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Autore: mich key    21/10/2011    2 recensioni
"Mi ero appena rimessa seduta, quando mi cadde l'occhio su una chioma bionda. Non potevo vedere in faccia la persona a cui apparteneva, ma mi incantai a vedere la coda di cavallo muoversi a piccoli scatti di qua e di là"
«è dolce in modo assurdo ma non diabetico» Solli(la mia beta)
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash, Shoujo-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La prima volta che la vidi mi ero da poco trasferita nella mia nuova casa a Vienna. Stavo leggendo un libro, seduta scompostamente sul pouf. A un certo punto, un piccolo movimento da un lato del mio campo visivo attirò la mia attenzione. Una zanzara. Dannata. Mi diedi un sonoro schiaffone sul braccio, facendomi un male cane, ma mi era sfuggita, la bastarda. La rividi un attimo dopo, rasoterra. Senza pensare, buttai verso di lei il braccio col libro, ottenendo come unico risultato quello di scivolare giù dal pouf in un modo ridicolo. D'istinto, alzai gli occhi alla finestra, per vedere se qualcuno nel palazzo davanti fosse affacciato al balcone e mi avesse vista. Nessuno stava ridendo fragorosamente di me, per fortuna. Mi ero appena rimessa seduta, quando mi cadde l'occhio su una chioma bionda. Non potevo vedere in faccia la persona a cui apparteneva, ma mi incantai a vedere la coda di cavallo muoversi a piccoli scatti di qua e di là. Mi venne il dubbio che stesse ridacchiando, ma lo scacciai. La persona, anzi, la ragazza, si voltò a guardarmi con un sorriso per poi rigirarsi di scatto. Si, stava decisamente ridacchiando. Nonostante sentissi la mia faccia diventare pericolosamente rossa, mi rimisi comoda e cercai di ricominciare a leggere. Avevo anche perso il segno. Dannazione.


Da quel giorno cominciò uno strano rapporto silenzioso tra me e lei. Perlopiù unilaterale, ad essere sinceri. Ogni tanto, mentre bighellonavo in camera mia o facevo i compiti o stavo al computer, davo un'occhiata dalla finestra verso quella che doveva essere camera sua, e spesso la trovavo lì. In quel caso, facendo finta di leggere, sbirciavo fuori e mi incantavo a fissarla. Nel giro di poche settimane avevo imparato a memoria il suo viso, quando c'era, e la parte di arredo che potevo scorgere dal mio pouf, quando era via. Cominciai a fare lì anche i compiti e a volte mi sorprendevo, a metà di una pagina di storia, a fissare quel punto fuori dalla finestra che ormai conoscevo così bene. Sapevo qual'era il suo gruppo musicale preferito, grazie ai poster alle pareti, e avevo fatto un'ipotesi su quale fosse la scuola a cui andasse. Ogni tanto i nostri sguardi si incrociavano. Un paio di volte addirittura mi sorrise, ma i nostri contatti reali, non immaginati da me, si fermavano lì.


Una notte sognai di prendere un megafono e cominciare a parlarle, darle appuntamento da qualche parte, mentre lei mi rispondeva scrivendo su una lavagnetta. Nel sogno, le parole volavano e rimanevano lì a galleggiare, sospese nello spazio tra i due edifici. Da sveglia, mi diedi della sciocca: sia per il sogno in sé, sia perché non avrei comunque mai avuto il coraggio di fare una cosa del genere. Lo stesso, quel giorno, passando accanto alla cartoleria, non potei evitare di chiedermi se vendessero delle lavagnette e, se sì, quanto avrei dovuto scrivere grande perché lei mi vedesse. Scossi la testa e continuai a camminare. Due giorni dopo qualcosa di nuovo ruppe quella sorta di equilibrio che si era creato tra noi. Anzi, da me verso di lei. Come era ormai diventata abitudine, stavo sfogliando un libro accasciata sul pouf, quando vidi la familiare coda di cavallo bionda sventolare dall'altra parte dei quattro centimetri di vetro e due metri e mezzo d'aria e pioggia che ci separavano. Siccome era girata, mi misi tranquillamente ad osservare. Dopo poco, però, vidi un'altra figura femminile avvicinarsi a lei. La cosa mi stupì: non avevo mai visto qualcun altro oltre a lei, in quella stanza. La figura mi appariva sfocata a causa della pioggia pesante che stava cadendo, e io rimanevo lì, indecisa tra la curiosità e la sensazione di stare per la prima volta davvero invadendo la sua vita senza permesso. L'altra le si avvicinò sempre di più, mentre il mio cuore batteva sempre più forte. Quando cominciarono a baciarsi, per me fu troppo. Con vergogna e con una sorta di stupido fastidio mi alzai e me ne andai.


Non rimasi lontana dal pouf per molto, però. Potevo ripetermi finché mi pareva che continuavo a fare i compiti lì perché era comodo, ma in fondo sapevo di voler continuare ad ammirarla, e anche se ormai pensare a lei mi provocava sentimenti contrastanti non del tutto piacevoli, non potevo evitarmi di continuare a tenere d'occhio quella finestra. Rividi l'altra ragazza un paio di volte, e in tutte, anche se non stavano facendo niente (non ancora, almeno) mi costrinsi ad andarmene. Finché una volta, al posto di scorgerle, le sentii parlare. Non urlavano così forte da lasciarmi capire cosa dicessero, ma nel pomeriggio silenzioso riuscivo a capire perfettamente che stavano litigando. Sembrava una discussione parecchio accesa. Rimasi lì, con un certo senso di colpa, ad ascoltare e a sbirciare, saettando continuamente con gli occhi dalla sua finestra al mio libro, fino a che non le vidi. Resistetti per neanche cinque secondi prima di rannicchiarmi a terra, sotto la finestra aperta, dalla paura che mi vedessero spiarle. Rimasi così fino a che non smisero di urlare. Allora, con cautela, mi rialzai e, senza avere il coraggio di controllare se lei fosse ancora lì, me ne andai.


Il giorno successivo, ritrovai lei affacciata alla finestra. Guardava con aria triste il cielo e aveva il viso rosso, come se avesse pianto a lungo. Cercai di ignorarla, ripetendo tra me e me i principi dell'Illuminismo, i sette re di Roma, i componenti della cellula; qualsiasi cosa, insomma, che riuscisse a distrarmi, perché quelli non erano affari miei. Fu tutto inutile. Quando alzai gli occhi dal libro, mi stava guardando con aria assente. Rimasi impietrita, mio malgrado. Lei appariva stanca, e mi fissava come se ormai non le importasse più nulla di ciò che potesse pensare la sua vicina di casa con cui non aveva mai scambiato neanche una parola. Perché per lei io non ero altro che quello. Eppure, da come si appoggiava al parapetto, sentivo che lei non avrebbe voluto altro che sfogarsi con qualcuno, e io avrei fatto qualunque cosa per essere quel qualcuno. Con il cuore in gola, presi il mio quaderno e il pennarello più spesso che riuscii a trovare e scrissi: “Ti va di parlarne?”, poi glielo mostrai. Lei spalancò gli occhi, ma non fece nient'altro. Voltai pagina e aggiunsi: “ Tra parentesi, io sono Liz, piacere”. Appena lo lesse, sorrise, si indicò e sillabò qualcosa. Non avevo capito niente, ma non mi importava. Le scrissi: “Davanti al bar di sotto, ok?” Aspettai solo il suo cenno di assenso per infilarmi il cappotto in tutta fretta e correre giù per le scale, incontro a uno dei pomeriggi più belli della mia vita.

Salve a tutti! Non mi ricordo neanche quanti anni sono passati dall'ultima volta che ho pubblicato una storia. In realtà nel frattempo qualcosa ho scritto, ma niente che mi venisse voglia di pubblicare (o anche solo finire, a dire il vero). Ma lasciamoci il passato alle spalle! Questo racconto è nato grazie a (o per colpa di, fate un po' voi)  Solli. Infatti, questa fanciulla mi ha chiesto di scrivere uno di quei miei racconti con le spiegazioni alla Piero Angela e roba chimica sparsa in giro, ambientato a Vienna. Non ho seguito nessuna delle indicazioni, ma sono riuscita a finirlo e questo, per me, è già tanto. Tral'altro, Solli ha anche avuto al pazienza di betarmelo. Grazie.
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