarlo significava una reale svolta nel suo essere
una donna matura, significava il soffocamento di ogni ricordo di una
Bulma insipida, e soprattutto di ogni maledetto
senso di colpa.
Rigirandosi fra le lenzuola ed infilando con
disperata rapidità la testa sotto il cuscino, la ragazza dai lunghi capelli
acquamarina cercò un rimedio al proprio malessere che non la costringesse ad
alzarsi, a guardarsi a torno, a cercare ogni piccola prova di ciò che era
diventata. Affondò i denti nella morbida stoffa pregiata, immaginando di poter
ripetere lo stesso gesto al più presto su una pelle dorata e ruvida, dalla
consistenza del cemento armato e dall’odore del più succoso e proibito frutto
dell’Eden. Non riusciva a provare vergogna per i propri pensieri, né per le
azioni che l’avevano portata a lasciare Yamcha e la vecchia sé stessa, ed era
questa consapevolezza a lacerarla di più. Gli ultimi due mesi erano stati
distruttivi.
Ed ora stava lì, a digerire più di una semplice
sbronza, con la finestra aperta in attesa che arrivasse un uomo ad amarla.
O meglio, una scimmia.
The wall on which the
prophets wrote
is cracking at the seams.
Upon the instruments of death
the sunlight brightly gleams.
When every man is torn apart
with nightmares and with dreams,
will no one lay the laurel wreath
as silence drowns the screams?
Sapeva che non stava dormendo: il suo respiro
giungeva irregolare e frustrato attraverso la sottile stoffa delle tende, e i
movimenti bruschi con cui si rigirava nel letto erano testimoni più che
sufficienti di un sonno per niente presente. Il suo olfatto sopraffino, adatto
al letale predatore che era, riconobbe nell’aria l’impronta di quel profumo
floreale, dolce e vagamente nauseante che la donna aveva l’abitudine di
spruzzare dappertutto, con grande dispiacere di chi le stava attorno. Mischiato
ad esso, annusò anche un odore estraneo, che non era abituato a rintracciare nelle
sue vicinanze: quello pungente di alcol. Contrasse la mascella, stupito dalla presenza di quella stranezza nella stanza della donna:
sapeva che ella non era una grande bevitrice, e che sfoderava quel veleno
terrestre soltanto nelle stesse occasioni in cui solitamente faceva qualche
scenata, o si rendeva più insopportabile del solito; era uno dei tanto dettagli
di lei che aveva acquisito durante quella convivenza che tutti definivano
forzata.
Con un movimento rapido e silenzioso, scavalcò
l’ostacolo della finestra ed entrò nella camera senza alcuna difficoltà: la
stanza della donna era persino al pian terreno di quell’immensa casa di matti,
perciò non aveva mai avuto particolari problemi a violare quel santuario di
riposo. Nei primi mesi lei gli aveva vietato l’accesso con arroganza alle
proprie stanze, e con un sorrisino malizioso e sfacciato gli aveva ricordato
che anche se lei era una bellissima e
sfolgorante perfezione lui non avrebbe comunque dovuto metterle le mani
addosso, o se ne sarebbe pentito. Si riferiva ovviamente alla protezione che
quel pivello del suo fidanzatino sulla quale lei faceva totale affidamento.
Vegeta ghignò per qualche istante prima di tornare
a rifugiarsi nella propria serietà guerriera: aveva sempre saputo essere
parecchio persuasivo, e la donna se n’era resa conto.
- Donna. – Bulma era avvolta in un turbine di
lenzuola che contro la sua pelle combattevano per candore e purezza: teneva gli
occhi chiusi più per dispetto che per reale ricerca di riposo, e sul suo volto
dai colori speciali, pazzeschi era disegnata un’espressione di sofferenza e
fastidio. Il suo corpo rannicchiato al centro del materasso era un gioco di
ombre e curve modellate dalla luce lunare che entrava dalla finestra, e che il
corpo di Vegeta andò ad oscurare improvvisamente con la propria presenza. I
capelli color acquamarina erano aggrovigliati in un intricato gioco di forme ed
immagini sulla stoffa delicata, singolari e completamente assurdi per i canoni
del sayan. Le donne della sua razza, ai tempi dell’esistenza del pianeta
Vegeta, avevano colori scuri e i cipigli militari degli uomini che affiancavano
in battaglia. Quella terreste invece era strana dentro quanto fuori e non
sarebbe riuscita ad ammazzare una mosca.
- Donna! – ripeté, quando capì che Bulma stava
cercando d’ignorarlo, o che comunque non aveva avvertito il suo richiamo. La
sua voce, rude e profonda come al solito quando si rivolgeva a lei, si espanse
per la stanza come un terremoto dal proprio epicentro: inconsciamente detestava
con tutto sé stessa i momenti in cui la donna, presa dalle proprie faccende o
da pensieri strampalati di genialità incomprensibile, glissava i suoi richiami.
Incrociò le braccia muscolose al petto, stringendo i denti per non lasciarsi
trasportare dalla rabbia e distruggere tutto ciò che aveva attorno: con la
stanchezza che aveva in corpo ma che stava bellamente ignorando, quella
ragazzina capricciosa e volubile stava mettendo a dura prova il suo
autocontrollo.
Bulma aprì gli occhi di scatto, sbarrandoli mentre
rapidamente seguiva l’istinto di mettersi a sedere e guardare la fonte di
quella parola. L’apostrofava sempre in quella maniera, e nonostante non le
fosse mai piaciuto essere ridotta ad un appellativo comune e banale, nella sua
mente aveva fissato le cinque lettere di “donna” come una parola da ricondurre
direttamente al pensiero di lui. In realtà, era sicura di avere udito anche il
primo richiamo che Vegeta le aveva rivolto, ma il suo cervello ormai pronto per
sprofondare in un nuovo dormiveglia senza esito alcuno aveva scambiato il suono
per una parvenza di sogno. Dovette appoggiare in fretta la
mani alla superficie morbida ed instabile del materasso, a causa del giramento
di testa che ricevette dal proprio corpo per quella sveglia brusca e per niente
adatta alla sua condizione di dopo sbronza. Per un secondo, pensò di stare per
vomitare lì, davanti a quei due occhi neri e assassini. Del resto però, lei era
un genio ed era abbastanza intelligente per capire
davanti a chi era consigliabile abbassare la guardia il meno possibile. E visto
che Vegeta stava già annichilendo la parte più debole e nascosta della sua
anima, Bulma ritenne di non dovergli perlomeno offrire così tante possibilità
di colpirla con pugni muti e meno indolori di quanto potessero sembrare.
- Dimmi, scimmione. – il
cuore della donna aveva incominciato a battere più forte da quando si era
alzata ed accorta della sua presenza: Vegeta poteva avvertirlo pulsare come
impazzito, ma osservando la smorfia di sottile indifferenza che Bulma aveva
indossato non lo avrebbe mai detto. Un sorrisino, di quelli che spesso donava
ad avversari sul punto di morire, comparve fra i suoi lineamenti marcati e
mascolini, senza addolcirli ma rendendoli ancora più temibili. Aveva imparato
come il proprio aspetto minaccioso non suggerisse alla terrestre alcuna paura,
e ciò lo frustrava più di quanto lasciasse intendere. Ogni volta che
s’incontravano era una lotta per la supremazia che si consumava a suo di lingue
taglienti. In ogni senso.
Aveva pensato
che fosse entrato per una nuova visita di piacere.
- Una delle tue diavolerie si è rotta. – Bulma non
avrebbe saputo descrivere le emozioni che provava in quel momento: erano un
miscuglio omogeneo che le provocava un aumento della nausea, sostanze talmente
diverse fra loro da aver causato una reazione di malessere in lei. Delusione,
era inutile negarlo: era dunque quello il motivo per cui era entrato nella sua
stanza quella sera? Perché come al solito era rimasto sveglio fino a notte
fonda ad allenare quel suo corpo già perfetto, spingendo al limite gli
strumenti che lei aveva creato appositamente per alimentare le ossessioni del
sayan. Sollievo, davanti ad una frase che scongiurava una nuova notte a
dimenarsi e ad ansimare per un individuo che aveva voluto soltanto il loro male
in passato, che fin da subito l’aveva stretta in una morsa ambigua e che ora
sembrava il centro di tutto il suo male ed il suo bene.
– Se devi svegliarmi alle due del mattino per
chiedermi di ripararti la Gravity Room, perlomeno aggiungi un “per favore” e smettila di comportarti
come un incivile. E dovresti smetterla di rompere la mia roba cinque volte al giorno. – nonostante avesse solo mugugnato
la propria protesta, ebbra di stanchezza, riuscì comunque a risultare
sgradevole ed impertinente: Vegeta storse il naso arrogante a questo pensiero,
dandole le spalle per dirigersi nuovamente verso la finestra. – Io non ti ho
chiesto proprio nulla. – lasciò che lei, con l’intelligenza di cui tesseva
innumerevoli lodi, cogliesse i molteplici significati di quella frase. Se fosse
rimasto più a lungo in quella stanza, avrebbe probabilmente tentato di
ucciderla, per poi prenderla fra quelle stesse lenzuola tormentate dal suo
corpo morbido ed accogliente, dimenticandosi completamente del motivo per cui
l’aveva svegliata. Era da due mesi a quella parte che, spesso e non proprio
volentieri, accadevano fatti simili con preoccupate
frequenza. Vegeta strinse appena il bordo di cemento della finestra, mentre la
scavalcava nuovamente per tornare in giardino: la presenza di una debolezza in
fondo al proprio cuore era un fatto inaccettabile quanto logicamente
impossibile.
Quella donna
era una strega.
I want you to come on, come on, come on, come on and
take it! (Take it!)
Take another little piece of my heart now, baby! (Oh, oh, break it!)
Break another little bit of my heart now, darling, yeah, yeah, yeah. (Oh, oh,
have a!)
Have another little piece of my heart now, baby,
you know you got it if it makes you feel good!
Quello scimmione
era un bastardo.
Bulma s’infilò con rabbia un paio di pantaloncini
sporchi di grasso che quel pomeriggio aveva abbandonato sul pavimento della
propria camera, prima di prepararsi per la festa. Nel proprio fervore, rischiò
persino d’inciampare incastrando il piede sinistro nel pantalone destro,
mantenendo l’equilibrio per puro miracolo. Un fiotto caldo di bile le rimescolò
il contenuto dello stomaco, costringendola ad abbandonare la presa sulla stoffa
per appoggiare una mano al muro, piegandosi su sé stessa come sul punto di
rimettere. Ma non avrebbe permesso a sé stessa di presentarsi debole e provata
dalla nausea a quello sbruffone: dopo qualche secondo ed una regolata al respiro veloce, Bulma riacquistò la posizione eretta,
riuscendo ad infilarsi quei maledetti pantaloncini. Mentre copriva le proprie
curve con la canottiera del pigiama, anche questa trovata abbandonata sul
pavimento, cercò di riporre in un cassetto della propria mente tutte le
emozioni della giornata, dell’ultimo quarto d’ora: dopo ciò
che aveva passato per difendere sé stessa, aveva bisogno di presentarsi stoica
e professionale alla Gravity Room. Non avrebbe permesso a Vegeta di abbattere
le sue barriere, non quella sera: in quel futuro nebuloso che la attendeva, ne
avrebbe avuto più necessità che mai.
Attraversò l’ampio cortile ignorando il freddo
pungente e l’aurea tenebrosa della notte come la più potente e glaciale delle
guerriere. Maledisse mentalmente la confusione in cui quella sorpresa l’aveva indotta, e che le aveva
fatto dimenticare le temperature esterne: quando se n’era andato oltre la
finestra, la sensazione di calore irradiata dal basso ventre in tutto il corpo
l’aveva lasciata fresca ed insoddisfatta. Soffocò però immediatamente quei
pensieri quando si trovò di fronte l’enorme struttura che le sue mani avevano
progettato e costruito: l’entrata della Gravity Room era già aperta,
e da essa proveniva una luce artificiale e per niente rassicurante. Bulma
deglutì, deridendosi per un’illogica paura della propria creazione,
senza badare alla consapevolezza tagliente che ciò che la spaventava era colui
che sostava al suo interno, non certo l’invenzione in sé.
Si diede il tempo per un ultimo, banale rimprovero:
come aveva potuto essere così sciocca? Come aveva potuto lasciarsi sfuggire
dalle mani una vita perfetta, la stima degli amici e l’orgoglioso affetto che
provava per sé stessa per stringere fra le braccia ogni notte solo il vuoto di
un letto desolato, con l’unica ricchezza di ricordi strappati a momenti più simili
ad un sogno che alla realtà?
Con un sospiro che si perse nell’aria della notte
della Città dell’Ovest, Bulma si decise ad entrare nella Gravity Room.
Il sayan stava con la schiena appoggiata contro la
parete della stanza, le braccia incrociate al petto e gli occhi chiusi:
l’espressione sul suo bel volto era completamente stoica. Non si rese quasi
conto che la donna lo aveva raggiunto: registrò il suo odore in avvicinamento
inconsciamente, ma la sua attenzione era riposta su un altro tipo di pensiero.
Si stava allenando dal primo pomeriggio: non aveva
neanche toccato cibo, ma aveva pensato soltanto a modellare, cesellare, mettere
a dura prova i propri muscoli in un ambiente dove la gravità superava i limiti
imposti dagli dei di quei mondi. Il suo corpo, che era sempre stato potente ma
smilzo e corto per i canoni militari dei guerrieri sayan, si era trasformato in
una vera e propria macchina da guerra implacabile. Aveva sconfitto gli ostacoli
gravitazionali più in fretta del previsto, e grazie alle speciali macchine
create da Bulma, che riuscivano a riflettere i suoi colpi energetici, anche il
potere del suo ki era aumentato in maniera notevole. Accadeva persino che per
giorni non uscisse mai dalla Gravity Room, se non per svaligiare in fretta il
frigorifero di quegli scienziati pazzi, senza rivolgere la parola a nessuno.
L’addestramento in preparazione all’incontro con i cyborg precedeva liscio e
senza interruzioni.
Eppure non era ancora abbastanza.
Vedere non solo Kakaroth,
ma anche il ragazzo venuto dal futuro trasformarsi nella Leggenda in un battito di ciglia era stato ben più di un semplice
colpo al suo smisurato orgoglio: era stata una vera e propria morte delle sue
più intime certezze, quelle che fin da piccolo gli avevano inculcato a suon di
pugni e storie di altri mondi. Non riusciva a capire cosa ancora lo separasse
dalla scintilla di forza e conoscenza che rendeva un guerriero Leggendario: lui
era l’erede della dinastia dei regnanti Sayan, il principe della razza di
combattenti più antica e temuta dell’universo. Era quasi impossibile per lui
credere di essere stato superato da una terza classe come Kakaroth
e da un pivellino qualsiasi come quello sconosciuto dai capelli ridicoli.
Immediatamente, i suoi denti affilati si contrassero per trattenere un potente
urlo di rabbia, che proveniva dall’animale nascosto nelle profondità della sua
anima.
Combattere era sempre stata la sua ragione di vita:
l’adrenalina dello scontro, la gloriosa ed inebriante
sensazione di vittoria e potere, o il tremendo desiderio di vendetta che lo
aveva accompagnato si da quando il suo pianeta era stato distrutto; erano tutte
emozioni che l’avevano spronato a respirare, a vivere. Erano le uniche
motivazioni che avesse mai avuto e chiesto per esistere. E allora cosa c’era che sfuggiva alla portata della sua
comprensione? Qual era il gradino successivo? Tutte quelle domande lo rendevano
incredibilmente frustrato: la sua esistenza era sempre stata composta dai
fatti, mai da questioni; aveva sempre saputo cosa fare. Ora, anche se non lo
avrebbe mai ammesso a nessuno, si sentiva sperduto: lui aveva più diritto di
accesso di tutti alla Leggenda del Super Sayan. Segretamente, si condannava e
rimproverava duramente per quella sconosciuta debolezza che gli impediva di
portare a termine il proprio destino: non c’era altra spiegazione, se non che Kakaroth avesse qualche straordinaria capacità
inaccessibile a chiunque. Ed una parte di lui, il bambino senza famiglia che in
anni di guerre e sangue aveva imparato ad ignorare, si disperava pietosamente
per questa propria mancanza.
- Beh, non hai ancora finito donna? – la sua voce
irruppe come un poderoso tuono: come sempre, non si sarebbe sforzato di essere
garbato e riconoscente. Del resto, era stata lei ad offrirgli vitto ed alloggio
in quel pianeta di deboli e fuori di testa: se proprio doveva ospitarlo, almeno
che gli fornisse attrezzature abbastanza resistenti. Invece quella donna
continuava a lavorare senza tregua per modificare i macchinari con cui Vegeta
si allenava, perché i materiali o le tecniche con cui venivano costruiti non si
rivelavano mai abbastanza resistenti per i suoi allenamenti. – Sai, credo che
la prossima volta te la riparerai da solo, la stanza. Anche se dubito che tu
sappia anche solo la differenza fra Hertz e Volt. – era più o meno simile ai
tanti commenti con cui Bulma gli rispondeva ogni volta: la sua lingua tagliente
sferzava colpi più imprevedibili di guerrieri di alto livello. Vegeta strinse
il pugno destro, pronto a scagliarle contro un’ondata di energia che l’avrebbe
spazzata via in pochi istanti con tutta la sua presunzione. Riuscì però a
dominarsi subito, portando gli occhi neri sulla figura inginocchiata a terra.
Stava frugando con gesti esperti fra le valvole e
le prese nascoste nel pannello di controllo principale della Gravity Room.
Dalla propria posizione, Vegeta riusciva a scorgere di lei soltanto la massa di
capelli acquamarina, freschi di permanente e scompigliati a causa del continuo
dimenarsi fra le lenzuola in cui l’aveva trovata, e le curve del suo corpo
morbido a gattoni sul pavimento provato dagli
allenamenti della stanza. Digrignò i denti, sicuro che avesse assunto quella
posizione soltanto per provocarlo.
Inutile dire che la mente di quell’umana era un
continuo enigma: quando, sul pianeta Namek, si era dimostrata atterrita da lui
come tutti quanti, neanche vi aveva fatto caso. Sì, non c’erano dubbi che fosse
apprezzabile come femmina aliena, ma Vegeta non si era
mai preoccupato del lato fisico e passionale del proprio corpo, concentrandosi
prevalentemente sull’incrementare le proprie doti di combattente. L’aveva
commentata in silenzio, poi l’aveva ignorata… fino a quando, dopo essere stato
assassinato da Freezer, si era risvegliato dalla morte su quel pianeta floreale
che aveva cercato di annientare, e lei lo aveva invitato a restare insieme al
resto degli alieni verdi. Anzi, sarebbe stato meglio dire che lo aveva sfidato
con impertinenza a prolungare il proprio soggiorno su un pianeta dal quale era
odiato. Insopportabile: era un
aggettivo che le rendeva pienamente giustizia.
Eppure aveva accettato, e aveva maledetto con tutte
le proprie forze quella scelta. Ma era l’unico modo per poter tenere d’occhio Kakaroth, ed usufruire della tecnologia dei terresti, interessante seppure primitiva rispetto a ciò a
cui era abituato. Non avrebbe mai detto che sarebbe stato così stressante: una volta se n’era persino andato, rubando una
delle loro astronavi, sia per cercare l’aura del proprio arcinemico, sia per
godere di un attimo di silenzio assoluto lontano da loro. Era tornato sapendo
che per il momento non c’era niente di meglio ad attenderlo nell’universo, ed
era stato con sua grande irritazione che aveva trovato la consapevolezza di ciò
negli occhi di quel piccolo genio dalla lingua lunga.
- Bene. Hai portato di nuovo il livello di gravità
a più di quattrocento? – la sua domanda giunse petulante, attirando nuovamente
l’attenzione dello sguardo del sayan:adesso la donna
era inginocchiata davanti a lui, fra le mani chiavi a stella ed altri attrezzi,
e la cassetta di questi aperta al suo fianco. Vegeta inarcò una delle folte
sopracciglia, guardandola muto e chiedendosi quando era andata a recuperare i
propri arnesi: era stato talmente assorto nei propri ragionamenti che non aveva
notato i suoi movimenti, non consciamente perlomeno. Beh, non aveva alcuna
importanza che cosa avesse fatto la terrestre: ciò che contava era che ora
fosse al proprio giusto posto, prostrata ai suoi piedi. Più o meno. – Parlare con un dinosauro sarebbe più gratificante! –
squittì lei, alzandosi e distogliendolo ancora una volta da pensieri lontani
dalla Gravity Room. Bulma non era molto più bassa di lui, quindi quando gli si
avvicinò arrivarono a fronteggiarsi con pari astio. –
Avanti, rispondi! – tuonò infine la donna, portando le mani sui formosi
fianchi. Vegeta girò la testa per fissare la porta della stanza, alzando
pericolosamente il mento in una smorfia di superiorità. – Non è colpa mia se le
tue macchine non riescono a stare dietro ai miei allenamenti, donna. – nel loro
linguaggio segreto, che ancora stavano imparando a riconoscere, quelle parole
equivalevano ad una confessione di colpevolezza bella e buona.
- Ti ho detto che il generatore principale si è
guastato qualche giorno fa. Tu l’hai rotto! – un’unghia smaltata di rosso si
posò, con una delicatezza che quasi lo fece indietreggiare, sul suo petto: era
un gesto che Bulma compiva spesso, quando si arrabbiava con lui. Anche se
fisicamente non sarebbe mai riuscita a scalfirlo, non rinunciava a toccarlo
come per trasmettergli tutto il fastidio del momento. Senza la minima traccia
di paura: era l’unica a cui avesse mai permesso ciò. Non avrebbe dovuto, ma
Vegeta era affascinato da questi suoi comportamenti. Oltre che irritato. –
Finché non arriveranno i pezzi di ricambio, che tra l’altro mi sono costati una
fortuna, la Gravity Room è collegata ai generatori secondari, quelli che
alimentano anche il mio laboratorio. Per questo ti ho detto di non portare la
gravità oltre il limite di quattrocento. Ma evidentemente i tuoi neuroni sono
troppo impegnati a capire cos’è una sinapsi per poter comprendere le mie
parole. –
- Adesso vieni con me. Nel caso migliore hai
provocato solo un cortocircuito a cui
riuscirò a rimediare in mezz’ora. Vediamo se riesci ad utilizzare i tuoi bei
muscoli scolpiti per qualcosa che sia davvero
utile! – autoritaria, lo fissò con quegli occhi grandi ed assurdi, resi
affilati da un cipiglio arrogante: Vegeta scoprì i denti come una bestia pronta
all’attacco, ma lei nemmeno sembrò curarsene. Scostò quei capelli impossibili
dal volto con un gesto vanesio, prima di dirigersi verso l’uscita della stanza,
tenendo il dito indice teso di fronte a lei come se questo fosse ancora puntato
contro il torace di Vegeta. Egli esitò: si concesse un ghigno malvagio, che non
ebbe lunga vita sui suoi tratti marcati, prima di seguirla. – Bei muscoli
scolpiti, addirittura. – come sempre, erano i dettagli a rivelare più di lei di
quanto non facessero quell’apparenza vittoriosa. Contro di lui, Bulma perdeva
sempre un po’.
Non si rendevano nemmeno conto di quanto fossero
vicini. Bulma con la sua emicrania e la sua paralizzante paura di aver fatto il
passo più lungo della gamba e di essersi giocata tutto quanto costruito negli
anni; con la sofferenza a stento repressa nei confronti di una scimmia che, nel
proprio piccolo, voleva amarla e rispettarla ma per qualche strana ragione da
alieni non lo faceva. Vegeta con quelle confusioni e quelle guerre interiori
che sarebbero state il suo epitaffio, e quelle domande che continuava ad
ammazzare a suon di calci e vecchi pregiudizi. Centinaia di anni alle spalle
consumati in poche notti di falso idillio, eppure era incominciato tutto
soltanto due mesi prima: l’esplosione più violenta di tutte.
Between the iron gates of fate,
the seeds of time were sown,
and watered by the deeds of those
who know and who are known;
knowledge is a deadly friend
when no one sets the rules.
the fate of all mankind I see
is in the hands of fools.
Era accaduto durante la notte di un giorno
difficile, dopo una tremenda litigata riguardo ad un guasto della Gravity Room,
causato ovviamente dalla superbia con cui il principe del sayan valutava le
invenzioni della donna: Vegeta diceva di non essere colpevole se i materiali
presenti sulla Terra erano poco resistenti, ma Bulma
si stava impegnando per accontentarlo e lui finiva sempre per rovinare in pochi
secondi il suo duro lavoro. Ogni volta che il
guerriero oltrepassava i limiti che la scienziata gli imponeva, non soltanto
metteva a rischio gli inquilini dell’abitazione, ma anche sé stesso, diceva la
donna. In aggiunta, il carattere del sayan era stato reso particolarmente
suscettibile poiché il ritorno di Kakaroth e l’arrivo
del ragazzo del futuro era avvenuto solo pochi giorni prima. Nel pomeriggio di
quel giorno, i muri della casa erano stati messi a dura prova dalle loro grida:
persino Yamcha se n’era andato in fretta e furia, dicendo d’aver fiutato una
pessima aria, il codardo.
Lui non capiva come lei potesse sfidare la sua pazienza in
quella maniera: era inammissibile che una piccola umana con un livello di
combattimento risibile potesse rivolgersi a lui con certi toni, certi gesti,
certe convinzioni. Il pensiero di Bulma non lo faceva più dormire, e già le ore
di sonno che si concedeva non erano molte: voleva darle una lezione che
ricordasse a vita, ma ogni volta che se la ritrovava
davanti era come una potente scarica elettrica, che lo annichiliva quanto lo
caricava di una forza nuova, a lui sconosciuta e perciò temibile. Bulma
scatenava in lui emozioni contrastanti, ricche di fiamme che non poteva
assolutamente alimentare, ma che lo tormentavano ogni giorno di più. Era
bellissima, strana e bellissima: brillava di luce propria anche quando
litigavano al buio, e ciò lo spaventava in una maniera che gli avevano
insegnato ad odiare profondamente, nella strada verso l’invincibilità.
Nessuno si
era mai preoccupato così per lui.
Lei non capiva come lui potesse sprigionare un tale odio da
tenere lontano il resto delle persone: diceva di disprezzare chiunque su quel
pianeta, nell’universo, e professava con incredibile arroganza di essere
l’unico a meritare di sopravvivere. Bulma lo trovava ipocrita, ingrato ed una
serie infinita di altri aggettivi dispregiativi, visto l’egoismo con cui
usufruiva di ciò che la sua famiglia gli metteva a disposizione, ma non
riusciva mai a rigettargli contro tutta la violenza, quella intima e vera, che
le provocava. Durante la lunga convivenza, come pure nel breve periodo in cui
se n’era andato alla ricerca di Goku nello spazio, aveva imparato a scovare nel
suo sguardo dura la sua parte più debole: sospettava che avesse pianto più
sangue di quanto ne avesse versato, e ne aveva incredibile pietà. Avrebbe
voluto placargli l’animo, prenderlo per mano e condurlo fuori da quel tunnel di
dolore; invece lo insultava banalmente e cedeva ogni giorno di più.
Nessuno aveva
mai attirato così tanto il suo affetto.
Quando lui era entrato nella sua camera, lei si era
svegliata all’istante, nonostante fosse stato silenzioso ed agile come la morte
personificata: aveva avvolto le coperte attorno al proprio corpo come se
sperasse di non avvertire quella scintilla che inevitabilmente stava per
scoppiare fra loro. Ma quando si erano guardati si erano subito sentiti meno
sperduti e soli nell’universo, anche attraverso quell’atteggiamento di sfida a
cui mai rinunciavano nell’affrontarsi: le catene che i cataclismi e le perdite
avevano stretto attorno al loro collo erano sembrate allentarsi, quando si
erano toccati ed infine trovati l’uno nell’altra. Andava al di là di loro ogni
previsione. Vegeta non se n’era andato prima dell’alba, né Bulma lo aveva
invitato a lasciarla: aveva accolto l’animale e il bimbo che costituivano l’uomo con slancio ed impeto superiori a
qualsiasi sua emozione prima di allora, cullandoli fra
le proprie braccia e scoprendo che il mostro di cui parlava la gente non era
altro che apparenza. Non ci sarebbero stati altri né prima né dopo di lui, di questo ne era stata certa non appena si era voltata verso
l’altro lato del letto e l’aveva trovato paurosamente vuoto: solo, non sarebbe
stato possibile vivere quella scoperta in modo normale. Si rendeva conto che
lui non le avrebbe mai donato ciò di cui aveva bisogno se non a distanza di ere
e nuovi dolori, e sapeva perfettamente che il proprio carattere non avrebbe
accettato se non col tempo le mancanze di Vegeta.
Il sayan era tornato altre volte, sempre senza che
nessuno dei due aprisse bocca per prendere accordi. Stringendosi e scoprendosi
più a fondo si sentivano avvolti da una protezione di cui, nel mondo esterno,
non sapevano ammettere l’esistenza: Vegeta perché fuori da quella stanza non
riusciva ad abbandonarsi alla consapevolezza di dipendere ormai da lei con
altrettanta serenità; Bulma perché stentava a credere di avere cominciato ad
amare qualcuno senza fronzoli, come il puro e semplice istinto di respirare.
A volte avevano persino parlato, nel torpore dopo
l’amplesso che li rendeva entrambi docili e mansueti: Vegeta aveva accennato
qualcosa del proprio pianeta natale, mai non era mai
riuscito a spingersi al di là delle barriere a parole. Bulma aveva compreso che
egli era un silenzioso, un comunicatore che utilizzava più il corpo perché le
parole spesso hanno due significati, e ci riportano alla mente i lati più
negativi di noi stessi. La donna invece gli parlava di qualsiasi cosa, dalla
propria famiglia al variare delle stagioni. Non esitava nemmeno a toccare gli
argomenti che avrebbero potuto urtarlo, come la caccia alle sette sfere in
compagnia Goku della sua adolescenza. Stranamente, il sayan non aveva alcun
desiderio di tapparle la bocca in queste occasioni: era curioso di osservare
l’azzurro dei suoi occhi brillare al buio quando si esaltava o discuteva.
Avrebbe potuto osservarla per sempre.
Fuori dall’intimità della camera da letto tutto
procedeva come al solito: odiavano i difetti dell’altro quando indossavano le
loro rassicuranti maschere, e si amavano di un amore consumante in silenzio,
sotto gli sguardi inconsapevoli degli amici di lei. Vegeta aveva continuato a
vedere quel bellimbusto, che lei presentava come fidanzato, girare per casa e
acclamarla come propria, e aveva nascosto l’incredibile fastidio, la gelosia? sotto
qualche frase sgarbata. Bulma non aveva mai abbandonato il sorriso, ma il peso
di quel dolcissimo segreto dell’inferno era aumentato di giorno in giorno. Ora
sapeva di stare crollando sotto esso. Anche camminando
un po’ più avanti a lui verso i sotterranei della casa, ne avvertiva la
portata. Ma cos’altro poteva fare? Aveva appena posto un
pietra importante nel proprio cammino, e probabilmente aveva commesso il più
grande sbaglio della propria vita: non le restava che continuare a respirare.
Oh, yes indeed.
You're out on the streets looking good,
and baby deep down in your heart I guess you know that it ain't
right,
never, never, never, never, never, never hear me when I cry at night,
babe, I cry all the time!
And each time I tell myself that I, well I can't stand the pain,
but when you hold me in your arms, I'll sing it once again.
- Passami quel
cacciavite! – Bulma era sicura che il mal di testa non fosse più dovuto
unicamente al dopo sbornia: dopo che lui aveva
sbloccato con facilità le pesanti lastre d’acciaio che sigillavano il
generatore guasto, si era messa a trafficare con fili elettrici e valvole senza
riuscire a concentrarsi realmente. Si
ritrovava a ripetere più volte la stessa azione senza avere chiare le proprie
attenzioni. Lo sentiva sbuffare, camminare, emettere qualsiasi tipo di rumore
senza senso alle proprie spalle e ciò la distraeva, impedendole di sbrigare
quella faccenda al più presto e poi filarsela a letto a smaltire il malessere e
a piagnucolare in solitudine. Ogni volta che gli rivolgeva la parola, per farsi
dare una mano con gli attrezzi più pesanti, usava un tono capriccioso e
maleducato da perfetta bambina viziata: voleva estromettere la donna che lui
l’aveva resa, perché se si fosse comportata in maniera matura si sarebbe
soltanto complicata le cose. E poi, lui non era certo da meno. – Quale
cacciavite, donna? Qua ci sono una marea di cacciaviti! – rispose, scorbutico,
sottolineando la quantità spropositata e assolutamente irreale con fare
altezzoso.
- Quello! Quello! – era
stupefacente come venisse loro spontaneo bisticciare per quelle piccole cose,
per nascondere ogni briciola dei reali sentimenti che li animavano in quel
momento. Bulma indicò con un braccio l’aria alle proprie spalle, senza sfiorare
minimamente la zona in cui si trovava realmente l’arnese che le serviva, ma
aspettandosi che Vegeta capisse lo stesso. Lo ascoltò mugugnare qualche volgare
imprecazione, poi provò a portare davvero tutta la propria attenzione sul
piccolo reattore che stava smontando in quel momento: aveva interrotto
qualsiasi contatto elettrico prima di mettersi a lavorare, ed ora la stanza era
illuminata soltanto dalle luci rosse di emergenza, che attingevano energia da
un serbatoio che veniva utilizzato soltanto in casi estremi durante esperimenti
in laboratorio. “No, ancora non funziona.” insinuò la perfida vocina nella
mente di Bulma, palesandole come fosse impossibile per lei in quel momento non
pensare a Vegeta, alla sua pelle contro la propria: la stanza era stata invasa
dal suo odore maschio ed impertinente. Con un sospiro, la donna attese che le
venissero passati gli strumenti.
Un fragoroso clangore si
levò nella stanza quando il sayan le rovesciò a fianco l’intero contenuto della
cassettina degli attrezzi che lei aveva in precedenza riposto su un tavolo al
centro della stanza. Bulma non riuscì a trattenere un urlo, che le schiuse le
labbra deturpando la maschera di serena concentrazione del suo volto: i suoi
occhi scattarono verso il viso di Vegeta, in piedi davanti al macello che aveva
combinato. Il sorrisetto del sayan sul volto abbronzato e ruvido di numerose
battaglie era addirittura peggio di ciò che aveva immaginato: fra le mani egli
reggeva ancora la cassetta rossa, svuotata. – Trovato. – disse soltanto,
insinuante, prima di fare dietrofront e lasciare che l’oggetto cadesse
malamente a terra, provocando un nuovo sussulto in una shockata Bulma. Più che
pezzi di ferro, a terra c’erano pezzi di cuore. Di nuovo su un pavimento
freddo, davanti alla controversia di quella situazione.
- Sono stufa di te!
Stufa! – rapido com’era arrivato, esplose: cosa, non lo avrebbe saputo dire con
certezza nemmeno la stessa Bulma, che alzandosi di scatto in piedi aveva
annullato con passi svelti la distanza che la separava dal principe dei sayan. La
sua voce era bassa e minacciosa, nonostante il significato delle parole che
uscivano dalle sue labbra nascondessero un grande bisogno di sfogare l’ira:
davanti a lei tendeva l’indice nel suo solito gesto di accusa, ma nell’insieme
la sua rabbia era amplificata. Tutto di lei parlava di una bellezza violenta
che colpì Vegeta prima delle sue frasi: c’era un barlume d’irrazionalità fuori
controllo nel suo sguardo che era solitamente assente, o comunque soffocato
dalla ragione. Eppure, nella sua collera, era vulnerabile e bella come non mai:
s’era trasformata improvvisamente nella donna che stringeva fra le braccia in
quelle poche notti di passione, abbandonata alle emozioni. Non più il genio
arrogante, sicuro di sé e anche un po’ svampito che fingeva di essere. – Te ne
vai in giro per casa, fingendo che nulla ti possa toccare più di tanto e
trattandomi come l’ultima delle tue puttane! Ma cosa credi, che io sia una
cretina che ti puoi scopare quando vuoi e che scatta al primo abbaio del
principino? Sei un bruto, un bastardo che pretende il rispetto che non porta
agli altri! –
Poi, come il colpo migliore di un avversario
temibile, al suo cervello giunse la portato di quelle
grida e di quella domanda retorica: Vegeta le mostrò nuovamente i denti, senza
muovere un muscolo verso di lei ma, anzi, stringendo i pugni per non cedere
alla tentazione di punirla per quelle frasi cariche, come in ogni loro litigio.
Lei osava più di quello che la sua scarsa forza le permettesse, e il sayan
doveva trattenersi dallo sfasciare quel suo corpicino invitante ed
insopportabile. Ma c’era qualcosa in più, un’emozione nuova ed indescrivibile,
che fra loro prese a correre come un invisibile filo ad alto voltaggio. – Non un'altra parola, donna! – sibilò minaccioso e cattivo Vegeta, senza cedere
allo sguardo limpido di un briciolo di follia di Bulma.
La donna si rendeva conto di non essere più in
grado di fermarsi: la fatidica goccia che aveva fatto traboccare un vaso colmo
di delusione era ormai stata versata, ed ora quello scimmione doveva subire
l’inondazione consequenziale. – Ma tu hai la minima idea di quello che io sto
facendo per te?! Da quando sei arrivato, niente è
andato come pianificato: la mia relazione con Yamcha è finita, i miei amici
hanno paura di mettere piede a casa mia e non riesco nemmeno a concentrarmi sul
mio lavoro! Stai mandando tutto a catafascio! – Bulma agitò le braccia per
aria, come per mimare l’azione descritta dalla propria esclamazione, prima di
portare le mani fra i capelli. Sulla pelle di luna del suo viso ora spiccava il
rossore rabbioso che aveva colorato le sue gote, mettendo il risalto ancora di
più quei grandi occhi azzurri che ora fissavano Vegeta carichi di un desiderio disperato
di dimostrare un’ostilità che realmente non c’era: a contorno di quel viso dai
bei lineamenti deformati dall’ira, v’era l’intricata chioma di capelli
acquamarina, che parevano riflettere la perdita di controllo della padrona
nella loro scarmigliata forma. – Sono stata una stupida a credere che saresti
potuto cambiare qui. – eccola, la più menzognera delle verità.
Vegeta si sentì incredibilmente scosso da quelle
parole, letteralmente: sentì i propri muscoli percossi da un brivido che partì
dai limiti del suo corpo e terminò proprio al centro del suo petto di nervi e
anime massacrate. E in un attimo non seppe più cosa dirle: riempirla d’insulti
come sempre appariva banale, rispetto alla frase con cui Bulma se n’era venuta
fuori; farla volare contro il muro, spezzando la sua vita in tanti pezzettini, contro la sua stessa natura, impossibile
anche solo da immaginarsi; chiederle perdono, anche di fronte alle
contraddizioni delle colpe che gli stava attribuendo, decisamente impensabile.
Quindi le avrebbe detto di tacere, ma la donna s’era già zittita, forse a causa
della propria stessa affermazione. Infine, Vegeta si rese conto di non poter
fare nulla, solo lasciarsi trasportare dagli eventi: perché lei gli aveva
appena confessato del rimorso, ed era quanto di peggio potesse dirgli,
nonostante il sayan fosse consapevole di aver fatto del proprio peggio per
potarla sulla strada del rimpianto. – Sì, sei una stupida, terrestre. – assottigliò
lo sguardo, sferrò il colpo ben più affilato di un pugnale. E le recise il
cuore.
Sentì il sibilo fendere veloce l’aria ancora prima
che Bulma compisse il movimento, come una premonizione: la mano di Vegeta
scattò in alto, esattamente a due centimetri di distanza dalla propria guancia,
bloccando quindi il tragitto dello schiaffo con il quale la donna aveva cercato
di distruggerlo. Nessuno dei due abbandonò gli occhi dell’altro mentre quei
secondi si consumavano, lenti nella tensione che producevano: le dita del sayan
si strinsero forte attorno al polso sottile di Bulma, provocandole abbastanza
dolore da dover stringere i denti per non gemere, non troppo da dare a
quell’atto un significato di pura violenza. – Avanti, colpiscimi! Muori dalla
voglia di farlo da quando vivi qui, colpiscimi! – quell’invito era veleno,
proferito dalla sua bocca, contaminato da una simile espressione di folle
rabbia. Ed immediatamente Vegeta seppe che ce l’aveva con sé stessa,
esattamente come lui stesso faceva. No, non era per niente pentita di averlo
ospitato, di averlo accolto in casa propria e nel suo cuore: se ne fosse stata
realmente convinta, non l’avrebbe mai colpito. Non avrebbe mai cercato il
contatto con la sua pelle, per trasmettergli il rimorso unicamente delle
proprie parole avventate, ma se ne sarebbe andata a e gli avrebbe consentito di
andarsene.
- Colpiscimi! Colpiscimi! Sei o non sei un
guerriero?! – gridava Bulma, continuando a dimenarsi
per liberarsi dalla sua stretta e contemporaneamente lottare per ferirlo e
costringerlo ad un’azione difensiva con cui le avrebbe fatto del male, e quindi
costretta a guardarsi da lui per il resto della propria vita. Ciò che voleva infatti era una scusa per dimenticare i propri errori, per potersi chiamare con
convinzione stupida e riporre in un cassetto quello sguardo intenso e
penetrante che le faceva esplorare altri mondi solo rimanendo ferma fra le sue
braccia. Credeva fermamente in quella teoria di causa-effetto che si era
aggrovigliata nella sua mente: Vegeta doveva urtarla ora, ferire la sua pelle
debole che non poteva viaggiare al fianco dell’acciaio freddo e resistente di
cui era composto lui, in modo da porre dei limiti a quei sentimenti che stavano
degenerando. – Adesso basta, donna! – lo sentì tuonare, ma non gli diede
ascolto. Tentò di sferrargli una nuova sberla con la mano libera, ma la sua
stretta immobilizzò anche quella.
Qualcosa di umido sfregiò il suo volto maschio ed
aristocratico: la donna era ricorsa ai metodi più subdoli per istigarlo, per
convincerlo che era meglio per entrambi abbandonare la nave prima che
affondasse e trascinasse le loro carcasse alla deriva. Gli aveva sputato
rapidamente in faccia, un azione che lui non aveva
saputo prevedere e che fu simbolo di un orgoglio ferito e di molto altro.
Vegeta avrebbe voluto essere superiore, distruggerla con un banale colpo energetico
oppure piantarla in asso ed andarsene senza battere ciglio, indifferente.
Invece fu solo capace di dimostrare come quel gesto l’avesse ferito nel profondo dell’animo, dove
v’erano celati il bambino e la bestia: le liberò uno dei polsi soltanto per donarle
ciò per cui lo aveva pregato e picchiato, se così si poteva dire. Quando il
palmo ruvido della sua mano si avventò sulla guance
lattea di Bulma, un barlume di lucidità gli impose di dosare la propria forza:
la sfiorò secondo i suoi canoni, usando un millesimo della potenza che avrebbe
potuto ucciderla. Ma bruciò lo stesso, come le fiamme dell’inferno.
Confusion will be my epitaph.
As I crawl a cracked and broken path
if we make it we can all sit back
and laugh.
But I fear tomorrow I'll be crying.
Yes I fear tomorrow I'll be crying.
Non ci riuscì.
Bulma allacciò le braccia
al collo di Vegeta con slancio, buttandosi addosso praticamente a quell’ammasso
di muscoli d’acciaio e tormenti che s’era ritrovata ad amare con rabbia e
desiderio. Sentì l’urto del proprio corpo contro quello
solido dell’uomo ed ebbe solo qualche
istante per rendersi conto dei lividi che probabilmente s’era procurata, prima
di abbandonarsi con trasporto a quelle emozioni che aveva cercato di scacciare.
Non appena lui l’aveva toccata, seppure per ferirla
come voleva, aveva capito che non avrebbe più fatto a meno di lui: era fuoco
sulla sua pelle e dentro il suo cuore, e l’aveva marchiata per sempre come sua.
Non ebbe paura di essere rifiutata, non più di tutte le altre volte: la mente
del sayan era un linguaggio poco comprensibile anche ad un genio come lei.
Semplicemente, fece affidamento sulla potenza di quel famoso filo che li
collegava.
Lui non ricambiò subito il suo abbraccio: rimase
immobile per attimi che parvero eterni ad entrambi, ad ascoltare il respiro
affannoso della donna venire interrotto appena da un sospiro di sollevata
beatitudine. Bulma era venuta a patti con quell’irrazionalità che l’aveva
posseduta, ed ora gli si offriva come compagna con cui crescere e progredire:
forse, lui non sarebbe mai riuscito a sconfiggere il proprio lato oscuro in
fretta e con la bravura che la scienziata aveva utilizzato. Non gli sarebbero
bastate le carezze, i baci, i silenzi e, perché no, anche le incomprensioni che
si sarebbero stati: il sayan sapeva, e lo
sapeva anche lei, che per costruire la fiducia di cui avevano bisogno
avrebbero dovuto passare stagioni intere, morti e resurrezioni, e un futuro
incerto basato su dubbi e domande senza risposta. Ma non era detto che non ci
sarebbe potuto essere un loro più
grande, un domani.
Forse, valeva la pena tentare.
La strinse a sé con la potente delicatezza che solo
un guerriero in amore sa dosare. Le sue mani corsero lunga la spina dorsale
della donna, a saggiarne le morbide rotondità avide prima di bloccarsi appena
sopra il fondoschiena, attraendo contro il proprio quel corpo caldo; Bulma
allacciò di riflesso più strettamente le braccia attorno alle sue spalle,
affondato le dita in quei capelli neri e spessi, immuni alla forza di gravità
come caratteristica della sua selvaggia razza. Scostò il viso dal rifugio che
aveva cercato nell’incavo del collo di Vegeta, per poterlo guardare con
limpidezza ancora una volta, prima che le loro labbra si trovassero e
collidessero come due pianeti in esplosione. Baciarsi fu un gesto semplice e
naturale come lo era stato quella notte di due mesi prima, e come (ma ancora
non lo sapevano) sarebbe stato per sempre. L’interno della bocca del sayan,
pensò Bulma, era dolce e morbido come lo ricordava dall’ultima notte che
avevano passato insieme: una nuova conferma di quanto il mostro fosse stato
costruito solo come arma per la sopravvivenza. Lei invece possedeva ancora in
bocca il sapore amaro dell’alcol, l’altra facciata della forma angelica che
presentava agli altri, il lato oscuro che sarebbe sempre appartenuto soltanto a
Vegeta.
Vegeta la sollevò senza lasciarle il tempo di
rendersene conto, invertendo le loro posizione
cosicché potesse farla sedere sopra il tavolo vecchio e sgangherato che c’era
al centro della stanza. Le gambe di Bulma si schiusero seguendo un istinto
primordiale che non andava contraddetto: le mani grandi di Vegeta risalirono
dalle ginocchia, esplorando la consistenza della sua pelle chiara e liscia come
la seta, fino al bordo di quei pantaloncini inutili ed ingombranti. Le loro
lingue continuarono ad intrecciarsi in una danza dai canoni sconosciuti, a
cercarsi e a rincorrersi come per prosciugarne il desiderio fino all’ultima sua goccia, quasi incapaci di lasciarsi. Pensò Vegeta
ad interrompere quel contatto, soltanto per portare la propria bocca egoista
sul suo collo, dove piccoli segni rossi avrebbero costellato il firmamento
candido a prova del suo passaggio. Nessuno avrebbe dovuto ignorare lei le
appartenesse: i denti lesero la sua delicatezza piano,
procurandole ansiti che furono l’unica colonna sonora che avrebbe desiderato
per un momento del genere. Bulma s’aggrappò a lui ancora più fermamente di
quanto avesse creduto possibile, inarcando la schiena.
Le scostò le spalline di quello straccetto di
canottiera che indossava, rivelando i globi opalescenti dei seni, che furono il
successivo obiettivo della bocca del guerriero: la donna s’abbandonò con
fervore a quel susseguirsi le carezze che stava creando un paradiso dietro le
palpebre abbassate dei suoi occhi. Non l’aveva mai toccata in quel modo, così
possessivo come pure coinvolto. Non credeva neanche fosse possibile per lui
amarla in quella maniera. E fu in quel momento che ebbe la piena consapevolezza
di aver perso ogni pezzetto del proprio cuore già distrutto da più guerre di
quanto una normale persona possa sopportare, e di aver sostituito quel vuoto
latente in mezzo al petto col sorriso segreto di Vegeta, quello destinato
sempre e unicamente a lei.
Non si curò del rumore di stoffa lacerata che
provenne dal basso, quando con la semplice forza delle dita il sayan le strappò
di dosso i pantaloncini: poteva scusarlo, perché sapeva come un tale ardore non
potesse non comprendere anche una perdita di controllo che comunque non
l’avrebbe ferita. Bulma si limitò a portare le piccole mani a toccare i muscoli
modellati, gli addominali che si contrassero al suo passaggio ed infine il
tessuto dei pantaloncini da ginnastica che Vegeta comunemente indossava per gli
allenamenti. Le bastò un'unica, dolce mossa per farli scivolare via, ai suoi
piedi, e poi incontrare lo sguardo dell’uomo bruciare mentre, con una lentezza
disarmante, si univa a lei nella più stupenda delle creazioni.
E quando lei, sconvolta dall’arrivo imminente di un
orgasmo senza precedenti, passò le sue dita sottili sul suo petto largo, prima
di chinarsi a baciare una ad una le cicatrici che
contribuivano soltanto ad alimentarne la perfezione, Vegeta si sentì completo. L’indomani
l’avrebbe ignorata, avrebbe inghiottito l’emozione profonda che provava
dirigendo qualche altro pungo o sconfitta: ma in quelle poche ore che
rimanevano prima che la luce li portasse allo scoperto, non avrebbe avuto paura
di dover piangere in un futuro poco nitido ma già meno pericoloso. “Insieme a
lei” era la sola concezione di cui aveva bisogno, mentre la stringeva fra le
braccia. Per la prima volta, nella sua vita, aveva trovato il proprio posto
nell’universo.
NOTE DELL’AUTRICE
Seconda fanfic su Dragon
Ball: ve l’avevo detto che sarei tornata ;) per chi non lo sapesse, ho
pubblicato qualche tempo ha una piccola one-shot sulla
coppia Goku/Chichi, intitolata Almeno Un
Milione di Scale. Se siete interessati, potete leggerla e lasciarmi una
piccola recensione.
Okay, la coppia formata da Vegeta e Bulma è sempre
stata quella da cui sono stata più attratta: la loro storia è ricca di
risentimenti e passione, e penso che sia naturale che abbia così tanto seguito
anche solo in questo bellissimo sito di storie. Ho voluto dare il mio
contributo, pubblicando questa mia versione dei fatti. La one-shot
è ispirata alla bellissima canzone dell’artista Janis Joplin che le da il nome, Piece of My Heart, e che si riferisce
più o meno ai sentimenti che Bulma prova. Dall’altra parte, incolonnata a
sinistra per differenziarla dal capolavoro della Joplin,
c’è una canzone che invece dedico a Vegeta e che, a mio parere, è altrettanto
bella: Epitaph dei King Crimson. Di essa compare anche una
citazione, all’incirca alla fine del terzo paragrafo: potete ritrovarlo nel
testo.
Altra citazione degna di nota è “Perché spesso le
parole hanno due significati” da Stairway
to Heaven dei mitici Led Zeppelin. "La notte di un giorno difficile" invece è un ovvio riferimento a A Hard Day's Night de The Beatles.
Personalmente, sono molto soddisfatta di questo mio
lavoro: spero proprio che a voi piaccia quanto a me. Fatemi sapere le vostre
opinioni, anche critiche se ci sono, poiché se costruttive mi aiuteranno a
migliorarvi. Se vi va, date un’occhiata alle mie altre storie: attualmente, ne
ho tre in corso.
Un bacio a tutti!
Charlie